Il giardino delle rose
Tu
Di nuovo
dagli sterpi di marzo
rifioriscono i gelsomini.
Abbiamo dentro
le dita sottili del ricordo
del poco mare attraversato,
senza peso la corrente
trasporta come foglie.
Prima o poi stingono i broccati,
l’autunno precipita
come un crepuscolo.
Ci siamo attesi, e i giorni
rimangono lettere da riempire
senza limo sulla carta.
Avrò il tuo sapore in bocca
sino all’assedio degli anni
e non mi basterai ancora,
e non sarai straniera al mio canto.
Ritratto
E ti ritraggo
con la penna esule sul foglio
quando la luna è una lanterna
che rischiara il confine turgido dei colli,
nasconde la vergogna del papavero.
Da tanto ti guardo:
col sorriso e feconde lacrime
irrori le radici dei figli,
tempio dolce delle nostre gesta.
Rimane sempre qualcosa
della fiammata del tramonto:
mani d’ombra che spargono cenere
oltre il tremolio di fiaccola
su pochi fogli distratti.
E mi abbandono ai miei ritorni,
col peso della fatica nello sguardo,
come una vela stanca ogni sera
si concede alla sua rada.
Madonnina del mio portico,
ora mi inondi di te,
come sorgiva che straripa dalle dita
e rinfranca e disseta,
eppure mai sazia.
La panchina
Trasuda fiamma il tramonto
affondando oltre l’orizzonte,
e la sera si carica di stemperati umori.
Ci abbandoniamo sulla panchina
prigioniera di graspi d’edera;
grappoli di roveri fronzuti oscillano,
svelando tremolanti fazzoletti di cielo.
Questa panchina bollente,
avvolta nel crepuscolo che sanguina,
stasera è nostra capanna di sogni.
Ti sfioro modellando le spalle,
carezzando la superbia delle gambe nude.
E’ ammarare su pianeta vellutato
il baciarti, nell’attesa
– quasi uno spasimo, col petto ansante –
di affondare nell’imbuto della notte
dove, tra dardeggi di fari vagabondi
e bugie di lampioni complici,
si concedono l’anime fameliche d’amore.
Voci
In questa notte di trastulli,
siamo solo delle voci che la brezza
modula e dirotta agli arenili.
Nello specchio tremulo
annega il diadema della luna,
mentre la pelle si inquieta di brividi
ai primi accenni del nostro autunno.
E intanto l’onda, fuggiasca
come il tempo, abbraccia scogliere,
sfarina pietra all’ombra dei secoli
senza memoria e senza mai sfiancarsi…
Un astro perfora la coltre notturna
per dissolvere in polvere aurea,
e non lascia indenni i cuori…
E noi, trepidi amanti
incatenati all’incanto dell’esistere,
vaghiamo – un poco ansanti –
sotto la volta tempestata di diamanti,
mentre il pulsare della risacca
frange sulle caviglie,
dilava già le nostre orme.
A te
A te che mi hai insegnato
ad arare con gioia il mio campo,
a seminarlo affinché
altri possano raccogliere.
A te che mi fai guardare con distacco
ai castelli dello stolto,
al denaro per la cartastraccia che è,
all’assillo del lavoro
che non tolga giovialità al saluto.
A te che mi hai insegnato
a cercare il faro nella nebbia
quando la vita è burrasca,
a guardare il mondo con l’umiltà
del maestro che si ritiene discepolo.
A te che, tra venti di ferocia,
mi hai inculcato la mitezza della fede
per guadagnarmi gli stendardi celesti.
A te che mi hai dato
abbastanza luce negli occhi
per stupirmi se Dio dipinge arcobaleni
dopo ogni piovasco.
A te che mi hai fatto capire
che sotto la tua rude scorza di padre
batte un cuore ancora fanciullo.
Antica signora
(Ancona)
Antica signora adagiata
sul colle, i fianchi di cemento,
il respiro salsedinoso
a mitigare una cappa
che tenta d’ingrigire tutto.
Mi piaci così, sofferta,
un poco trasognata,
ma mai banale,
coi corsi accesi di vetrine,
i portici di pietra,
fino giù alle murate sul mare.
Mi risveglia il tuo brusìo,
l’indaffaramento di cuori
ligi al lavoro, il tuo
frenetico, incessante andare.
Ma la notte la gomma
tace l’asfalto, e ritrovi te stessa;
solo scalpiccii sui passeggiatoi,
e sognanti coppiette,
puntualmente complici
nella trappola del cuore.
Burrasca e tormento
Piegano il capo fradicio le rose
alle frustate del vento
e sgrondano lacrime gli ulivi;
serpeggia disorientata
una miriade di perle alla finestra,
dove aspetto te, amore mio.
Da troppo tempo
manca il tuo sorriso
a dare luce al mio giorno,
tarda il tuo calore
ad arginare il buio,
e l’affanno del vento
– che cava muggiti incanalando
tra le case e sulle rampe dei faggeti –
dichiara il mio sublime tormento.
Fogli bianchi
Ci sono ancora
tanti fogli da dipingere
nel libro dei nostri giorni,
anche se le stagioni
fanno fatica a sfarinare lievi,
e l’inverno cesella per noi
labbra irruvidite.
(Non so pensare
all’ombra alleggerita dal corpo,
ai capelli che si disfano
in filamenti di polvere.)
Forse siamo come volti di salice,
che il tempo marca di cicatrici
al pallore dei tramonti:
aspettiamo assetati che altra luce
imperli di respiri d’alba i tralci,
nuova brezza faccia trasalire
le fronde incupite dal crepuscolo.
O forse siamo due bagliori
di candele che sciolgono lente
e insieme possono rischiarare
l’inchiostro di qualsiasi notte.
E sarai grande
E sarai grande,
lascerai giocose vesti
per percorrere i vicoli della vita.
Forse ti dimenticherai
del profumo di una rosa,
dello scarlatto dei suoi petali.
Forse ti dimenticherai
del vento che fruga tra i capelli,
forse non ti ricorderai neppure
della purezza dell’amore.
Ma tu, tu fa che non sia così.
Ama, canta, vivi,
dona uno spicchio di te agli altri,
ascolta il palpito intenso
del cosmo intorno a te.
E ogni sorriso, ogni gesto,
ogni anelito d’amore,
riponilo nelle Sue Mani,
affinché Lui lo possa custodire
tra le pieghe del Suo Manto.
Incontro
Lei si svela alla porta,
e profumi di desiderio
mettono a repentaglio
parvenza di catene.
Sono portatore d’astinenze,
lupo affamato d’invernata…
La tavola imbandita diventa
labirinto dove si cercano mani,
il vino carburante
per svelare pudori.
Quindi è un rotolare fino al divano
che già diventa letto,
e due corpi
un solo polipo agghindato a sudore…
Scendi cataratta su di me
a spegnere l’ultimo lume.