Racconto premiato di Michael Zamaro


Con questo racconto è risultato 3° classificato – Sezione narrativa alla XVI Edizione del Concorso Città di Melegnano 2011


Questa la motivazione della Giuria: «Racconto farsesco ed esilarante nel quale un ubriacone, ladruncolo e filosofo, alle prese con una vita da clochard piena di cinismo ed espedienti, esprime tutte le storture intellettuali della gente di strada e le cita con disinvolto sarcasmo ma anche con acuta curiosità intellettuale.
Questo emulo di Charles Bukowski , spaziando tra le varie etnie cittadine incontrate casualmente su un autobus, per lui luogo di borseggio, si ritrova a conversare con una sua possibile preda, un cinese che sta leggendo un libro sulla cui copertina un uomo tenta di suicidarsi puntandosi una banana alla testa.
La demenzialità dell’immagine scatena la fantasia dell’ ubriacone, che entra in contatto con la cultura cinese e cerca di risolvere il dubbio metropolitano dell’enigma dei cinesi defunti. Dove vanno le salme? Perché non se ne sa mai nulla? E’ vera la tesi dello scrittore Roberto Saviano, che vengono surgelati in massa e spediti in patria? Il cinese, colto e intelligente, nega tale ipotesi con salace prontezza. In tale scambio dialettico, il clochard desiste dai suoi propositi illeciti e lo segue in un ristorante per approfondire questo scambio umano e mentale. Feroce, border- line, nell’assenza di qualsivoglia trasporto sentimentale, questo racconto brilla di originalità e non si cura affatto di piacere a tutti.
E cos’è la vera arte, se non questa?».

Alessandra Crabbia


Surgelati cinesi

Quante sono le probabilità di acquistare il “buon senso” guardando un ragazzo che tenta di suicidarsi puntandosi una banana in testa? Mi prenderete per pazzo, però io, quella probabilità l’ho trovata.
Nel mio tempo libero stazionavo come il più classico degli ubriaconi falliti allo Cherry, il bar più economico della zona. Riuscivo ad ubriacarmi passando solamente la mia carta di credito (i contanti non bastavano mai), frutto dei brutti tempi in cui facevo il ragioniere. Ad essere sincero, il mio tempo libero era tutto libero. Ero il classico disoccupato per scelta, un altro relitto urbano mantenuto dallo stato a discapito di quegli idioti come te, che pagano regolarmente le tasse.
Nel mio beneamato tempo libero, se non ero solito ad ubriacarmi in piena solitudine, meditavo sui metodi maggiormente “non convenzionali” per fare soldi con il minor tempo e la minor fatica fisica possibile. Tra le varie opzioni, avevo cerebralmente brevettato il furto di portafogli alle classi senili o agli stranieri, inventarmi dei mestieri fittizi per introdurmi in case, stanze albergo e quant’altro, oppure di acquistare una 44 magnum e tentare una rapina in banca, ma la mia carta di credito non avallava tale spesa. Tutte idee originalissime, “mai tentate prima”. (Concedetemi questa ilarità).
Il luogo ideale per mettere in pratica le mie manie di fancazzismo, erano gli autobus di notte. Gli autobus di notte mi facevano pensare a dei mini-Lager dove il Melting pot, il cosiddetto crogiuolo di fusione era presente nella sua forma più totale . Ogni tipologia cromatica era presente, inevitabilmente muta e sospettosa nei confronti dell’universalità dei viaggiatori. Si passava dal classico nero, che deteneva la percentuale di maggioranza; al giallo,che stava investendo per comprarsi l’intera azienda; all’ infantile blu, che aveva fatto il presuntuoso con due icone pericolose, “rissa” e “zuffa”, passando per il veterano bianco, accompagnato da due sole diottrie e dalle amate stampelle. Infine si arrivava, spesse volte, anche al verde. Quest’ultima categoria era rappresentata da tutte quelle persone, frequentatrici accanite dello Cherry (con una media giornaliera di 12 ore), con dei quotidiani attacchi competitivi di nausea.
Evitavo di sedere accanto a quella gradazione cromatica, anche se erano il bersaglio meno impegnativo. Non potevo permettere di farmi vomitare addosso senza aggiudicarmi dell’elogio monetario. Come me, un ubriacone da bar spendeva tutti i contanti per bersi il cervello. L’unico risultato era la fuoriuscita dell’amalgamazione di una serie di pranzi, cene e colorazioni alcoliche varie. Non ne valeva la pena, fidatevi.
Amavo gli autobus notturni perché nessuno dei presenti aveva la faccia tosta di giudicarti con rigoroso disprezzo, o perlomeno, di non renderlo pubblico come avevano fatto in precedenza la mia famiglia, i miei amici, la donna della mia vita e anche il balordo del ponte, Ignazio detto sacco d’immondizia. Mi sentivo uno dei tanti ladri di città, fra tanti ladri di città. Avrei scommesso una cena a base d’aragosta con i presenti, che la percentuale dei possessori del regolare biglietto oscillava tra il 20% ed un 30%. Ed è proprio in questa ambientazione che l’essere un ladruncolo comune non mi pesava proprio un cazzo.
Quella notte un autobus semivuoto mi aveva abbordato all’altezza di via Dalì.
«Posso sedermi?» dissi ad un cinese, intento a leggere un libro.
«Prego!» rispose sorridendo, infossando per bene i suoi occhi a mandorla.
«Scusa, cosa stai leggendo? Non sono ideogrammi» chiesi .
«Esatto, non sono ideogrammi. Io parlo e leggo benissimo la tua lingua».
«Mi fa piacere, però non hai risposto alla mia domanda. Che cosa leggi?» chiesi nuovamente.
«“Anche le capre muoiono” di…, di…» disse chiudendo il libro per leggere il nome dell’autore sulla copertina «di Michael Zamaro».
«Chi? Mai sentito. È famoso?».
«Non credo. Questo è il suo primo libro, ma dubito ce ne sia un secondo» disse il cinese. Dopo un paio di secondi chiuse il libro, «Ecco, tieni. È tuo».
Sulla copertina erano raffigurati tre ragazzi sui ventiquattro anni, ed uno dei tre era intento a spararsi nelle tempie con una banana. La cosa suscitò in me una risata isterica, ma allo stesso tempo, mi fece accuratamente riflettere. Un’arma totalmente originale per tentare la famosa rapina in banca, magari nascosta sotto il soprabito, alla faccia della 44 magnum e della mia carta di “non” credito.
«Dove posso trovare delle banane a quest’ora?»
Il cinese si mise a ridere e ad applaudire, attirando la presenza di un Keniota che accennò solo lo sguardo minatorio nella nostra direzione. «Vuoi spararti anche tu in testa?» rispose continuando a ridere.
«È un’idea!»
«La vita non è tutta rose e fiori, eh?- replicò ridendo ancora, e ancora.
«È’ variabile, come il tempo» risposi, ridendo a mia volta per assecondarlo.
«Siete tutti molto simpatici qua. Io mi trovo bene nel vostro paese perché voi, siete tutti molto simpatici».
«Esatto. Abbiamo un gran senso dell’umorismo».
«Un senso dell’umorismo “demenziale” in questa circostanza, signore».
Mi limitai a guardarlo di sguincio, come aveva fatto pocanzi l’africano.
«Qual è la tua fermata?»
«Tra tre fermate. Scendo nel mio quartiere» rispose, con un’espressione di incredulità stampata in faccia.
«Il vostro quartiere?»
«Sì. Il quartiere cinese. Per caso, non mi ha riconosciuto?» disse, ridendo nuovamente come un pazzo.
Avevo dimenticavo la legge sulla suddivisione tematica della toponomastica introdotta con atto amministrativo comunale firmato dal primo cittadino. Gli idronimi, i limnonimi, gli oronimi ma soprattutto gli odonimi dovevano rispettare una propria categoria d’appartenenza. C’era il quartiere dei nomi città, quello delle province settentrionali, quello delle province meridionali, quello dei metalmeccanici, dei camionisti, dei commessi, dei poeti, dei romanzieri, degli scienziati storici, dei criminali, dei ladri falliti, degli ipodotati, delle donne dai facili costumi, dei transgender, dei cinesi, degli africani, delle altre colorazioni razziali, dei continenti e degli incontinenti. (Avete capito in che quartiere abitavo?). Il compaesano di Bruce Lee al mio fianco, inevitabilmente era domiciliato nel quartiere cinese, per l’appunto.
«Sentiamo, come ti guadagni da vivere?» gli chiesi, senza un particolare interesse.
«Sono un interprete dialogista. Lavoro con l’Università “Dei Sapienti”».
«Dialoghi in cinese, scommetto?»
«Esattamente. Molto perspicace» rispose lui, continuando a ridere come un imbecille.
L’autobus si fermò, e mentre il cinese si mise a guardare fuori dal finestrino per qualche secondo, permettendomi di scrutare la posizione del suo portafoglio, una donna grassa con le vene varicose in bella mostra scese dal mezzo.
«Quindi sei cinese».
«Sì. Esatto».
«Posso farti una domanda a questo proposito?» chiesi.
«Non offenderti ma, quando voi cinesi morite, dove cavolo finite? Nel senso, dove vi seppelliscono?»
«Semplice,» iniziò, mentre un senso di disapprovazione gli inondò il viso. «Qui in Italia, si vedono molto raramente , o meglio mai, funerali o tombe di americani, lussemburghesi, abkhazi, libici, senegalesi, thailandesi, ciprioti, neozelandesi o di stranieri di qualsiasi altro paese che non sia l’Italia. Eppure, a nessuno sovviene l’ipotesi di domandarsi perché mai nei cimiteri non si vedano tombe di defunti di queste nazionalità, molto più vicine e ricorrenti della nostra. Ci si interroga sempre e soltanto sulla sorte post-mortem di noi asiatici. Cinesi in primis. Direi che tale cosa, mi risulta piuttosto bizzarra. Come mai voi italiani, perdete ore di sonno e ore di spensieratezza per interrogarvi sulla fine dei miei connazionali, mentre non vi ponete mai domande sulla fine di un kazako o di un Turkmeno?»
«Probabilmente perché non ho la minima idea di come possano essere uno del Kazakistan e uno del Turkmenistan. Mentre nel vostro caso, ad ogni angolo, giardino, piazza, ristorante, lavanderia, cinema, parco giochi o negli altri quartieri capita di vedervi in continuazione. Ed in numero considerevole. Ormai questo è il periodo storico contemporaneo denominato “ Dalla Cina con furore”.»
«Questo è umorismo “blasfemo”».
«Bruce Lee mi perdonerà. Dio l’abbia in gloria» replicai «Dicevo solamente che, siccome la percentuale cinese nel territorio è elevata e la mortalità riscontrata è quasi nulla, la questione ha suscitato l’interesse generale».
«Quando un italiano muore all’estero, la famiglia non si sogna certo di farlo seppellire in una tomba che andrà dimenticata nel giro di un mese, ma fa traslare la salsa in Italia e successivamente nella città d’origine o dove i familiari ritengono più opportuno, per potergli fare un funerale, per averlo vicino, per fargli visita al cimitero, per avere un luogo di ricordo. Cosi fanno le famiglie straniere con i propri parenti che, disgraziatamente, muoiono in territorio italiano. Li riportano semplicemente a casa. Perché mai una persona, cinese o non, che muore lontano dal suo paese a migliaia e migliaia di chilometri di distanza deve essere abbandonata dalla propria famiglia? È davvero cosi insolito, secondo te, che tutti abbiano voglia di avere la tomba di figli, padri, madri, zii, nonni nel proprio luogo d’origine? Se domani partissi per la Cina e morissi dopodomani, credi che tua madre non ti rivorrebbe qui, accanto a lei?»
Probabilmente rimarrebbe indifferente, ma non dissi nulla.
«Spesse volte mi capita di sentire la stessa prevedibile, bizantina e snervante domanda su noi cinesi. Dopodiché, si narrano delle leggende metropolitane, assai deprimenti, stupide nonché irrealistiche, come la leggenda dei ristoranti, del cosiddetto “riciclo” o più comunemente “cannibalismo”. Scambiare pollo alle mandorle per un cinese, perdonami, ma lo trovo demenziale. Oppure, la leggenda delle celle frigorifere, quella che ha la percentuale maggiore di sostenitori, la quale sostiene che i corpi deceduti di noi cinesi vengano congelati, poi posti in determinati container in una specie di fossa comune e rispediti in Cina via nave. Questa tesi è sostenuta da quella persona autorevole, che risponde al nome di Roberto Saviano. Chiediti il perché lui non è in una cella frigorifera o sottoterra a guardare le margherita dalla parte delle radici. Interrogati su questo».
«…È uno dei pochi del sud che parla un italiano corretto e poi da quel che ne so, viaggia sotto scorta armata. Quindi non opterei per fargli la festa».
«Sotto scorta armata? Ci vorrebbero Superman, Batman e Capitan America. Sai quanto puzza un cadavere dopo qualche giorno, anche se congelato? Prova a moltiplicarlo per il numero dei presenti nei vari container. Una moltitudine di cinesi ammassati che marciscono ed emanano un odore pestilenziale per metri e metri. Credi che nessuno storcerebbe il naso? Credi davvero che i “pizzi” della mafia o camorra siano cosi idilliaci, da chiudere occhi, naso ed orecchie a tutte le forze dell’ordine al carico , allo scarico e alla dogana? Avanti non diciamo cazzate».
«Probabilmente sì» risposi dubbioso, ma non troppo.
«Sono arrivato, questa è la mia fermata» disse il cinese, pigiando con il minuscolo indice destro il pulsate della prenotazione.
Si alzò, raccolse la borsa della spesa che portava con se e mi chiese, «Gentilmente mi fai uscire?»
«Certo» dissi, mentre meditavo il modo migliore per sfilargli finalmente il portafoglio.
«Grazie, il libro lo puoi tenere».
«Sono io che devo ringraziarti per la piacevole conversazione» replicai.
Lo feci passare rasente al mio corpo mentre ero pronto al gesto delinquente. Aveva una giacca blu piuttosto lunga, che non mi permetteva di captare la reale posizione del portafoglio all’interno della tasca posteriore. Quando la mia mano sfiorò il suo sedere, il cinese si voltò di scatto. «Ricorda quello che ti ho detto stanotte. Non troverai mai niente di scritto su questo. È solo una questione di vita e di buon senso. Posso offrirti una birra? Mio nipote ha un ristorante qua all’angolo» poi imboccò l’uscita.
Dopo meno di due secondi di riflessione, prima che l’autista richiudesse le porte dell’autobus, uscì lasciando gli altri relitti urbani al loro destino e lo raggiunsi.
Forse era veramente solo questione di buon senso. L’avevo seguito, non per tentare di rubargli nuovamente il portafoglio, ma perché volevo continuare a conversare con lui. Anche se diversa, mi sembrava una brava persona. Onesta, colta, razionale, fiera. Tutte doti che avevo imparato a dimenticare.
Mi fece strada tra il quartiere cinese verso il ristorante del nipote dove alla fine, una cella frigorifera stava aspettando anche me.

Michael Zamaro



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