Terra amara

di

Nicola Rossello


Nicola Rossello - Terra amara
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 188 - Euro 13,50
ISBN 978-88-6587-8811

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In copertina: fotografia dell’autore


Terra amara si snoda con alti e bassi narrativi, raccontando tutta una varietà di vicende, luoghi, destini, personaggi, esistenze. L’intento è quello di restituire corpo e sangue a un mondo angusto e “malato” e pur vitalissimo: un mondo – i paesi e le campagne siciliane del secondo Novecento – per tanti versi ancora arcaico, ma che va ormai soccombendo sotto i colpi della modernità, e che forse già più non esiste.


Introduzione

Le malefatte di uno svagato dongiovanni di campagna e del suo figliolo impacciato e rancoroso. Due delinquentelli malaccorti che hanno deciso di prendere a pugni il cielo e i potenti. L’esistenza grigia e meschina in cui affonda un impiegatuccio di provincia dopo aver messo a tacere i sogni e i turbamenti della prima giovinezza. Un’allegra scampagnata al mare che conserva anche ad anni di distanza, nel ricordo di chi l’aveva vissuta, il sapore di un’avventura favolosa. Un bifolco senza arte né parte, ma capace di covare nel suo cuore il segreto di un amore impossibile. Una bambina goffa e sgraziata, il cui onore all’improvviso rischia di essere trascinato nel fango. La notte di baldoria di un gruppo di giovinastri a caccia di femmine. Le macerie e le miserie dopo un terribile terremoto nei ricordi di chi era allora soltanto una bambina. Lo sguardo innocente e ingenuo di un ragazzino che ancora nulla comprende e nulla sa. Un uomo di rispetto ammalato e stanco che sente su di sé l’ombra della morte e vede gli sciacalli pronti già a calarsi sul suo cadavere. Un bietolone sguaiato e sciocco e però pieno di allegria. La maniera accorta con cui, in paese, certi giovanotti di buona famiglia evitano di passare dei guai per una loro mala azione.
Il filo conduttore che accomuna questi bozzetti e queste scene di vita di paese è l’adozione di una sorta di “voce del villaggio” capace di dare conto di tutta una varietà di vicende, luoghi, destini, personaggi, esistenze, e di restituire corpo e sangue a un mondo angusto e “malato” e pur vitalissimo: un mondo – i paesi e le campagne siciliane del secondo Novecento – per tanti versi ancora arcaico, ma che va ormai soccombendo sotto i colpi della modernità, e che forse già più non esiste. È come se le malinconiche figure e le storie di cui ci narrava Maria Messina nelle sue novelle potessero oggi tornare miracolosamente a rivivere attraverso uno sguardo che appartiene però a un altro tempo e a un altro luogo: uno sguardo più lontano, ma che s’ingegna tuttavia di mascherare questa lontananza adottando procedimenti di scrittura “neoveristi” di ascendenza vagamente verghiana.


Terra amara


Don Gaetano

Era una giornata di sole forte. Per tutto il tempo che il corteo funebre andò salendo a passo lento lungo lo stradone che porta su su in cima al camposanto, la gente del quartiere, i vicini di casa di don Gaetano Rizzuto, tutti parati a lutto, con la camicia inzuppata di sudore e una cert’aria di afflitta compunzione stampata sul mostaccio – l’aria che ciascun galantuomo assume in simili occasioni –, non fecero che smaniare e sbuffare, stanchi com’erano per la salita e il caldo grande. E intanto che si asciugavano la fronte con il fazzoletto (il sole era a picco e lungo la strada polverosa non c’era un filo d’ombra), qualcuno di loro, per ingannare la noia e la fatica di quella passeggiata, andava cicalando della vita e delle malefatte della buonanima.
Don Gaetano – era cosa risaputa in paese – finché il male non gli s’attaccò alle ossa, era stato il principe dei gagà. Basso di statura, ma di spalle larghe, di carnagione olivastra, i baffi a punta da malandrino, gli occhi vispi e scaltri che mandavano scintille, da giovanotto era sempre pronto a fare l’asino e a correre appresso a tutte le gonnelle del circondario, zitelle o maritate che fossero. Che alcune di loro, dopo tant’anni, diventano ancora tutte rosse e arrivano a farsi il segno della croce quando qualcuno attacca a parlare di lui.
E anche dopo che s’era ammogliato con donna Ignazia Maisto e venne ad abitare vicino al frantoio, lui era sempre in giro, di qua, di là, con la sua moto Guzzi, nei paesi vicini e in quelli lontani, a volte da solo, a volte assieme a certi amici suoi della sua stessa risma, scapestrati e perdigiorno. Durante le fiere e le feste di paese, dove sapeva di poter fare la vita bella, là capitava lui, con le mani infilate nelle tasche dei calzoni, quel sorrisetto scaltro sempre stampato sulle labbra e l’aria allegra del mariuolo che se la ride di ogni cosa e si trova a suo agio sempre e ovunque come se fosse a casa propria.
Donna Ignazia, che aveva qualche annetto più di lui, era stata ai suoi bei tempi un gran pezzo di figliola, con quelle sue labbra carnose che sorridevano sempre, e quegli occhietti civettuoli e maliziosi che, quando vi guardavano, sembravano promettere tante cose. Eppure anche lei – poveretta! –, da quando le era riuscito infine di mettergli il laccio al collo (e ce n’era voluto del bello e del buono) e di trascinarlo all’altare (e l’aveva fatto – tutti lo sapevano in paese – contro la volontà dei parenti suoi e di lui, che già allora anche un ragazzino avrebbe potuto indovinare come sarebbe andata a finire la canzone), donna Ignazia si può dire che non aveva conosciuto più un solo giorno di pace. Quel mariuolo – lo dicevano tutti in paese – era stato per lei un’autentica croce. Per causa sua, la sua vita era diventata un calvario. Sempre con il cuore in pena! Sempre in mezzo ai pensieri, alle preoccupazioni, ai dispiaceri! A quella povera donna non erano bastati gli occhi per piangere!
Vero è che certa gente maligna andava dicendo in giro che donna Ignazia quella croce alla fin fine se l’era andata a cercare lei stessa con il lanternino. Perché ci trovava poi il suo gusto, la povera donna, a mortificarsi e a farsi compiangere da tutto il paese.
E però è anche vero che quella era un’indecenza, una vergogna, perché quel lazzarone, quello scioperato badava unicamente al comodo suo, e le sue sudicerie arrivava a farle alla luce del sole, sotto gli occhi di tutti, quasi fosse una cosa bella, da potersene vantare. E questo poi non è giusto. E neanche questo era giusto: che don Gaetano a casa propria si facesse vedere solamente quando era stanco di correre la cavallina e sentiva il bisogno di prendere un po’ di fiato. E nemmeno quest’altra cosa era giusta: che certi amici, certe persone dabbene – persone che avevano conosciuto suo padre e lo stimavano per un galantuomo – lui li andasse a cercare solamente quando era rimasto senza un baiocco e doveva per forza bussare a quattrini.
Perché i quattrini a lui, che era abituato a spendere e a spandere, non gli bastavano mai, e gli volavano via dalle mani come tanti granelli di sabbia. E se non fosse stato per certe persone dabbene, lui si sarebbe ridotto a chiedere l’elemosina in mezzo alla strada. Il negozio che aveva in paese, proprio al lato della chiesa, il padre di don Gaetano l’aveva ceduto al figlio quando gli era morta la moglie e lui, povero vecchio, non aveva più la testa per stare appresso agli affari. Ma quello scapestrato di starsene tutto il santo giorno tra la polvere e le mosche a servire i clienti – figurarsi! – lui non ci pensava nemmeno. Era un mestiere, quello, che non era fatto per gente dalla pelle fina e delicata come la sua.
Lui decise allora di assumere un lavorante, uno di Vigliatore, un birbante come ce n’è pochi. E quello in un paio di mesi gli fece sparire da sotto il naso metà della mercanzia.
Fu a quel punto che donna Ignazia, poveretta, si dovette rimboccare le maniche, che quella alla fin fine era anche roba sua, sangue del suo sangue. E a questo mondo, si sa, non si può vivere soltanto di paroline dolci e di belle canzonette. Donna Ignazia andò dunque a piazzarsi dietro il bancone, tra file di bibite gasate e scatole di conserva di pomodoro e di biscotti mezzo ammuffiti, con il suo grembiule scuro e i capelli annodati dietro la nuca, ad aspettare che arrivasse qualche cliente. Non era più, donna Ignazia, quel gran pezzo di figliola dei bei tempi andati. Poco o nulla le era rimasto della sua antica bellezza. Che se qualcuna delle sue amiche del tempo della scuola fosse capitata lì per caso, o anche una di quelle ragazzotte con cui ancora pochi anni addietro andava a ballare in comitiva nelle sale estive di Falcone o di Olivieri, quella, chi lo sa, forse non l’avrebbe nemmeno riconosciuta. Tanto l’avevano ingrigita e avvilita preoccupazioni e dispiaceri e miserie!
Per lei che era cresciuta sempre in mezzo alla seta e all’oro fino – suo padre, don Pietro Maisto, ve lo ricordate? Era imparentato alla lontana con l’avvocato Scalise. E ai tempi del Fascio era uno degli uomini più ricchi del paese. Uno di quelli che contavano, tanto che tutti si scappellavano davanti a lui quando lo vedevano passare per strada e gli portavano rispetto per quel po’ po’ di baiocchi che aveva in banca. E anche dopo la guerra, quando la fortuna aveva principiato a girare storta per certi galantuomini, gli erano rimaste le terre oltre il mulino vecchio, terre grasse e buone che rendevano ogni anno tanti bei quattrinelli –, per donna Ignazia, che era abituata ad essere sempre servita e riverita, ad essere trattata da tutti con i guanti come una principessa, quello di mettersi a fare la merciaia fu una mortificazione non da poco. Ma, si sa, quando uno si trova nel bisogno, non gli serve a nulla ripensare ai bei tempi andati. E se il destino ha deciso che una cosa deve succedere, a noi altri non ci resta che chinare il capo e farci il segno della croce.
E donna Ignazia, poveretta, il segno della croce se lo fece. Ma il coraggio a lei non le mancava, che era una di quelle femmine, donna Ignazia, che dovrebbero portare i calzoni. Nel suo sangue, non per niente, scorreva il sangue dei Maisto, sangue di gente di rispetto. E se pure le era toccato mandar giù tanti bocconi amari a causa di quel mariuolo di suo marito, per il rimanente lei sapeva anche farsi rispettare, e i piedi in testa non se li lasciava mettere da nessuno. E così in negozio, quando una comare arrivava a dire che il riso che aveva comprato aveva messo i vermi, e che l’avevano imbrogliata, e che adesso lei voleva indietro i suoi soldi, donna Ignazia era anche capace di mettersi a strillare peggio di una lavandaia, tanto che la potevano sentire fino alle ultime case del paese.

E la storia della bella di Gala, ve la ricordate? Fu l’anno della grandine grossa, quella che cadde alla fine dell’estate e rovinò le vigne. Michelino aveva principiato a mettere su i primi dentini. Don Gaetano andava ormai sui trent’anni, ma quel birbante era tale e quale a un ragazzino che va ancora a scuola. E davvero lui era uno di quelli che non diventano mai grandi.
La sera dell’Assunta don Gaetano se ne andò con la sua moto Guzzi a Gala, dove c’era la festa. E là chi ti incontra? Uno che conosceva un poco di vista, per averlo incontrato tempo addietro alla fiera di San Biagio. Gala – lo sanno tutti – è un paese di camorristi e di mafiosi, di gente di sangue caldo che in galera ci entra e ci esce come se niente fosse. Ma l’amico, quello che lui incontrò alla festa, doveva essere davvero un povero minchione. Insomma: si bevono insieme un bicchiere di birra. Chiacchierano un poco dei bei tempi andati, degli amici che avevano in comune. Poi lui se lo porta in giro per il paese e gli fa conoscere un po’ di bella compagnia. Don Gaetano – voi lo sapete – era uno sempre allegro, con lo scilinguagnolo sciolto, sicché a ciascuno faceva piacere fare un po’ di conversazione con lui. Ad ogni festa di paese – voi lo sapete – ci si diverte, si scherza, si ride. Quando delle belle ragazze passano per strada tenendosi a braccetto, i giovanotti le guardano con intenzione. Qualcuno getta là una parolina o una battuta di spirito. Gli altri si scambiano un’occhiata d’intesa e intanto sogghignano. Don Gaetano e i suoi amici si erano sistemati comodi comodi ai tavolini del bar per godersi lo spettacolo di tutta quella bella gente che formicolava e andava e veniva, avanti e indietro lungo il corso principale del paese. Passò anche la sorella del minchione assieme a un’amica. Quello – il minchione – scatta allora in piedi e le blocca. Voleva far conoscere la sorella al forestiero, perché la ragazza, nel suo vestitino buono della domenica, faceva davvero la sua figura. Dovevate vederla: un gran pezzo di figliola! Con due poppe gonfie come due mozzarelle! Giovane giovane ancora, ma bella come ce n’erano poche! Una che – così andavano dicendo – quando camminava per strada, era capace di far girare la testa anche a Domineddio. Don Gaetano – ve lo lascio immaginare – a vedersi messo così sotto il naso quel po’ po’ di mercanzia, lui non ci pensa due volte. Si dà una lisciata ai baffi e parte alla carica.
Il povero minchione, che pure un poco don Gaetano lo conosceva, e doveva pur sapere di che pasta era fatto, s’era persuaso, chissà perché, di avere a che fare con una persona a posto, con un amico fidato, e così lui non vede, non sente, non capisce. E sì che quello scostumato si andava dando da fare proprio lì, sotto il suo naso. È che se uno nasce mammalucco e babbeo, gli potete anche raccontare che avete visto un asino volare per aria e lui ci crederà.
Don Gaetano fece il carino con la bella per tutta la serata. Ma con garbo e con pulizia, ché lui in queste cose era un maestro patentato e ci sapeva fare. Aveva l’occhio fino, lui. Sapeva ben distinguere tra una signorinella di famiglia perbene, tirata su con la buona educazione, e una di quelle femmine di campagna, che crescono in mezzo ai porci e alle galline. E sapeva capire quando era e quando non era il caso di allungare le mani o di dire certe spiritosaggini e certe indecenze. Si limitò, quella sera, a sussurrare all’orecchio della bella un po’ di paroline dolci, e a sorriderle, e a lanciarle di nascosto delle occhiate malandrine.
La bella, che pure – dicevano – in passato aveva fatto uscire di cervello tanti bravi giovanotti del paese, quella sera fu lei che si sentì tutta squagliare dentro. Non diceva niente. Teneva il capo basso e sorrideva, come se stesse pensando a cose che lei sola conosceva. Di quando in quando sollevava la testa per spiare il volto del forestiero, ma incrociava il suo sguardo e allora si faceva tutta rossa. Le grida dei venditori di torrone e noccioline americane si confondevano con la musica della banda municipale che suonava sul palco, e con il vocio dei bambini, e le risate delle comitive, e il crepitio dei mortaretti e i fischi dei razzi che salivano lucenti su nel cielo.
Per farvela breve: il giorno appresso don Gaetano si presenta tutto vestito elegante e con i capelli lisci di brillantina a casa di lei. Là ti trova il minchione assieme alla mamma (il padre era morto tempo addietro). La mamma era una vecchia cornacchia senza denti, che mandava un cattivo odore di piscio e di Ddt. Lui sfodera il suo sorriso più malandrino, le dice di essere un amico di vecchia data del povero minchione e le chiede il permesso di frequentare la sua figliuola. Quella lascia perdere le patate che andava pelando, pensa bene di parlare un poco a quattrocchi con il figlio (che, a tutto quel discorso di don Gaetano, se ne era rimasto lì con la bocca aperta, rigido come un baccalà) e alla fine gli dice di sì.
Insomma: i due si fidanzarono ufficialmente. E da quel giorno stesso principiarono a darsi agli spassi e alla vita bella. Lui capitava lì mattina e sera con una guantiera di cannoli di ricotta o una cassata o una bottiglia di rosolio, sempre con il vestito buono, le scarpe lucidissime che gli scricchiolavano sotto i piedi e l’orologio d’oro al polso. Si fermava un poco a raccontare qualche barzelletta alla vecchia cornacchia, che lo lasciava dire e intanto sorrideva con la sua bocca senza denti e faceva di sì con la testa; salutava il minchione dandogli una pacca sulle spalle e poi via sulla moto Guzzi con la fidanzata. Se la scialavano. Andavano a fare una gita al mare, o una merenda in campagna, o una passeggiata sotto le stelle. Per tutto poi, durante l’estate, v’erano feste di paese, sagre, sale da ballo, cinematografi, pizzerie.
Con lei, lui era tutto zucchero e miele. Lei, quando erano insieme sulla moto Guzzi e lui dava un’accelerata dicendo: “Tieniti bene. Ora si balla!”, gli si stringeva forte forte al fianco, chiudeva gli occhi e sorrideva.
Il resto ve lo potete immaginare da soli.
Don Gaetano, da quel malandrino che era, andava dicendo in giro che era il figlio di un notaio di Rometta, e che aspettava soltanto che il padre tirasse le cuoia, che lui poi avrebbe fatto la vita del pascià. Per l’intanto si contentava di darsi al bel tempo trascorrendo le giornate come meglio poteva, ma sempre in allegria, perché la vita è breve e si vive una volta sola. E poi, si sa, in questa valle di lacrime gli anni belli non tornano più indietro. I baiocchi? I baiocchi erano fatti per essere spesi, non per fargli fare la muffa sotto il materasso. E se questo uno non arriva a capirlo, allora è meglio che se ne stia a casa a fare la calza.
La storia con la bella di Gala andò avanti per un paio di mesi. Lui e lei sempre a darsi agli spassi, quasi fosse sempre carnevale. Don Gaetano fece conoscere la fidanzata anche a certi suoi amici di qua, malandrini della sua stessa razza, che lo conoscevano bene e che, intanto che si andavano felicitando con la bella, se la ridevano proprio di gusto pensando alla birbanteria dell’amico.
Per tutto quel tempo don Gaetano a casa si fece vedere poco o niente, che ogni volta che gli capitava di passare di lì per dare un bacetto a Michelino, gli toccava poi sentire le lagne e i piagnistei e le male parole di donna Ignazia, perché era una donna, quella – così lui andava dicendo in giro – che avrebbe preteso di tenere sempre attaccato il marito là, alla sua sottana.

[continua]


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