Lemmor

di

Melchiorre Romano


Melchiorre Romano - Lemmor
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 336 - Euro 16,00
ISBN 978-88-6587-3311

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In copertina illustrazione di Salvatore Polizzi


Prefazione

Il romanzo di Melchiorre Romano presenta, in piena luce e senza infingimenti, la vicenda esistenziale di un uomo, che vede la sua vita dipanarsi tra pericolosi eventi legati alla fine degli anni Settanta ed il profondo valore assegnato all’amore e ai sentimenti autentici, nonostante alcuni errori che hanno contrassegnato il suo cammino.
La narrazione è avvincente e, in alcune pagine, direi quasi struggente, come nella parte finale del racconto, che diventa una sorta di trionfo dell’amore dopo aver vissuto sofferenze e dolorose perdite: non mancano di certo inaspettati colpi di scena che mutano le prospettive e fanno capire come, in molti casi, la vita è legata ad un sottile filo che può spezzarsi in ogni momento.
La storia inizia con la figura del protagonista Lemmor, ora uomo solitario e sensibile, eppure “mai solo”: lui ha vissuto gli anni della sua vita senza porsi limiti e adesso si presenta il conto da pagare e gli eccessi del passato si fanno inesorabilmente sentire.
Ecco allora dipanarsi la trama che vede un costante susseguirsi di avvenimenti che segnano il cammino di Lemmor, a partire dalla perdita di alcuni amici e dalla dolorosa relazione sentimentale con la bella Kreel, abbandonata per mettersi a fare la rivoluzione con la cellula eversiva del comandante Hornet, senza rendersi conto che lei rappresentava la donna della sua vita ed era stata barattata con l’illusione di un presunto e illusorio impegno per “cambiare il mondo”. Poi, inaspettatamente, nella sua vita entra in scena Elaine, donna con una forte personalità, archeologa che mette tutta la sua passione nel lavoro con dedizione totale e Lemmor si innamora di lei. Purtroppo, Elaine si lascerà travolgere dalla smania di avere successo e dalla frenesia di voler diventare famosa dopo aver scoperto la presenza di alcuni minerali anomali in una cava in Sicilia. Il suo comportamento sarà un duro colpo per Lemmor che non riuscirà a perdonarla nonostante l’amore provato per lei, nonostante la nascita di una figlia.
Le dinamiche della vita ricuciranno le ferite e l’amore rappresenterà il sigillo di una rinascita.
La vita non è un infinito tempo e merita di essere vissuta pienamente, nel miglior modo possibile per il tempo concesso: dopo la volontà di esorcizzare la sofferenza, dopo la necessità di dare un senso a ciò che è successo e di ricercare il significato più profondo anche del più grave trauma e del sogno miseramente infranto, ironia della sorte, l’uomo si riscopre più forte di quanto credeva, seppur assediato da dubbi e contraddizioni.
La visione tragica, profonda e cruda della vita, che emerge costantemente dal romanzo, non deve ingannare perché rappresenta la narrazione stessa dell’esistenza, senza false parole consolatorie, innalzando, al contrario, la profonda riflessione filosofica che può ben essere presa ad esempio: “Non sono le cose a turbare gli uomini ma le loro opinioni sulle cose”.
L’amore per la scrittura, che viene infuso da Melchiorre Romano nel suo romanzo, è invidiabile e va di pari passo con la passione autentica che si disseta alla fonte d’una narrazione sempre affascinante e capace di ammaliare.
La sua Parola è pulsante, capace di rendere viva e luminosa la sostanza stessa della sua scrittura, che agisce come energia dirompente per raccontare ciò che viene custodito nel profondo, nelle più labili fratture dell’essere umano.

Massimo Barile



Dedico le pagine seguenti a tre persone. Non si sono mai conosciute tra loro e se ne sono andate via, tutte e tre, per la stessa malattia.
Ne ringrazierò invece due. Senza di loro non ce l’avrei fatta ad iniziare e sicuramente non ce l’avrei fatta a completare questo mio sogno.

Prima dedica.
Dopo aver scritto le prime pagine mi sono ritrovato il suo sorriso triste davanti. Stava fumando e suonando la chitarra. Sembrava che il suo Spirito si fosse materializzato da una delle sue canzoni che ogni sera prima di andare a letto strimpellavo alla meno peggio. Fabrizio De Andrè mi è sempre stato vicino. Tre frasi di tre sue canzoni si sono incastonate tra le pagine del libro, la sua anima si è incastonata nel grezzo della pietra che tento incessantemente di levigare.

Seconda dedica.
Stavo descrivendo, ancora una volta, il sorriso di Elaine. Ero contento di come quel sorriso riuscisse a contaminare uomini e cose. Fu un lampo di Luce che costrinse i miei occhi a rifugiarsi nell’oscurità. Riaprendoli puntai la fiamma del camino, avevo necessità di ritemprarmi. Al posto della fiamma trovai un sorriso. Era il suo. Quel sorriso esplose dentro la fiamma e non potrò mai dimenticarlo. Era vivo. Il sorriso di Vita non se ne è andato con lei, la sua forza di madre, moglie ed amica è rimasta tra noi e sopravivrà anche a noi.

Terza dedica.
Avevo scritto oltre la metà del libro. Avevo deciso come si sarebbe concluso. Poi una email dal Canada arrivò. Sapevo che sarebbe arrivata ma cercavo di allontanarla donando a molti dei personaggi del libro alcune delle tante virtù che mio zio Rocco non aveva mai ostentato ma che lo avevano sempre contraddistinto. Mio zio ha sempre avuto un posto particolare nel mio cuore e gli debbo dire grazie per i tanti insegnamenti che, seppur lontano, mi ha sempre regalato. Dopo quella email il suo posto nel mio cuore è cresciuto a dismisura.

Passiamo ai ringraziamenti.
Il primo dei due ringraziamenti è per Lillo. Un cocciuto e testardo compagno di scuola con il quale, grazie a “Lemmor”, ci siamo riappropriati della nostra amicizia che gli anni avevano inconsapevolmente ibernato. Non finirò mai di ringraziarlo per l’ostinazione con la quale, al massimo ogni due giorni, mi chiedeva: “Cosa hai scritto? A che punto è il file?” Senza i suoi sinceri e disinteressati pareri non avrei mai superato la ventesima pagina. Lui ci ha sempre creduto, fin dall’inizio, io quasi mai, fino all’ultimo. Grazie Lillo, grazie da parte mia e grazie soprattutto da parte di “Lemmor”.

L’ultimo ringraziamento, il più semplice, alla mia perfetta polarità lunare. L’unica depositaria dei miei sentimenti più reconditi. A mia moglie, a Claudia.

L’autore


Lemmor


PROLOGO

Il freddo è qualcosa di indescrivibilmente ravvivante; già percepisci il calore del tuo camino, la legna che ardendo sprigionerà sentimenti come coriandoli. Il moto ondoso del mare nell’anima, un grande vulcano nel cuore, il silenzio sempre più fragoroso. Ma anche questa volta l’imminente tempesta porterà la quiete; le idee si trasfigureranno e una musica si manifesterà e permeerà gli attimi, quelli eterni.

Non sembrava gennaio, un tepore strano riscaldava le anime.
Il cielo era limpido, l’aria gelida ma il sole splendente.
Al mattino il colore delle nuvole era molto simile al colore del mare e per la verità anche dalle nuvole sembrava che spumeggiasse qualche cosa.
Le strade deserte erano piene di vita, la vita della natura.
La sabbia si era, nella notte, posata dappertutto, il vento culla i nostri sogni e li costringe a correre quando lentamente si trasformano in incubi.
Quella notte il vento era stato particolarmente insidioso: fischi, urla, rumori, rumori diversi e strani e poi aritmici; le folate infatti erano discontinue; prima vigorose, poi lente ed improvvisamente di nuovo impetuose ed assordanti.
Le tonalità si susseguivano e il caos era l’unica armonia percepibile insieme a quel flauto che continuava a far sentire le sue note anche durante le silenziose notti, un flauto che somigliava molto a quelle folate di vento… o era il vento che somigliava a quel flauto?

Dopo la sabbia, vedevi l’umidità, ovunque. Durante la notte anch’essa si era materializzata; beh è proprio vero che la notte materializza qualsiasi cosa e al mattino, insieme a sogni ed incubi si dematerializza tutto e tutto e tutti ritornano nell’etereo mondo di provenienza.
L’incubo per la verità era stato allontanato con la forza, il sogno non era stato possibile trattenerlo, inutile qualsiasi tentativo; era andato via … impossibile rincorrere le sue ombre.

Strano il parallelo tra vento e umidità e sogno e incubo; i primi due provengono dal mondo naturale ma la loro maestosità ti induce a pensarli quasi come soprannaturali; gli altri due provengono dal mondo onirico e cerchi invece di renderli vivi: i sogni vorresti tenerli per te, gli incubi vorresti impacchettarli per qualcuno e quel qualcuno prende subito forma ed i suoi occhi vitrei, ora impauriti, ti danno una gioia insperata.
Subito ti ritrai da quel pensiero: tu sei buono… buono come tutti gli uomini lo sono.

Un cane ti distoglie da tutti quei pensieri; sabbia e umidità non lo hanno risparmiato e se potesse imprecare, imprecherebbe a quel maledetto rifugio che trattiene meravigliosamente l’acqua ma che nulla può contro il vento e l’umidità; eppure aveva messo molta attenzione nell’individuarlo e nel prepararlo; anche molti uomini pensano di essersi preparati un ottimo rifugio ma quasi mai è così: non c’è riparo sicuro alle nostre paure, l’unico riparo è dentro noi stessi, ma anche le nostre paure hanno scelto l’identico riparo.

Fortunatamente la natura continua a manifestarsi.

Le giornate quindi si susseguivano, mai banali, mai monotone; erano lente ma piene, tristi ma non malinconiche. E poi Lemmor poteva sempre contare sui suoi coriandoli che sera dopo sera inondavano di nuove idee la sua esistenza.
Lemmor era a quel tempo un solitario ma quasi mai, quasi per un miracolo di provenienza antinomica, era solo; i suoi anni gli si presentavano impetuosi, ogni giorno un nuovo conto da pagare alla sua giovinezza vissuta, tanto tempo fa, senza limiti.
Anni veloci che gli erano sfuggiti di mano e che ora gli rinfacciavano tanta frenesia.

Lemmor si sentiva appesantito non solo dagli anni che improvvisamente si erano presentati, ma anche dai tanti bicchieri in eccesso, dai tanti eccessi a cui non aveva mai saputo rinunciare.
Il suo viso era particolare, un viso in cui solarità e lunarità convivevano; così come convivevano degli occhi intraprendenti con un naso un po’ troppo prorompente e che gli anni avevano ancor più accentuato.
Ma Lemmor non si era arreso, non poteva!
La sua arresa avrebbe fatto da apripista a quella parte di vita che si ritiene erroneamente in salita; invece quando i pochi capelli rimasti si sbiancano, giorno dopo giorno, la vita prende una discesa frenetica, vedi il dirupo, si incomincia a pensare alla fine della strada, e questo pensiero rischia di non farti vivere gli ultimi aneliti di giovinezza fisica che tenta un’impari lotta con la sempre presente giovinezza mentale.


Capitolo I

Ma chi era Lemmor? Beh molti se lo chiedevano: istrione, eccentrico, rompiballe, sensibile, scorbutico? Un suo amico della prima giovinezza la cui reciproca stima si perse con il pretesto di un paio di occhiali “Persol” amava così definirlo: “Uomo solitario”. Il nomignolo gli era stato affibbiato in quanto una volta venne trovato da solo su un piccolo promontorio; forse intento a guardare ma Ben, questo suo amico, riteneva che non stesse guardando niente ma che stesse, come spesso gli capitava a quel tempo, elucubrando su qualcosa o su qualcuno.
Ben per molto tempo fu amico inseparabile di Lemmor; ragazzo dotato di un’innata simpatia Ben, volitivo, aperto, diretto. Un ragazzo con cui era facile legare anche per la sua capacità di attrarre le ragazze che molto spesso restavano incantate dal suo aspetto; viso roseo ma guance dure, occhi scuri, come i suoi capelli che appena mossi ondeggiavano, con lampeggianti sfumature brune, e ondeggiando davano al quel fisico un po’ troppo rigido, una falsa armoniosità nella quale, Ben, molto elegantemente si destreggiava.
Fu penoso vedere un declino psicofisico colpire Ben ancora molto giovane; il suo aspetto si incupì e non solo il suo aspetto. Lemmor che lo conosceva molto bene, anche se da diverso tempo non si erano più parlati, vedeva anche la sua anima cupa, annerita. Ogni tanto lo guardava da lontano e provava tanto dolore nel vedere Ben, colui che era stato un vulcano, spento, privo di passionalità, amorfo: cupo per l’appunto, nel corpo e nell’anima.

Chissà cosa avrà pensato Ben di Lemmor.
Chi voleva chiedere di Lemmor a Ben era Daniel, che spesso si ripeteva: qualche volta proverò a chiederglielo a Ben.
“Cosa diamine è accaduto tra di voi?”
Daniel adesso era un affermato imprenditore ed era riuscito nel suo intento: avere una sicurezza economica.
Daniel non era alto; sicuramente la sua statura, troppo al di sotto della media della sua generazione, gli procurò non pochi mal di pancia.
Quando lo incontravi, i tuoi occhi puntavano dritto alle scarpe che sempre presentavano un tacco spropositato, un tacco che spesso suscitava ilarità, troppa per Daniel; i suoi tratti si deformavano non riuscendo a trattenere l’ira che le risate degli amici gli procuravano.
Una rabbia che quasi stingeva le sue iridi, i suoi chiari occhi non erano più ben visibili, il naso, snello ed elegante, iniziava a perdere armonia, la bocca, non troppo grande, rigurgitava irripetibili improperi che contribuivano alla negativa trasformazione delle labbra che da carnose e purpuree si mostravano, dopo pochi attimi, rigide e violacee.
Solo i capelli rimanevano immutabili, non potevano subire alcuna trasformazione; erano talmente ricci e talmente tanti che anche al tormentoso dimenarsi della sua testa rimanevano imperscrutabilmente immobili.
Ecco, la parte più saggia di Daniel, in quei momenti d’ira, rimaneva la sua capigliatura; nessuno l’avrebbe creduta appoggiata su quel cranio così tanto tormentato e tormentabile dall’ira.


Capitolo II

Era il 1977. Un anno particolare.
Al crepuscolo degli anni ’70, infatti, nel mondo le idee avevano ancora un valore, erano un valore. Lo tsunami reaganiano e thatchteriano non era ancora arrivato e l’edonismo degli anni Ottanta non aveva ancora iniziato a sradicare, seminando idee prive di lungimiranza sociale, valori e diritti conquistati in decenni di dure e non sempre pacifiche lotte.
Strano come i decenni si collochino nel puzzle della storia recente; ogni decennio ha connotazioni ben precise e le stesse connotazioni perdono valenza man mano che ogni decennio volge al termine.
Anche gli anni Settanta non riuscirono a sfuggire a tale dinamica.
La storia, nel 1977, si riprendeva l’invisibile nastro del tempo, lo riavvolgeva velocemente e lasciava agli ultimi due anni del decennio sporadici e sempre meno coinvolgenti episodi degni di nota.
Il mondo iniziava a correre, all’insaputa di tutti, verso il baratro della globalizzazione.
Efficienza e profitti iniziavano a detenere le maggioranze non solo societarie ma anche parlamentari; contestualmente l’uomo e il pianeta perdevano forza contrattuale e le male piante dell’arroganza e dell’arrivismo trovavano sempre più terreno fertile nel cuore degli uomini.

– Ciao Lemmor, sei poi riuscito a completare la tua ricerca su quel personaggio storico?
Non erano ancora entrati in classe e Lemmor si sentì come colpito da quella domanda rivoltagli da Kreel.
Era completamente immerso nei pensieri residui della serata precedente, per la prima volta il ritrovarsi tutti insieme lo aveva quasi infastidito: tanti i discorsi indirizzati alle esigenze individuali dei convenuti; questo lo aveva lasciato perplesso ed amareggiato.
– Scusa Kreel, ero sovrappensiero, dicevi?
– Hai completato la ricerca su Mussolini?
– Sì Kreel, ci sono riuscito; il personaggio – molto intrigante – mi ha coinvolto a tal punto che ho anche fatto delle ricerche suppletive.
– Mah, un dittatore che ti intriga, questa poi. Non è che mi prendi in giro Lemmor?
– No Kreel, credimi. Personaggio negativo ma intrigante, molto intrigante.

Kreel sospirò a fondo; a lei in quell’uomo – che aveva trasformato, esasperandola, la politica europea e quindi mondiale post bellica – non riusciva di vedere niente di intrigante. Solo megalomania e violenza, violenza e megalomania e, ancora incredula, preferì non chiedere nient’altro a Lemmor e portandosi la mano tra i capelli dorati, li sospinse.
Questo era il gesto che Kreel istintivamente compiva quando non era d’accordo su qualche cosa e quando preferiva non alimentare l’argomento; in quel gesto liberatorio metteva, soavemente e con naturalezza, tutta la sua bellezza e con quel gesto l’area circostante si arricchiva dell’oro dei suoi capelli.
Era bella Kreel, molto bella.
I suoi lunghissimi capelli biondi si intonavano alla perfezione con i suoi occhi; quegli occhi blu mare che si incorniciavano, come un quadro, al di sotto della sua fronte spaziosa. Il naso era piccolo, ma disegnava – sulle sue guance – infinite traiettorie; le labbra erano stupende, le scorgevi sempre guardandola; erano come due potenti calamite a cui difficilmente il tuo sguardo, come magneticamente attratto, riusciva a sfuggire.
Il corpo sinuoso ma non malizioso si reggeva su due gambe robuste e slanciate e le braccia erano come due luminose candele, ogni loro movimento, infatti, la illuminavano ulteriormente e poi le mani, quelle mani che fungevano da perfetti orafi quando si intrufolavano tra i luccicanti capelli…
Era bella Kreel, molto bella.
– Kreel scusami – disse Lemmor, – avevo dimenticato quanto fosse importante per te l’interrogazione di storia, sai come sono fatto. Quando certi pensieri mi assalgono esagero, esagero e …. vuoi che ripetiamo insieme?
Lemmor dopo averla guardata aveva, in un battibaleno, riaperto gli occhi e aveva epurato qualsiasi altra cosa dalla sua mente: adesso aveva occhi, cuore e anima solo per lei.
Lemmor da giovane era molto timido, talvolta troppo.
I posti dove tentava di nascondere la sua timidezza erano prevalentemente due: i suoi capelli e la sua barba, neri; entrambi neri.
Adorava i suoi capelli trasandati che gli sfioravano le spalle; capelli lisci e forti che proiettavano un’immagine da guerriero metropolitano e poi la sua barba. La barba incolta e folta gli conferiva un non so che di mistico, forse anche per via dei riflessi rosso-bruni che di tanto in tanto, con difficoltà, trapelavano e si rifrangevano sui suoi occhi verdissimi, quasi cerulei.
Del naso si è detto, prorompente ed eccessivamente… invadente.
La bocca non era particolarmente grande ma era incredibilmente energica e il mento, segnato da una caduta infantile, era sporgente ma regolare.
I rari sorrisi giovanili si incastonavano tra i bianchissimi denti che dell’avorio avevano tutto; alto e magro, in certi periodi anche troppo magro.
– Senti Kreel – disse Lemmor senza accorgersene – oggi alle diciassette andiamo insieme al bar Sfaxia? Vi sarà della buona musica dal vivo e poi, posso assicurarti, che hanno dell’ottima birra; se porti anche i tuoi appunti di storia iniziamo a vederli, se vuoi?
Le parole gli erano scappate dalla bocca, forse aveva osato troppo e troppo bruscamente.
Kreel rimanendo incredibilmente sorpresa, si prese degli interminabili secondi prima di rispondere; come tutte le ragazze che sanno di essere desiderate, prima di rispondere fece dell’altro. Il suo fedele fazzoletto venne prelevato dal suo zainetto verde e accorse velocemente il suo occhio destro che, ad arte, veniva delicatamente tormentato.
Nessuno è mai riuscito a capire quest’atteggiamento femminile e soprattutto nessuno è mai riuscito a penetrare in quella manciata di secondi, in quei secondi che sono semplici attimi per il sesso femminile ma interminabile e dolorante percorso per ogni ragazzo. Trovarsi all’inferno oppure in paradiso dipenderà dalle parole di risposta che prima o poi si libereranno, librandosi, nell’aria.
Saranno leggiadre oppure pesanti più di qualsiasi macigno?
Mentre questi interrogativi tormentavano Lemmor che stava già maledicendo il suo frettoloso invito, Kreel disse:
– Lemmor, ok, sarà difficile spiegare a mia madre che dovremo studiare in un bar dove per giunta suonerà una banda di scalmanati, ma… ma, credo che riuscirò a convincerla. Incrociamo le dita; chiamami a casa alle 16,30-16,45 e dopo vieni a prendermi.
– Certo Kreel, certo. Ok… va bene… non ci sono problemi. Alle 16,30 vengo… no scusa, ti chiamo a casa. Ok Kreel, ok.
Che cosa è la felicità? Come si può misurare?
Semplicissimo: sarebbe bastato, in quel momento magico, fotografare il cuore, l’animo e il viso di Lemmor; perfino il suo naso appariva trasfigurato.
Sembrava che una folgore spirituale lo avesse attraversato.
Non si accorse di essere già arrivato a casa; non ricordava niente del tragitto che aveva fatto, non ricordava se avesse incontrato qualcuno, se lo avessero salutato.
Quando si cammina sulle ali del primo amore non si riesce a scorgere nient’altro che il cielo.

La casa di Lemmor era situata nella parte più alta della piccola cittadina; sovrastava una collina ed era attigua ad altre abitazioni pressoché simili. Abitazione modesta e semplice era di un’efficienza sbalorditiva.
L’ingresso era in legno, quel legno ruvido ma immarcescibile che un impercettibile strato di vernice scura tentava disperatamente di far diventare presentabile. Subito dopo vi era una stanza coperta che dava al cortile esterno al quale si arrivava scendendo dei gradini in cemento.
Il cortile era stato il regno di Lemmor, in quello spazio era stato di tutto.
Principe e ribelle, campione e discolo, prigioniero e cosmonauta.
Quanti giochi e quanti orizzonti videro, lì, la luce cosmogonica della fantasia infantile; in quel fazzoletto di terreno tempo e spazio erano due schiavi e non due tiranni.
Era appena entrato e il mondo gli appariva come un arcobaleno di cento e più colori.
– Lemmor, Lemmor – gridò sua madre – per favore prendimi la bottiglia di vetro con l’olio che si trova nel ripostiglio, il posto lo conosci.
– Ciao Mà, ciao Mà.
Continuò a fischiettare quel brano dei Jethro che tanto gli piaceva, “The thick as brick”, un brano vibrante e intenso, un brano che era un vero e proprio inno alla gioia interiore.
A sua madre non sfuggì, non poteva sfuggire, l’allegra solerzia con la quale si era immediatamente presentato alle sue spalle; il contenitore di vetro già al suo posto, Lemmor – in tono confidenziale – chiese:
– Ma’, tu pensi che l’amore esista?
– Oggi sei tornato bambino Lemmor, sei tornato ad aprire il tuo cuore a tua madre e una madre protegge sempre il cuore dei suoi bambini. Lemmor, tesoro, tutto è amore, noi siamo amore; senza l’amore non esisteremmo e non esisterebbe il mondo, il domani; ma …
– Ma… cosa? – Chiese, con gli occhi sbarrati, Lemmor.
– Tesoro essendo l’amore la forza più grande dell’universo deve essere, diciamo … ben metabolizzato.
– Mamma, l’inganno, dove è l’inganno?
– Nessun inganno Lem, solo pericolo, il pericolo che come tutte le cose grandi, anche l’amore possa schiacciare, possa far del male, possa – in certi momenti – … sottometterti soprattutto quando non è ricambiato con la stessa intensità.
– Sottomettermi a cosa?
– Alla volontà degli altri per esempio; cosa non si fa per amore.

Le parole della madre gli fecero sussultare il cervello, quasi rimbombavano – rincorrendosi freneticamente – e quel rimbombo aveva uno strano effetto su di lui; sembrava fosse un gigantesco secchio d’acqua, fredda, gelida… ristoratrice.
Non doveva perdere alcun controllo, no mai! Se lo era giurato, poche settimane prima, seduto su un promontorio. Doveva sempre far vincere la ragione e la lucidità e non far mai prevalere i propri sentimenti, la propria anima.
Sua madre aveva ragione, l’amore può portare alla sottomissione, l’amore sconvolge le menti ubriacandole, stordendole, inebetendole; anche lui si era smarrito… semplicemente guardandola.
La forza di quello sguardo gli aveva fatto dimenticare tutto; non aveva più pensato all’impegno politico che da poco aveva assunto: cambiare il mondo!
Questo impegno era, per lui, più importante di qualsiasi cosa, anche più importante del suo primo amore; per come aveva letto in tanti libri e per come, soprattutto, gli era stato detto, dal comandante della sua cellula – Hornet. –
– L’amore e i sentimenti sono retaggio di quella società borghese che noi, caro Lemmor, desideriamo ardentemente cambiare, quindi non lasciarti invischiare dalla sua subdola rete, quella rete che è stata, nel tempo, costruita per intrappolare gli uomini e la loro presunta umanità.


[continua]


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