Piccola biblioteca universale Sanbarbatese

di

Mauro Del Mauro


Mauro Del Mauro - Piccola biblioteca universale Sanbarbatese
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 266 - Euro 14,00
ISBN 9791259511027

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In copertina illustrazioni di Stefania Gerbo


La presente è un’opera di pura fantasia.
Qualsiasi riferimento a persone, istituzioni,
organizzazioni, luoghi ed episodi è da ritenersi una
casualità nata dall’immaginazione dell’autore
e non è da considerarsi reale.


Stefania Gerbo è nata nel 1991 ed è laureata in “Fumetto e illustrazione Editoriale”. Attualmente è impegnata nella creazione di grafiche sia nell’ambito della personalizzazione, sia nel’ambito editoriale.
Ha già collaborato con l’autore per la realizzazione delle illustrazioni de “La Questione Narisottiana” e “Musi Neri”.


Piccola biblioteca universale Sanbarbatese


Alla incantevole Regiané,
musa feconda e fuggevole amore


Piccola biblioteca universale Sanbarbatese

Attraversare la Storia con un cittadino del mondo di nazionalità irpina. È un medicinale, può avere effetti collaterali. Conservare in luogo fresco e fuori dalla portata dei bambini. Aut. Min 16696


Alcune Avvertenze

Questo volumetto contiene una serie di racconto storici, la Storia della mia vita. È un insieme di episodi dove sono amalgamati avvenimenti di pura fantasia con avvenimenti di diversa fantasia. Molte delle cose raccontate sono avvenute realmente, ma non saprei quali, e neppure in quale delle tante realtà che ho vissuto. Insomma, Borges Gödel e Marx approverebbero. “Cosa c’entra Marx?”, chiederete. Mi è scappato fuori così, come pisciare, direbbe forse Giorgio Gaber, e poi cosa ne sappiamo se in qualcuna delle sue diverse realtà Marx ha davvero letto o meno questa opera? Insomma, questa è una manleva. Qualche nome può coincidere con la realtà o con alcune delle storielle in cui abitualmente ci si imbatte o che quotidianamente ci propinano. Molti degli episodi sono inverosimili, ma magari sono eventi descritti in qualche enciclopedia. Molte enciclopedie contengono ricostruzioni storiche fantasiose, e allora rilassiamoci, godiamoci la vita, e se qualcuno apprezza questi miei miserabili scritti, sappia che li pubblico per amore della libertà, amore verso la mia famiglia, la mia gente, i miei amori. Per Diana, andiamo avanti!!! Dimenticavo, leggerete anche storie d’amore, ed in questo viaggio mi accompagnerà proprio colei che prima invocavo, la mia Musa: Diana.

P.S. Per scrivere queste avvertenze mi sono liberamente ispirato ad uno dei tanti giornalisti-scrittori che popolano quel che è definito il Bel Paese: in un circolo culturale aveva presentato la sua opera come una memorabile inchiesta su una potente famiglia italiana, e poi nelle avvertenze si appellava alla fantasia ed al romanzo storico. Insomma, una vera paraculata…

P.P.S. Seppur pochi, i miei lettori sono stratificati. Qualcuno, come Paolo ed Achille, che mi accusano di complottismo, diranno che faccio disinformazione, ovvero dico cose false. Altri, come Iginio e Rocco, probabilmente diranno che faccio controinformazione, ovvero evidenzio realtà oggettive che la propaganda dei regimi nasconde. Io mi propongo solo di informare i pochi coraggiosi che avranno l’ardire ed il piacere di leggermi fino all’ultima pagina dei miei sentimenti meno evidenti, verso la mia famiglia e la mia terra.


Introduzione: il proverbio africano

Il mio amico Giampiero mi ha insegnato un proverbio africano: “Quando muore un anziano è come se bruciasse una biblioteca”. Il mio amico Abdul, mi ha insegnato chi è l’autore: Amadou Hampaté Ba. Giunge il momento di essere pronto a gestire questo incendio, prevenirlo, conservare e catalogare le “copie” che è possibile catalogare. Io lo faccio. Lo faccio a beneficio dei pochi lettori che avranno voglia di leggere la storia del mio viaggio, in momenti diversi del “loro” viaggio, quando la stratificazione delle esperienze permetterà a questi pochi coraggiosi di cogliere le sfumature dei miei percorsi.
La mia biblioteca è piccola numericamente e forse qualitativamente, ma non spetta a me giudicarlo. È universale, in quanto parla di tutto e di niente, non ha la pretesa del saggio scientifico. È sanbarbatese, perché affonda le radici in quel borgo medievale, ricco di contraddizioni, di colori, di fascino. Darò spazio a San Barbato, alla Storia ed alle Storie che ho raccolto in forma orale. In fondo, come mi piace dire, Parigi non è che una piccola San Barbato.
Se le mie origini affondano le radici nella terra irpina, terra che mi ha regalato asprezza, disincanto ed ironia, e mi fanno ribadire nel titolo quale sia la mia nazionalità, tuttavia per condividere il concetto di “cittadinanza” devo rifarmi ad un incontro casuale avvenuto intorno all’anno 2000, ricordo la data in quanto l’episodio è legato ad un progetto informatico a cui ho partecipato. Di fronte alla proprietà di linguaggio di un interlocutore, che tuttavia esibiva un accento che non riuscivo ad identificare, gli chiesi da dove provenisse. La risposta illuminante fu “…sono un cittadino italiano di nazionalità slovena”. Io non mi sento un cittadino italiano, non mi sento parte di uno Stato che mi ha privato di tutti i beni materiali e di tutte le opportunità in nome della propria duplice natura: io considero l’Italia una Repubblica Conciliare e colonialista. Mi considero un cittadino del mondo di nazionalità irpina.
Pasolini diceva “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.” Nella mia piccola biblioteca universale riecheggerà il “…io so ma non ho le prove…”, e se qualcuno mi taccerà di complottista, transeat, Pasolini è sopravvissuto allo scempio del suo corpo, io a quello del mio libero pensiero.
Dimenticavo, “Repubblica Conciliare” è una espressione tratta dal libro, “Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente”, un bel libro, in cui è possibile entrare negli ingranaggi di due grandi misteri italici: l’assassinio di Enrico Mattei e quello di Pier Paolo Pasolini.


San Barbato

San Barbato è un piccolo borgo di mille anime. Avellino dista pochi chilometri.
Roma è collegata da oltre duemila anni a San Barbato tramite la via Appia. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, anche Napoli è stata collegata stabilmente a San Barbato, tramite l’autostrada San Barbato-Napoli. I raccordi autostradali San Barbato-Salerno, San Barbato-Benevento e San Barbato-Bari definiscono i maggiori assi stradali che fanno riferimento al piccolo-grande borgo. I servizi di collegamento sono completati dall’aeroporto San Barbato-Capodichino e da due linee ferroviarie ad “Alta Velocità”. Sicuramente Ostia, l’antico porto di Roma1, ha preso esempio dal “Mandracchio” di San Barbato, oggi raggiungibile mediante l’asse stradale San Barbato-Napoli: entrambe le località si trovano a circa cinquanta chilometri dal centro principale2. L’ora è quella del meridiano che attraversa il suo castello millenario.
Il Santo che si fregia di darle il nome era vescovo di Benevento, la longobarda Benevento, capitale del ducato omonimo. Il legame è forte perché era l’ultima propaggine longobarda in Irpinia, il posto di confine, il luogo dove i guerrieri più feroci e determinati vegliano sul bene comune. Un piccolo castello domina, dalla cima della collina, la valle del fiume Sabato. In linea con il castello di Montefre­dane e con il castello di Sant’Angelo a Scala, fino all’ultimo conflitto mondiale questo sistema di fortificazioni controllava i movimenti terrestri guardando verso est, fra profumi di vigne e di mele limoncelle.
Il castello fu costruito nell’anno 949, come riporta il sito http://www.castellidirpinia.com/sanbarbato_it.html, e le prime fonti storiche datate risalgono al 1146. I longobardi usavano piantare accanto ai castelli ed ai luoghi dove si amministrava la giustizia un tiglio, e quindi l’esemplare maestoso che si erge fra una torre e l’ingresso principale, potrebbe avere intorno ai mille anni, sicuramente è uno degli esseri viventi più longevi d’Europa: mille anni fa, probabilmente, nell’area parigina razzolavano ancora i galli, mentre dalle mie parti si amministrava la giustizia e la pace sociale. È facile accorgersi che la bellezza di questo “Patriarca” della nostra civiltà non è valorizzata, né è valorizzata la lungimiranza di chi lo ha piantato e di chi lo ha curato. È stato ed è tuttora tutto nella discrezionalità della gente del luogo, con onta delle amministrazioni competenti che nel tempo si sono susseguite nella gestione della “cosa pubblica”. Mi spiace dirlo, ma gli amministratori locali che negli ultimi decenni si sono succeduti alla guida della comunità, poco o nulla hanno fatto per valorizzare la memoria di questo gioiellino anzi, si sono affrettati ad abbattere la chiesa madre all’indomani del terremoto del 1980, e non si sono curati di conservare un arco, un portale, una vestigia del luogo di culto risalente al 1700. Io auspico che il Castello diventi sede di un Museo Contadino ed accolga in modo continuativo convegni ed iniziative culturali: potrebbe essere una idea per limitare lo “svuotamento” dei piccoli borghi e una occasione occupazionale. E se recuperare un arco dovesse risultare “irrealizzabile”, apporre una targa che ricordi il luogo di culto ed il sottostante cimitero ove ancora oggi riposano le ossa dei padri comuni, sarebbe un atto dovuto e rispettoso.
Anche se il borgo è davvero minuscolo, per me è un piccolo universo. Per esempio, i miei genitori non sono parenti, ma il cognome di entrambi è Del Mauro. Come è possibile che per trovare la consanguineità si debba risalire, eventualmente, a secoli addietro? Una comunità così piccola, molti con lo stesso cognome, non imparentati? La possibile risposta mi è stata fornita da un articolo, scritto da uno storico, di cui ora purtroppo non dispongo una copia, in cui si affermava che i cognomi che riportano il termine “Mauro” indicano quei mori dispersi nell’entroterra meridionale, catturati dopo la riconquista della Sicilia o durante le incursioni saracene: braccia forti, buone come schiavi, ma evidentemente anche buone a riscaldare i cuori, se oggi posso scrivere. In fondo, i “Del Mauro” possono essere considerati “immigrati extra-comunitari ante litteram”. Come ricordavo precedentemente, San Barbato era il punto di frontiera longobardo verso il principato di Napoli, e quindi non ci si meraviglierà se il mio nonno paterno era biondo, come mio fratello, ed io invece ho la carnagione così olivastra, che una volta un collega mi ha definito “il nero più sbiancato del mondo, dopo Michael Jackson”. Insomma, sotto al tiglio sono transitate ed hanno convissuto etnie disparate, e direi rispettose le une delle altre, fin quando non sono arrivati i piemontesi al seguito dei garibaldini, entrambi da annoverare in quello che io definisco il popolo dei francazzoni. Sempre su una rivista, stavolta locale, ho trovato il motivo per cui San Barbato è stata declassata, e da comune capoluogo è diventato una frazione di Manocalzati: intorno al 1870 si sarebbe ribellata al governo piemontese, e per tale infamia, sarebbe diventata “frazione” della rivale Manocalzati. Da allora il declino, forse favorito dalla invidia verso il bello o forse una inconsapevole rivalsa verso la precedente sottomissione. Sic transit gloria mundi.

[continua]


1 Un paragone analogo con San Barbato è valido per il Pireo, porto di Atene.

2 Il termine “Mandracchio” deriva dal latino “mandra” (o diminutivo “mandraculum”) e dal greco “mandraky”. Il termine “mandracchio” o suoi derivati hanno assunto un significato comune in diverse località del Mediterraneo dove la cultura sanbarbatese è arrivata (Istria, Dodecaneso, Ancona, Venezia, San Benedetto del Tronto…).


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