Opere di

Nunzia Maria D'Andrea

Con questo racconto è risultata 7^ classificata – Sezione narrativa alla XIV edizione del Premio Letterario Città di Melegnano 2010


Questa la motivazione della Giuria: «Durante un viaggio in treno da pendolari, Rosa e Michele, vecchia coppia, ripercorre in assoluto silenzio tutto il travaglio amoroso della loro vita sentimentale. E’ Rosa che consapevolmente, attraverso ricordi vividi, memorie sbiadite, sente palpitare quell’amore morto, fatto di quotidianità vuote e di parole mai dette. Sa che le sue capacità e la sua intelligenza l’hanno resa vincente rispetto a lui, ma sa anche che il suo ventre sempre vuoto di figli, ha reso l’uomo triste e demotivato. E amare constatazioni le fanno comprendere che il suo compagno non ha mai percepito il ritmo delle stagioni, la bellezza dell’accettazione, della comunione affettiva. Ma non c’è rimedio: il tempo è passato, la comunicazione è impossibile. Michele preferirà scendere dal treno dopo di lei, e Rosa resterà incatenata nella sua illusione d’amore, nella pietà per Michele, e nel non senso della sua esistenza. Uno struggente senso di appartenenza fallita. Scritto con una intensità intimistica davvero notevole, questo racconto ricorda lo stile della Duras: profonda interiorità sofferta». Alessandra Crabbia


«L’ultima fermata – a mia madre»

Silenziosi reduci di una giornata che volgeva al termine, Michele e Rosa, tornavano alla loro dimora affannati, anelando un attimo di respiro, con sguardi vacui, dimessi, rimettendosi alla pietà dell’afa che li aveva riuniti ancora una volta in quel simposio cittadino.
Erano insieme, a condividere quel viaggio come ogni giorno, su quel treno che li conduceva al cuore della città, attesi e accolti come da una madre. Talvolta, avevano entrambi la sensazione che quel treno li riportasse ai propri sogni, perché era molto il tempo che passavano in quel luogo di passaggio, amico e nemico in egual modo.
Rosa beveva acqua da una bottiglietta di plastica, né assorta, né attenta, stranamente serena, quasi rassegnata. Michele guardava fuori dal finestrino e pareva che nulla fosse di più importante al mondo se non la certezza che la pianura fosse ancora là, percependone appena i colori, e intuendo che sarebbe rimasta là ancora per un tempo immemore.
Non una parola era stata pronunciata dalla sera prima da lui, dopo aver ascoltato quasi con disinteresse la notizia di Rosa. Ma Rosa lo sapeva bene che aveva colpito nel segno. Aveva sempre percepito, in tutti quegli anni insieme, prima al paese, in Basilicata, poi a Milano, trasferitisi dopo che si erano sposati nella chiesetta di San Nicola, che quando Michele non parlava e non aveva nulla da dire, significava che stava meditando dentro di sé, che rimuginava le parole, che era sempre sul punto di cadere da quel precipizio, o di sostenersi a stento, aiutato dalla mano invisibile di qualcuno che lo salvava all’ultimo istante prima di volare giù, e che poi, alla fine dei conti, era se anche stesso.

Aveva capito Rosa da molto tempo che a lui proprio non era andata giù che lei avesse fatto un po’ di strada lì al negozio di sartoria dove lavorava, mentre lui era rimasto sempre un operaio non specializzato, e non guadagnava nemmeno per pagare il mutuo, dovendo arrotondare con un dopolavoro in una tipografia.
Intuiva Rosa, l’imbarazzo di Michele, nell’avere una moglie più brava di lui, una moglie che sapeva dire sempre la cosa al momento giusto, che sapeva prendere in mano la situazione laddove lui non riusciva, il che era la maggior parte delle volte. Una moglie che aveva cercato di coltivarsi, e di trasmetter a lui l’interesse per le cose del mondo, che non ci era stata a rimanere nel suo loculo e non sapere nulla, che aveva voluto sperimentare a modo suo l’arte di proferire parole, di scriverle di leggerle.
Una moglie quasi perfetta insomma, tranne per quella sua incapacità di cambiare forma, di nutrire un seme, di far sbocciare un fiore.
A questo pensiero, gli occhi bruni di Rosa ebbero come un lampo, uno scintillio carezzevole quasi, una sorta di brillio consolatorio, di chi ha provato a raggiungere la meta ma senza sapere di dover incontrare oltre a sassi e sterpaglie, l’azzurro occhio del mare, amorevole con i propri figli, ma severo con chi non sapesse stare a galla e lasciarsi condurre dalle onde.
E lei Rosa, non sapeva nuotare.
Ancora un sorso d’acqua ormai calda, per fermare quella specie di fastidio alla gola, che una volta si chiamava nodo, ma che ora non era nient’altro che nostalgia delle cose perdute prima ancora di averle sfiorate appena.

Michele voltò un momento il capo, e incrociò per un breve istante il suo sguardo.
Lei avrebbe potuto sorridergli, e sapeva che a quel punto lui non avrebbe avuto scelta, si sarebbe sentito ancora accettato da lei, avrebbe avuto il suo consenso, la sua approvazione, e avrebbero passato giorni a cimentarsi con carinerie dal sapore un po’ rancido perché arrivate sempre tardi.
Michele soleva prepararle la tazza del thè sulla tavola al mattino, dopo le loro discussioni, giacchè quello era il suo modo per chiederle scusa.

Ma questa volta Rosa non gli sorrise. Non gli avrebbe teso quella mano Rosa, al momento di cadere, perché anche lei sentiva nel suo essere il bisogno di approdare su una terra nuova. E per una volta lui imparasse a dividere l’albume dal tuorlo. A capire il senso della musica, se non poteva conoscerne tutte le note, a voltare le pagine di un libro senza strapparle, ma soffermandosi almeno ogni tanto su quelle parole.

Si voltò Rosa, al gesto di lui compassionevole. Pareva che la supplicasse, dal profondo del suo cuore. La guardava con quegli occhi da animale ferito, gli stessi occhi che aveva avuto tutte le volte che lei gli aveva comunicato qualcosa di importante, un accadimento, una semplice notizia.
Lui si interessò nuovamente al finestrino, unico sostegno in quei minuti impassibili. Deluso e sofferente, assalito da quel timore che ormai l’ accompagnava da vent’anni, di non poter sollevare da solo il cuscino dal letto, per vedere che si era sfatto e c’erano solo piume, che volavano leggere come soffio, assorbite da una scia di vento che appena solleticava l’aria.

Bravo, quello che stava di fronte a lui, leggeva il suo giornale, quasi come un automa, senza che forse le notizie contenute lo sfiorassero minimamente. Però pareva non accusare nemmeno il caldo, e l’odore di sudore, e la stanchezza. Chissà che vita conduceva quello là. Chissà se tradiva sua moglie, chissà se pisciava da seduto o in piedi. Volse di nuovo lo sguardo Michele.
La pianura correva, senza pietà. Aveva la bellezza sfuggevole della malinconia.

Rosa guardava i capelli di lui, ormai ingrigiti, e provava un amore così profondo da toglierle il fiato, per quell’uomo che aveva tanto amato e con cui aveva condiviso giorni di speranze, di gioia, di amarezza, e infine di noiosa ripetizione di azioni sempre medesime, che non trovavano spazio per i sorrisi, e che erano molto peggio dell’irrompere di un temporale, in un giorno d’estate.
Perché quando si gioisce troppo a volte fa addirittura male, l’idea della perdita. E quando si soffre la mente non riesce a concentrarsi su nient’altro che non sia quella lama tagliente nella carne, quella spietata faina sempre in agguato e si cerca di difendersi con armi improvvisate, senza certezza né nell’ignoto né nella vittoria.
Ma è quando la vita diventa una parodia di ciò che si sarebbe voluto vivere, e i giorni si susseguono uguali e appiattiti dalle ombre del giorno, ed è quando lo specchio nel quale vedi il tuo riflesso da anni ha un alone che non viene via, allora in quel preciso momento, impari che nella vita bisognerebbe saper anche essere in grado di distinguere il susseguirsi delle stagioni, per percepirne la vitalità, e conservare il profumo delle piante sbocciate, per la stagione successiva, e la melodia delle foglie di autunno che cadono dagli alberi, e ti fanno compagnia, nella solitudine di pomeriggi silenziosi e imperturbabili.

Questo lo aveva capito Rosa.
Questo lo aveva capito anche Michele ma ora era tempo di un segno, che avrebbe nutrito ancora i loro fiori, e gettato una mano di bianco sulle pareti grigie delle loro esistenze.

Si alzò Rosa, alla vista del cartello che indicava con precisione abitudinaria, l’arrivo. Si sistemò la gonna appiccicata alle cosce Rosa.
Si passò una mano fra i capelli, bisognosi di un taglio nuovo. Sbuffò Rosa, impaziente. Tenendo in mano la sua bottiglietta d’acqua, la borsa del pranzo e la borsetta sotto il braccio.
Stava fermo Michele, rimaneva seduto. Lei lo guardò con aria interrogativa.
Lui la fissò dritto negli occhi, creando un connubio di colori straordinario, tra il bruno e il dorato, che restavano indipendenti, pur confondendosi tra loro, una sfumatura verde bosco, che poco aveva da spartire con la pianura circostante.

«Scendo alla prossima Rosa, faccio due passi a piedi« disse lui per rispondere alla domanda di lei, silenziosa. E dirlo fu più forte di ogni cosa, dirlo fu una fatica immane, fu un fardello che si scioglieva nel suo cuore.

Dirlo significava aver capito che avrebbe dovuto imparare a rompere le uova separando l’albume dal tuorlo.
E che nella vita lui avrebbe anche dovuto essere in grado di distinguere il susseguirsi delle stagioni, per percepirne la vitalità, e conservare il profumo delle piante sbocciate, per la stagione successiva, e la melodia delle foglie di autunno che cadono dagli alberi, e ti fanno compagnia, nella solitudine di pomeriggi silenziosi e imperturbabili.

Sorrise Michele, un sorriso timido, appena percepibile, ma a Rosa bastava, era prigioniera in un carcere e quello era il gesto del portantino che le potava del cibo sistemandole il tovagliolo.
Sorrise anche lei, un sorriso candido, che mostrava le rughe solenni intorno alla bocca che il tempo non le aveva risparmiato. «Io inizio a preparare la cena, mangiamo cose fredde che l’idea di cucinare mi fa star male, con questo caldo» disse lei, con tono abitudinario, ma che conteneva quella lieve eccitazione che si prova quando si ha appena ricevuto un dono inaspettato e gradito.
Perché forse è più gioiosa l’idea di riceverlo che di averlo li, fra le proprie mani.

Lui annuì e rispose «Sì, scendo all’ultima fermata e faccio due passi a piedi» ripetè mentre lei si apprestava a scendere dal treno e si fermò sulla banchina a guardarlo, il viso di lui rivolto al finestrino, e pareva che gli occhi di lei avessero ali mentre seguiva il treno che ripartiva, prima lentamente poi sempre più spedito

Rimanevano nella carrozza poche persone, avevano fretta di scendere all’ultima fermata.

Strano come per lui quella invece fosse la prima.
La vide scomparire a poco a poco, e ritornò a guardare la sua pianura, per capire se c’era un senso tutto sommato, allo sciogliersi della cera di una candela accesa, al pari di tutto ciò che era stata ed era ancora la sua vita.

Nunzia Maria D’Andrea


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