Opere di

Michele Ungolo




Michele Ungolo


Opera 1^ classificata sezione Narrativa


L’ultimo Supereroe senza poteri


La sordità è stata la mia fortuna.
Mi chiamo Vito Borghi e ho perduto l’udito a sessantadue anni, poco prima di andare in pensione, a dire il vero, è stato proprio grazie a questa invalidità se ho accorciato gli anni che mi mancavano per congedarmi dal lavoro. Ero il capostazione della ferrovia di Grassano, Garaguso e Tricarico, tre comuni lucani i quali si dividevano in parti eque il merito di aver costruito una stazione per i cittadini lucani. Per me, al contrario, è stata una disgrazia. Il fischio dell’unico treno che passava da lì, mi ha portato a perdere gradualmente uno dei cinque sensi, 130 decibel dentro le mie orecchie,ogni giorno per trentatré anni.
All’inizio ho nascosto a tutti il mio difetto, mi vergognavo troppo e non volevo essere etichettato come il sordo del paese, Stigliano è una cittadina piccola, ci conosciamo tutti, sarei diventato facilmente lo zimbello di amici e parenti, già immaginavo il soprannome che mi avrebbero affibbiato: “Veite le sorde”1, del duetto musicale con “Peppe le meute”2, quest’ultimo, Peppe, era mio cugino, muto per scelta, aveva fatto il voto del silenzio, “preferisco stare zitto piuttosto che parlare con la gente ignorante”, disse l’ultima volta che parlò.
Io sordo, lui muto, e la band musicale sarebbe stata al completo.
Con il tempo mi sono impegnato e ho imparato a leggere il labiale, ero diventato talmente bravo che nessuno si è mai accorto della mia sordità, probabilmente non sempre sono riuscito a comprendere le cose esatte, ma oggigiorno chi capisce veramente le cose?
Solamente mia moglie ha seguito l’evolversi del problema, è stata mia complice fino a quando non ha raggiunto nostro Signore.
La sua è stata una morte nobile, si è spenta durante il sonno, e francamente mi auguro di raggiungerla allo stesso modo.
Ho vissuto gran parte della vita dentro le pareti della mia testa, senza udito è difficile aprirsi al mondo. Quando rimani da solo il tempo non passa mai, dopo aver seppellito mia moglie ho trascorso due intere settimane a osservare l’orologio appeso sulla parete della cucina, lo fissavo incessantemente fino a quando le lancette non si posavano entrambe su mezzogiorno, a quel punto mi alzavo dalla poltrona e cucinavo qualcosa da mangiare, apparecchiavo sempre la tavola per due, un gesto spontaneo che mi faceva sentire in compagnia. Dopo aver pranzato, lavato e sistemato i piatti nella credenza, tornavo sulla poltrona e aspettavo che arrivassero le diciannove per accendere la TV e vedere l’edizione del telegiornale. Alle ventuno, puntuale, salivo al piano superiore, mi sdraiavo sul letto, fissavo per qualche istante la macchia umida che ingialliva il soffitto intorno al lampadario e infine mi addormentavo.
Una sera mi sdraiai sul letto con addosso ancora i vestiti, fissai la macchia umida fino all’alba, quando le prime luci del mattino filtrarono dal balcone alla mia destra, mi alzai dal letto, andai in bagno, mi guardai allo specchio, e spuntai un pochino i baffi.
Da ragazzino, a dodici anni, avevo già la barba, rasavo tutto quanto tranne quei pochi peletti che nascevano da sotto il naso fin sopra le labbra, i baffi mi hanno sempre fatto sentire importante, più maturo agli occhi della gente .Quando poi sono cresciuto, cercavo di nascondere i peli bianchi tagliando solo quelli, ma ormai non ha più importanza se quelli scuri sono quasi scomparsi.
Raccolsi i pochi abiti che avevo nell’armadio, li misi dentro un sacco nero, poi indossai il basco sulla testa e il gilet di velluto blu, chiusi la porta a chiave con tre mandate e mi allontanai da casa.
All’epoca avevo un piccolo orticello, lo coltivavo e custodivo con gelosia, non avevo molte piantagioni, ma era il mio passatempo preferito. Mi misi a raccogliere i pochi ortaggi nati da qualche giorno: quattro pomodori, due zucchine e un’enorme cespo di lattuga, misi tutto dentro il sacco che conteneva i vestiti, accarezzai la pianta delle mandorle, e con un sorriso mi allontanai da quel luogo creato a mani nude con amore e sudore.
Pochi istanti dopo mi trovai di fronte un cancello in ferro battuto, alle sue spalle, oltre il vialetto, intravedevo l’ingresso della maestosa struttura, simile a una di quelle ville in stile moderno che si vedono spesso nelle vetrine delle agenzie immobiliari.
Sopra il campanello, che suonai per avvertire della mia presenza, era collocata una targhetta in pietra con all’interno il nome del posto “Casa Hostilianus”.
Oggi, a novantasei anni, vivo ancora in questa casa di riposo.
Noi anziani ci muoviamo lentamente, ma i nostri pensieri sono così veloci che spesso li dimentichiamo, un po’ come accade a Maria Antonia, la mia nuova compagna.
Entrambi vedovi con più di novant’anni alle spalle e senza troppe farfalle nello stomaco.
L’amore, quello vero, è quella cosa che provi solo una volta nella vita, puoi sentirlo ardere dentro, crescere, svilupparsi, mutare, ma rimane sempre tra quelle labbra che sfiorano le tue per la prima volta, quando ancora non sai nulla di tutto ciò che accadrà dopo. Sfiorare altre labbra, non mi ha mai dato la stessa emozione della prima volta. Nel momento in cui hai una nuova persona nella tua vita, il cuore batte forte, ma come accade con la cipolla, per arrivare alla parte interna, il fogliame esterno si sgretola e non puoi sistemare i pezzi per ricomporla così com’era. Siamo una coppia, ma non abbiamo più nulla da chiedere all’amore, siamo due persone che condividono insieme i pochi giorni rimasti, ci prendiamo cura l’uno dell’altro senza sognare più di quanto ci è concesso.
Quasi ogni giorno si dimentica di tutto, a volte anche di me, se c’è un qualcosa che mi porto dietro da anni, quella è la pazienza. Ho appuntato su un taccuino le cose più importanti per lei, gliele leggo durante i suoi momenti vuoti, le mostro le foto dei suoi figli e pian piano torna a ricordare tutto quanto. Se Maria Antonia dimentica le cose, io purtroppo ricordo perfettamente tutto.
Gaetano, Vincenzo, Nicola, Antonio, Filippo, sono solamente alcuni degli uomini che nel tempo hanno condiviso la camera con me, li ho visti entrare con le proprie gambe e uscire con quelle degli altri. Non è stata un’epidemia, una guerra o un meteorite a spazzare via tutti i miei fratelli, ma l’evolversi della vita, e il suo ultimo stadio: la vecchiaia.
Quando rimani l’ultimo, non sempre si tratta di fortuna.
Entrare in camera e trovare una persona nuova che sta per occupare il letto lasciato vuoto è atroce. Ricomincia tutto daccapo: «Piacere, io sono Vito, dormo nel letto vicino al termosifone, l’altro è il tuo». Inizia sempre così la conoscenza per me, prima si spiegano le regole della stanza, e poi pian piano si illustra tutto il resto.
E dal momento in cui ti affezioni, ricomincia la mia maledizione, l’uomo che fino a pochi istanti prima divideva la stanza con te, strappava fogli di carta dal tuo rotolo di carta igienica, lavava la faccia nello stesso lavandino e usava il tuo asciugamano perché non sapeva dove asciugarsi, sparisce per sempre, l’unica consolazione che ho è quella di non riuscire a sentire il loro dolore. Quando il mio coinquilino muore, piango per tre giorni, il primo per rispettare la sua assenza e ricordare quello che mi ha lasciato la sua compagnia, il secondo per la sciagura della solitudine, e il terzo giorno piango già per chi dovrà arrivare dopo, nel caso in cui sia io a lasciare la stanza prima di lui, voglio ricambiare fin da subito le lacrime che potrebbe versare per me.
Natalino è stato il mio coinquilino per più tempo, alto un metro e novanta, leggermente incurvato in avanti e magro da far paura, aveva lavorato con l’ANAS fino alla pensione. Amante dell’abbigliamento elegante, indossava quasi sempre una giacca di velluto marrone sopra una camicia bianca, le pantofole di pezza, però, non le toglieva mai, diceva: «Quando sto in casa, devo stare comodo». Prima di arrivare in Casa Hostilianus subì un intervento chirurgico importante, gli asportarono parte dello stomaco e da quel momento fu costretto a raccogliere le feci all’interno di una sacca, per forza di cose le OSS (Operatore Socio Assistenziale) gliela dovevano sostituire ogni giorno.I tre anni insieme sono praticamente volati.
Aveva quattro figli, tutti maschi, e non passava giorno che non venissero a trovarlo e quando non potevano venire, lo chiamavano sempre.
Nella casa di riposo, ognuno di noi trova il suo spazio, una sorta di posto fisso,che non ha nulla a che vedere con il lavoro, ma semplicemente nella scelta di una seduta, dove ti siedi il primo giorno lì rimani per sempre, e guai a chi osa occupare il tuo spazio.
Avevo scelto una poltrona con alle spalle una finestra che dava sul giardino,da lì avevo ampia veduta su tutta la sala e potevo controllare entrambi i corridoi di destra e sinistra che portavano al dormitorio. In realtà avevo scelto quel posto anche perché di fronte avevo la porta dell’ingresso, ogni tanto mi fermavo a guardarla e speravo entrasse mio figlio, ma questo non è mai accaduto. Ha dimenticato di avere un padre, io però non ho mai messo da parte l’amore che provo per lui. Troppo impegnato nella sua vita, non lo biasimo affatto, l’ultima volta che l’ho visto, è stato durante il funerale della madre, si è fermato per soli due giorni, ma è stato come rivivere tutta la sua infanzia, da all’ora sono trascorsi tanti anni, ho smesso di contarli.
Questo posto è tutto ciò che vedrò da qui alla fine. Non è poi così diverso da una stazione dei treni, ognuno sale e scende, entra ed esce, con la sua valigia oppure senza.
I tuoi abiti d’un tratto non hanno più valore, gli armadi si svuotano, e le borse si riempiono dei pochi affetti che lasciamo nel testamento per chi rimane.
Da giovane la paura più grande è quella di morire troppo presto, da vecchio, invece, è quella di dover vivere ancora a lungo. Arriva un momento in cui ti svegli dopo una lunga dormita e speri di trovarti d’innanzi a San Pietro, desideri che apra finalmente quel cancello per farti entrare, ma ciò non accade e ti ritrovi ancora nel tuo letto.
Mi piace credere che, dopo la morte, i pensieri vivono dentro la testa ancora per un po’, fino a quando passa qualcuno dalle nostre parti e li recupera,è così che diamo vita al nuovo, ed è così che anche da morti continuiamo a vivere.



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