Segreti di famiglia

di

Paola Libretti


Paola Libretti - Segreti di famiglia
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 154 - Euro 11,30
ISBN 978-88-6037-7715

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…Che cos’ha la nonna di tanto importante e segreto da doverlo addirittura tenere nascosto sotto chiave? Ho sempre pensato che fosse una donna dall’esistenza trasparente, con l’esclusione dell’unico oscuro episodio relativo a mio zio. E se ci fosse un nesso tra le due cose?…


A mia nonna, mio tiglio


S’è spento il brusio. Sono entrato in scena.
Poggiato allo stipite della porta, vado cogliendo nell’eco lontana
quanto la vita mi riserva.

Un’oscurità notturna mi punta contro
mille binocoli allineati.
Se solo è possibile, abba padre,
allontana questo calice da me.

Amo il tuo ostinato disegno,
e reciterò d’accordo, questa parte.
Ma ora si sta dando un altro dramma
e per questa volta almeno dispensami.

Ma l’ordine degli atti è già fissato,
e irrimediabile è il viaggio, sino in fondo.
Sono solo, tutto affonda nel fariseismo.
Vivere una vita non è attraversare un campo.

Amleto
B. Pasternak


Segreti di famiglia


La favola

C’era una volta, in un paese lontano lontano, un’isoletta piccina di forma perfettamente circolare le cui coste erano lambite da un mare così calmo e limpido da confondersi con il cielo. In assenza di nuvole non si riusciva nemmeno a distinguere la linea dell’orizzonte e pareva che l’isola fosse sospesa a mezz’aria. Vista dall’alto sembrava uno di quei giocattoli dove più anelli concentrici s’incastrano uno dentro all’altro. L’anello più esterno e più grande era costituito da una spiaggia di sabbia dorata, fine come talco, ornata di conchiglie dalle forme più svariate che sembravano incastonate nella rena come gemme preziose. V’erano anche delle splendide madreperle che, baciate dal sole, ne rifrangevano i raggi come tanti specchietti. Contigua alla spiaggia si trovava la foresta, fitta di arbusti e di alberi i cui tronchi bruni s’innalzavano fieri tra il verde brillante della vegetazione. Le loro folte chiome, a guisa di enormi ombrelli, mantenevano il sottobosco in una penombra umida e fresca dove un torrentello gorgheggiava allegro tra le felci e il muschio. Le sue dolci acque avevano origine in una sorgente sotterranea situata presso un’altura adiacente al bosco. Qui, a differenza di quanto si trovava qualche centinaio di metri più sotto, non v’erano alberi ma solo prati punteggiati da fiori multicolori che spandevano nell’aria un profumo intenso e inebriante. Infine, esattamente nel centro dell’isola, svettava un monte altissimo, una colonna di roccia lavica con un cocuzzolo perennemente ricoperto di neve candida e spumosa.
Quella era l’isola delle fate che vivevano nel bosco in completa armonia con la natura. Erano fatine buone e gentili e non si avvicinavano mai alla spiaggia né, tanto meno, alla collina dove potevano essere facile preda degli altri abitanti del posto: gli gnomi cattivi. Brutti, bassi e grassi, costoro vivevano in caverne e cunicoli scavati all’interno della grande montagna e passavano le giornate ad oziare nell’attesa dell’equinozio d’estate. Tutti gli anni, in quello stesso giorno, sbocciavano le marzanille, fiori il cui nettare era preziosissimo per la sopravvivenza delle fatine. Esse, pur consapevoli dei pericoli nei quali sarebbero incorse, erano costrette ad abbandonare il rifugio sicuro tra gli alberi e a recarsi nei prati per suggerne quanto più possibile. Gli gnomi non facevano altro che appostarsi al limitare delle radure e, non appena le fate uscivano allo scoperto, le catturavano e le defloravano intonando inni agli dei che dimoravano in cima al monte. Nel caso in cui questi ultimi avessero gradito il rituale ad essi offerto lo avrebbero dimostrato provocato un parziale scioglimento dei ghiacci, garantendo così acqua e cibo in abbondanza per un altro anno. Quindi, una volta terminate le scorribande ai danni delle inermi fatine, gli gnomi si volgevano adoranti verso il cocuzzolo della montagna nell’attesa che le nevi di superficie iniziassero a sciogliersi fluendo lungo le pareti a precipizio dapprima in timidi rivoli d’acqua e poi in corpose cascate scroscianti. A quel punto, sovreccitati per la benevolenza degli dei, quei nani selvaggi avrebbero ricominciato i festeggiamenti orgiastici angustiando ulteriormente le povere fatine finché, a notte inoltrata, si sarebbero finalmente addormentati stanchi e soddisfatti.
A distanza di qualche settimana dall’equinozio d’estate, guardando verso quell’isola piccina, si poteva notare il verificarsi di un evento insolito: nel cuore della notte, una luce dorata si alzava dal fitto del bosco illuminando il cielo come se all’improvviso fosse spuntato il sole poi, in un vorticoso batter d’ali, venivano al mondo tante piccole fatine buone e qualche brutto gnomo grassoccio che veniva abbandonato ai piedi del monte nero.


La realtà

Quando ero piccola, la sera prima di andare a dormire, ero solita chiedere alla mamma di raccontarmi la favola delle fate e degli gnomi e quando cominciava con il C’era una volta… venivo sempre pervasa dalle stesse sensazioni di eccitazione e inquietudine. Adoravo perdermi in quel mondo fantastico pur sapendo che, durante il sonno, avrei corso il rischio di vedere le mie fantasie tramutarsi in incubi nei quali quei rozzi barbuti rincorrevano anche me.
La seconda parte del racconto, quella relativa agli gnomi che defloravano le fate, è rimasta per me incomprensibile e misteriosa fino a quando sono stata abbastanza grande da perdere la verginità e capire il motivo per cui le donne della mia famiglia si tramandassero, oltre al mestiere, anche la favola. Probabilmente era la maniera meno brutale per preparare una bambina a quello che sarebbe stato il suo destino. Il mio sarebbe stato quello di diventare una prostituta.

La mia è una famiglia matriarcale nel senso che gli uomini, come dice la nonna, sono clienti e i figli incidenti. Mia nonna ha avuto dieci figli, nove femmine e una disgrazia vale a dire un maschio, e sono tutti figli di padri, o meglio, di clienti diversi. Tra tutte le sorelle, sette svolgono con profitto il mestiere e tra queste è compresa anche mia madre. Ritengo che siano le donne più belle del mondo e non lo dico per semplice cameratismo ma perché vedendole sempre così ben truccate, ben pettinate e ben vestite riescono ad affascinare anche me che sono una di loro.
Il denaro non manca, le conoscenze influenti nemmeno e ciò permette alla nostra famiglia di vivere senza grosse preoccupazioni.
Viviamo tutte assieme in una grande casa bianca che la nonna ha iniziato a far costruire qualche decennio fa coi suoi primi guadagni. Dato che funge anche da laboratorio, man mano che l’attività si è sviluppata e gli introiti sono aumentati, alla costruzione sono state aggiunte nuove stanze fino ad arrivare alle dimensioni attuali (certamente non definitive) di un grande casolare a due piani situato al termine della via principale del paese. È impossibile non scorgerlo perché è di un bianco accecante con le imposte marrone scuro. Ogni donna della famiglia ha una stanza con una finestra che affaccia sulla strada e a quella finestra è appesa una tenda d’organza del colore preferito di quella donna. Non è inusuale che gli uomini, passando, alzino gli occhi rivolgendo uno sguardo carico di desiderio a quel leggero strato di tessuto che li separa dal piacere.
Il colore preferito di mia madre è il rosa. Il mio è il verde.
Mia madre ha una stanza al primo piano, la mia camera invece è situata al secondo piano, proprio sopra la sua.

Le due sorelle rimanenti, che secondo il mio modesto parere sono semplicemente le più sfortunate, vengono considerate il disonore della famiglia perché hanno voluto maritarsi contravvenendo ad una delle regole che vigono in casa nostra. La nonna le detesta perché hanno sempre giudicato la nostra perdizione vantandosi di aver mantenuto la verginità fino al giorno del matrimonio e perché hanno sempre affermato che fosse più dignitoso avere un unico uomo da servire piuttosto che diventare schiave delle voglie peccaminose di tanti sconosciuti. Purtroppo hanno avuto la sventura di sposare uomini che, nonostante i buoni propositi iniziali, hanno cominciato ben presto a cornificarle godendo spesso dei favori delle cognate. Ed ora, non appena le povere disgraziate accennano a ribellarsi, vengono malmenate e prese a male parole proprio da quei mariti falsamente devoti. La nonna se la ride di gusto e a noi ragazze raccomanda di stare all’erta e di prendere esempio da loro. Chi, come noi, da’ piacere in cambio di denaro sarà sempre libero perché non intrattiene legami né dipendenze di sorta; chi invece si fa abbindolare da parole e sentimenti che si perdono nell’aria rimarrà facilmente schiavo di aspettative che verranno puntualmente disilluse. Ecco perché non dobbiamo sposarci né innamorarci. Gli uomini servono unicamente per procurarci mezzi di sostentamento mentre a vivere ci pensiamo da sole.
Ciò è quanto ha sempre detto la nonna ed è ciò che mi ha sempre ripetuto la mamma.

Per finire c’è il figlio maschio, lo zio che in teoria dovrei avere ma che non ho mai conosciuto e di cui mi ha parlato in gran segreto zia Beatrice. Io la chiamo zia Bea ed è la mia preferita perché oltre ad essere la più giovane di tutte, è anche la più chiacchierona. Da lei ho imparato molte cose utili, anche quelle di cui non si dovrebbe parlare, per esempio di come far arrivare in fretta un uomo al piacere in modo da non stancarsi e non annoiarsi più del necessario.
Per quanto riguarda mio zio ho saputo che nacque in inverno e che la nonna, vedendo che aveva partorito un maschio, bestemmiò allontanandolo da sé. Poi, appena fu in grado di alzarsi e camminare, lo prese, se ne andò e ricomparve dopo cinque giorni, sola. Non rivelò mai dove fosse stata né cosa avesse fatto del bambino. Secondo la zia lo abbandonò nel bosco oppure lo annegò nel fiume. Sinceramente non credo che la nonna si sia potuta rendere artefice di malefatte del genere pertanto, pur non riuscendo a comprenderne il motivo, ritengo più probabile che lo abbia lasciato in un orfanotrofio.
Provai a chiedere informazioni anche alla mamma e quando lo feci mi trascinò di corsa in camera sua, serrò la porta a chiave e mi sussurrò intimorita:
“Devo dirti una cosa molto importante Annetta, perciò ascoltami bene perché non la ripeterò. I maschi nella nostra famiglia sono considerati delle disgrazie, non li vogliamo, partorire un maschio è peggio che avere una malattia terribile. Ognuna di noi, quando rimane incinta, vive per nove mesi con il terrore che nel suo grembo possa esserci un maschio ad inquinarle il sangue. Fino ad ora, grazie a Dio, è capitato solo alla nonna che ha saputo come liberarsene e ci ha sempre garantito che, se dovesse capitare anche a noi una disgrazia del genere, provvederebbe di persona a sistemare le cose. Non chiedermi in che modo lo farebbe perché non ne ho idea e, se anche lo sapessi, non ti direi nulla. Sei perfettamente consapevole che se la nonna sentisse qualcuna di noi toccare quell’argomento si arrabbierebbe moltissimo, quindi non fare più domande né a me né a nessun altro.”
A quelle parole non potei trattenermi dal domandare perché facevamo le prostitute se non volevamo avere nulla a che fare con gli uomini. La risposta che ricevetti fu semplice, concisa e spiazzante:
“Loro sono clienti, non parenti.”

Qui s’interrompono le informazioni che ho potuto racimolare su mio zio. Per ora. Tra qualche mese ne saprò sicuramente di più. Il motivo? Sono incinta e sono certa che sarà un maschio. Lo sento, forse è vero che inquinano il sangue o, in ogni caso, fanno qualcosa per cui una donna è sicura di avere in grembo una peste. Comunque sia non ho l’angoscia di cui mi parlava la mamma, in verità sono abbastanza tranquilla anche perché so di poter contare sull’aiuto della nonna.

Nella mia famiglia vigono molte regole ed una di queste è relativa all’obbligo di informare immediatamente la nonna quando si scopre di essere incinta. Lei annota su un quaderno le date dei cicli mestruali e di quelli lunari, fa’ quattro calcoli e stabilisce la data del parto. Da quel momento si è esonerate dal ricevere clienti e ci si sposta in una stanza più tranquilla, una di quelle con la finestra rivolta verso la collina. A me è stato riservato lo stesso trattamento. Mi sono trasferita dall’altra parte del corridoio e le imposte della mia stanza d’appuntamenti sono state chiuse. Rimarranno così finché non avrò partorito e non sarò in grado di riprendere a lavorare. Accade la stessa cosa anche quando ci ammaliamo, è una specie di segnale per i clienti abituali i quali, ancora prima di entrare, sanno che non potranno richiedere le prestazioni di colei che è indisposta.
Alcuni dei miei frequentatori più affezionati, saputo dell’incidente occorsomi, sono stati così deliziosi da portarmi dei piccoli regali oppure biglietti con frasi molto tenere del tipo: mi mancano le tue dolci carezze oppure nove mesi saranno come nove anni oppure non troverò soddisfazione finché non tornerai. Solitamente me li recapitano personalmente, mi baciano e poi vanno all’appuntamento con una delle mie zie o cugine. Che carini!

Non essendo impegnata col lavoro non ho molto di cui occuparmi durante il giorno così, per evitare di annoiarmi, chiacchiero con le zie che, tra un cliente e l’altro, hanno del tempo libero da dedicarmi. Con le mie cugine invece riesco a stare pochissimo perchè hanno molti più appuntamenti delle loro madri e di conseguenza meno tempo da passare con me. Fortunatamente il clima è ancora abbastanza mite da permettermi di trascorrere qualche ora in giardino a scrivere i miei pensieri su questo piccolo diario regalatomi dalla nonna che quando me lo ha consegnato mi ha detto:
“Annetta sei una bravissima ragazza ma non ne posso più di vederti gironzolare e attaccar bottone con tutti così ho deciso di donarti questo libriccino in modo che tu possa zittirti un poco evitando di portarmi all’esasperazione.”
Ne sono cosciente, ma che ci posso fare se a me piace parlare di qualsiasi cosa con chiunque? Devo anche ammettere che la gran parte delle persone che compongono la mia famiglia ha lo stesso mio difetto. Tranne la nonna.

Di Bea ho già parlato, le altre zie sono Lucia, Susanna e Nadina che sono imbattibili nell’arte del pettegolezzo. Con loro perdo letteralmente la cognizione del tempo, chiacchierano di continuo e conoscono tutte le tresche e gli intrighi delle famiglie del paese. La sanno lunga anche sugli uomini, su cosa vogliono e cosa chiedono. Le adoro perché trovano sempre il modo di parlare in maniera tanto ironica da farmi piegare in due dalle risate.
Zia Susanna ha due gemelle di quattro anni, Mirella e Miriam, Nadina invece ha una figlia di nove anni che si chiama Luana; Lucia e Bea non hanno figli. La zia più grande è Mariuccia, le cui figlie Morgana e Stefania hanno rispettivamente ventidue e vent’anni e lavorano con noi; poi c’è Fifì che non ha figli e per finire c’è mia madre Milù che ha solo me, Annetta. Io ho diciannove anni e sono l’ultima in ordine di tempo ad essere entrata in attività.
Zia Mariuccia è colei che si è occupata della mia istruzione a livello teorico. Mi ha insegnato tutto quello che una donna deve sapere sul funzionamento del proprio corpo e sulle differenze con quello degli uomini. Si è sempre comportata in maniera molto professionale descrivendomi nei minimi particolari le posizioni, i movimenti e gli atteggiamenti da tenere e non mi ha mai nascosto i dettagli meno piacevoli come il dolore e la repulsione.
Nel momento in cui ha ritenuto che fossi sufficientemente preparata ha fissato per me alcuni appuntamenti con un suo affezionato cliente che si è prestato molto gentilmente al rito della mia iniziazione.

[continua]

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