Racconto di Maurizio Paganelli

Con questo racconto ha vinto il primo premio al concorso Città di Melegnano 2003, sezione narrativa


Motivazione della Giuria: «Una busta nella quale è racchiusa una sentenza di vita o di morte, una busta nella quale fredde analisi cellulari hanno l’inderogabile presenza dell’intrusione dell’inevitabile. Per il protagonista del racconto è l’occasione triste e inesorabile di sperare ancora nella catarsi di un miracolo stanco. Ma la guarigione vera che egli matura è la consapevolezza di ciò che di prezioso ha smarrito nel corso degli anni: la coscienza attonita e stupita di ciò che di vero ha sepolto nell’ostinarsi a perseguire le vie della pura ratio. Egli viene colto dalla solitudine amara imposta dalla sua inadeguatezza all’amore, trascurato per la carriera e una sorta di passivo fatalismo. Ecco questo nomade dell’anima che cerca nei luoghi antichi una consolazione irreperibile. Ma la malattia vera è l’aver smarrito il senso della umanità spicciola, il senso autentico del dolore. E d’improvviso e magicamente, un presepe in una vetrina lo riporta all’infanzia, e gli porge inaspettatamente il folle coraggio di ricominciare ad amare ciò che lui ha poco amato. Ed è un attimo di meravigliosa ed estatica esplosione, quando, all’apertura della busta, con il suo verdetto, egli sconfigge la morte, decidendo di vivere pienamente le sue passioni, i riscattarsi dal grigio della vita, e di amare l’esistenza fino all’ultimo respiro». (Alessandra Crabbia)


Il Presepe

Sono qui che mi aggiro, passante solitario, per le vie di Capri. Il freddo pungente di questa serata invernale penetra nelle ossa, tanto che nemmeno il cappotto di montone che indosso riesce a ripararmi. Ma forse non è solo per il freddo che i miei muscoli, solitamente così fermi e imperturbabili, hanno preso a tremare. Sebbene cerchi di celare il pensiero, so che quella busta che tengo ancora chiusa nella tasca racchiude un segreto che può valere un’intera esistenza, la più preziosa, la mia. Com‘è solitaria Capri, con questo silenzio ovattato che pervade il suo golfo, le sue scalinate, i suoi muri fino a confondersi col cielo plumbeo. E lo è ancora più stasera, vigilia di Natale, quando la gente si sente indotta più che mai a cercare riparo nel comodo rifugio familiare o fra le braccia della propria donna. Un fugace pensiero si libra improvviso verso la mia casa lontana, dove Alessandra forse a questa ora già si appresta a consumare la sua frugale cena. Certo il ragazzo, il mio ragazzo sarà ormai in giro chissà dove. Non comunica più alla madre la meta dei suoi divertimenti e il più delle volte è difficile anche sapere se ha intenzione di rientrare per la notte. Da tempo ho smesso di preoccuparmi di lui. E’ grande, è vaccinato, ormai laureato libero di fare quello che gli pare. Poi perché proprio io devo ancora dare dei giudizi. Chi sono, in fondo nei confronti di mio figlio? Mentre attraverso piazza A. De Curtis sono tentato di aprire la busta. La chiesa, un’altra chiesa, è ancora aperta. Già nel pomeriggio ho viaggiato a lungo in auto, poi alle 15 senza saperlo, mi sono trovato davanti all’ospedale Casa del Sollievo e della Sofferenza, in fondo la chiesa di S. Giovanni Rotondo, sul piazzale un frate che va di corsa.
Strano per 5, 6 minuti nessuno in giro. Scendo dalla macchina, rincorro il frate, un secondo ed è sparito.
Allora sono entrato nella chiesa dove Francesco Forgione ha divorato Messe e fatto guarigioni. Ho pregato, fatto elemosina, acceso ceri. Perché, che senso ha, farlo ora. Adesso davanti a questi gradini vorrei entrare e lì abbandonarmi per un attimo all’irrazionale impulso di scoprire cosa mi ha riservato il destino dopo aver rivolto una breve preghiera nel pomeriggio al Creatore. Ma mi rendo conto che non può funzionare: se esiste, saprebbe certamente leggere fino in fondo nel mio animo e scoprire il vuoto spirituale che vi alberga da tempo. Al solito se esistesse. Anche se oggi in quel paese, in quella Santa chiesa ho sentito tremare e prillare il cuore. Rammento l’ultima volta, prima di oggi, in cui sono entrato in una chiesa, tranne per il matrimonio, risale ad un passato lontanissimo e ormai dimenticato. Avevo forse 12 anni, non di più. Fu circa a quell’età infatti che scoprii, un po’ prima di tanti miei amici, che i freni morali servono solo a chi è privo di scrupoli per trarre vantaggio da coloro che invece ci credono. Ma perché questi pensieri proprio ora? Forse un pentimento tardivo quando la fine della mia avventura inizia a sembrare un evento ormai prossimo e irrimediabile? No, spero di non cadere in questa debolezza,
non io. Però non nego la totale pienezza d’animo sentita dentro la chiesa di S.ta Maria delle Grazie nel pomeriggio. Volgo un ultimo sguardo alla piazza, sono le 21 e 10 ricordo che il traghetto per Napoli parte alle 21 e 45. La marea lenta inizia a montare schiumosa e già un sottile velo di bava salmastra inizia a prendere possesso dei primi scalini. Il riflesso della chiesa illuminata sull’acqua crea un effetto strano ed irreale, come strana e irreale mi appare la situazione in cui mi trovo d’improvviso coinvolto. Brividi irrefrenabili scuotono la mia schiena, mi infilo nella strada per tornare sul lungomare. Le luci per l’orgia natalizia splendono ammiccanti. I negozi iniziano ormai a chiudere e posso quasi scorgere sui volti dei commercianti la tristezza per la fine, anche di quest’anno del periodo di festa.
Volti stanchi, tirati per la lunga pressione, desiderosi di chiudere i conti e di rientrare a casa. Alcuni mi si fanno incontro frettolosi come vaghi fantasmi. Anche alla clinica di Capri dove sono appena stato al rientro dal luogo di Padre Pio per ritirare i risultati della biopsia, tutti sembrano attendere solo il momento di rientrare al focolare. Non so perché, il pensiero torna all’inizio di tutta quella storia. Lo ricordo bene: è stato la mattina in cui ho convocato una dipendente, la signora Biondi, nel mio ufficio per concludere quella spinosa questione del suo licenziamento. L’unica colpa della signora Biondi in verità era di avere superato i 53 anni e dopo quell’infortunio dell’anno prima, non si era ripresa per un problema alla schiena. In base alla legge 626 del 94, il nostro medico competente gli aveva inviato una lettera che non ammetteva più il suo utilizzo all’interno della fabbrica. Per motivi di salute non era più idonea alla sua mansione, anche se lei dava disponibilità diverse. Ma doveva capire anche lei che i costi per il suo stipendio sono ormai diventati un lusso anche per un’azienda di grosse dimensioni. Non è colpa di nessuno se siamo costretti dalle leggi del mercato ad assumere giovani con contratti a termine o formazione lavoro al posto dei vecchi e costosi dipendenti a tempo indeterminato. La rivoluzione del mercato del lavoro, e l’ingresso in Europa, è una realtà più grande di tutti noi. Dunque, perché la signora Biondi l’aveva presa come una questione personale nei miei confronti? Si, è vero, avevo gestito io tutta la faccenda, avevo rifiutato io le forme di accomodamento proposte dai sindacati, non avevo ceduto di una lira sulla cifra proposta per la risoluzione consensuale del contratto, dopo 15 anni di lavoro, ma non potevo fare altrimenti. Ero riuscito a resistere ai suoi attacchi fino alla fine: in fondo non era né il primo né l’ultimo con cui avevo affrontato simili situazioni e non c’entra se uomo o donna hanno avuto la loro parità? E allora.
Proprio mentre stavo accompagnandola alla porta dell’ufficio, si era riservata l’ultima stoccata. “Mi scuserà, vero, se non le stringo la mano”, aveva detto in tono calmo ma fermo. A quelle parole così dignitose, eppure così colme di tristezza repressa, ho sentito per la prima volta in vita mia una fitta al cuore, questo cuore da cui la pietà è stata bandita come una dannosa debolezza. Un segno di cedimento di cui non mi sarei mai considerato capace. Tuttavia ho fatto finta di nulla, continuando a sostenere la mia parte. “Non capisco il suo atteggiamento, signora Biondi. In fondo, io faccio solo il mio dovere. E questo modo di fare, se dovesse continuare, non la favorirà davvero nei suoi tentativi di trovare una nuova occupazione. Per favore non mi costringa a redigere un rapporto negativo, le ho fatto avere anche 2 mensilità aggiuntive”. “Lei un po’ ci gode, vero, a trattare così la povera gente? Be’ si, deve per forza altrimenti perché si sarebbe rovinato la vita solo per avere quelle poche briciole di potere che i suoi padroni le concedono? Se le tenga le sue 2 mensilità aggiuntive, e si rammenti com’era quando iniziò a scalare il vertice”. “Come osa parlare con me in questo modo?”. “Cosa crede, che siamo tutti stupidi? Guardi che quelli come me sanno benissimo che non sono davvero gli uomini puri di cuore a giungere a posizioni di potere e mantenervisi. Vede, c‘è una cosa che lei non capirà mai. A questo mondo c‘è una cultura di quelli che cercano sempre e comunque di fregare gli altri, e la cultura di quelli che invece credono nella correttezza e nella sincerità dei rapporti interpersonali. E quando ai secondi viene fatto un torto, è impossibile ai primi comprendere l’entità e la profondità dello sdegno che ne deriva. La gente della sua razza crede che tutti siamo come voi pronti a ingannare, tradire la fiducia, colpire senza remore..
E l’unica consolazione, per quelli come me, è che inevitabilmente finite per ricevere dal mondo esattamente ciò che gli date: odio, rancore, gelosia. Non conosco sua moglie e suo figlio, ma li compatisco entrambi”. Ciò detto, era uscita dall’ufficio senza neanche sbattere la porta. Ed è stato in quel momento che ho avvertito la prima fitta allo stomaco. Sul momento non ci ho dato peso, ma la sera i dolori si erano intensificati. Il giorno dopo mi sono consultato col medico che non ha avuto dubbi. La sintomatologia, l’ereditarietà, tutti dati di contorno (38 sigarette al giorno, vita sregolata, assenza di moto, stress) concorrevano a dare credibilità ad una diagnosi ferale. Così mi ha prescritto una visita presso il centro oncologico e anche qui, l’analisi di alcuni indicatori esterni, (non di bilancio) ha confermato il primo giudizio. Restava perciò l’ultima verifica, la biopsia, anche se ormai pareva una semplice formalità. Ed è proprio il risultato di questa che ora tengo celato nella tasca del cappotto senza trovare il coraggio di guardarla. Dov‘è andato il mio coraggio? Non ho davanti la signora Biondi eh! Come mai? Vallà! Tutte le persone che incrocio sembrano avere qualcosa di bello da fare in questa vigilia. Tutti ma non io, solo in questa cittadina turistica, così splendida e malinconica, a più di mille chilometri di distanza da casa. Percepisco d’un tratto una strana e spiacevole sensazione, come se il mondo e la vita fossero da un’altra parte. Un po’ come in settembre quando vedemmo in televisione, tutti smarriti le torri gemelle sbriciolate dall’attacco aereo dei terroristi a New York. Quando si è giovani si tende spesso a credere che il proprio mondo interiore sia il centro dell’universo e tutto ciò che percepiamo ruoti intorno a noi. Ora, come per un rovesciamento di prospettiva, mi pare che il mondo sia qualcosa di irrimediabilmente lontano e irraggiungibile e il mio animo si ritrovi isolato e reietto all’intero cosmo.
Perché oggi in quella chiesa non era così? E perché? Di nuovo un vago pensiero ad Alessandra. Alessandra… Quant‘è cambiata, ultimamente! L’ultima volta che sono rientrato a casa… quand‘è stato?... Un mese fa, mi pare, non ho potuto evitare di osservare le nuove rughe che ormai incorniciano i suoi occhi verdi, un tempo così luminosi e l’aspetto di quella pelle del volto che ancora ricordo radiosa. E’ la maledizione di noi dirigenti d’impianto. Andare là dove ci porta il lavoro, seguire l’onda imperiosa delle designazioni aziendali, incuranti dei legami che intanto la nostra vita al di fuori della carriera ha cercato di imporci. I primi tempi era andata bene. Mia moglie mi aveva seguito negli spostamenti in tutta la penisola e persino durante i 13 anni trascorsi in Sicilia. In quel periodo le era facile ottenere il trasferimento da un ufficio postale all’altro e non le mancavano né l’entusiasmo né l’incoscienza per affrontare nuove situazioni, nuove realtà, nuove amicizie. Anche quando nacque Francesco le cose non erano cambiate subito. Francesco, il nome del Padre. Fu solo dopo alcuni anni, quando si radicarono le prime amicizie del piccolo, che dovetti affrontare un trasferimento drammatico e doloroso da Palermo per Trieste. E lì era sembrato che il mio vagabondare fosse finalmente cessato: avevo raggiunto la posizione di responsabile d’impianto e credevo che ulteriori promozioni fossero impensabili: mi mancavano quegli appoggi altolocati necessari per compiere il balzo alla sede centrale di Torino. Poi, improvvisa, tangentopoli aveva spazzato le frange della corruzione e in una breve ventata di rinnovamento si era aperta per me la possibilità di quell’avanzamento che avevo sognato e agognato credendolo tuttavia fuori della mia portata. Accettai senza remore né rimpianti. In fondo, era il coronamento di tutta una vita di impegno e sacrifici.
Se non avessi accettato il trasferimento a Torino la mia intera esistenza sarebbe stata spesa senza costrutto. Ma Alessandra venuta a Trieste solo per un periodo (7 mesi), questa volta non mi aveva seguito, anzi era tornata a Palermo. Un po’ le difficoltà di ottenere il trasferimento, un po’ il desiderio di non abbandonare un figlio ancora bisognoso delle sue cure, e la definitiva scelta degli amici siciliani, luogo dove era nato il bambino, l’avevano indotta a tornare in Sicilia. E nei 9 anni trascorsi fino a febbraio 2001 in Piemonte, la situazione non è mutata. Il nostro Francesco, ormai adulto, ha ancora bisogno dell’assistenza assidua dice lei, di una madre. Studente in eterno, ormai 26 enne, sempre in giro per discoteche, ristoranti e locali equivoci, apatico in tutto. Trattando casa come un albergo e sua madre la tutto fare. Meno male che io posso stare fuori. Ormai i miei rientri a casa sono sempre più radi. Le scuse valide e giustificate non mancano, del resto: riunioni anche domenicali, viaggi, convegni, meeting. E poi c‘è un altro motivo, quasi inconfessabile. Mi sono reso conto che non riesco più a guardare Alessandra. E’ difficile per chi non l’ha provato comprendere quanto sia triste vedere la propria compagna che invecchia stando lontano. Di solito, quando si vive insieme, il mutamento lento, graduale, impercettibile viene assorbito senza neanche rendersene conto giorno per giorno, allorché al risveglio rivolgiamo il primo sguardo alla persona con cui condividiamo l’esistenza. Ma per me, ormai, ogni rientro a casa è fronte di afflizione e sofferenza. Passiamo ore e ore in silenzio, senza guardarci. Non ci tengo che lei sappia più di tanto della mia vita solitaria a Castellammare di Stabia, (dopo 9 anni a Torino ho chiesto un avvicinamento, e a febbraio di quest’anno, la Campania era il posto più praticabile), una vita fatta di cene frugali a base di scatolette e spaghetti, unico piatto che riesco a mala pena a cucinare. Serate buttate sul divano a guardare la televisione o film presi in affitto, mai una storia con un’altra donna.
Alessandra non mi aveva mai consentito di imbruttirmi così in privato quando eravamo una vera famiglia. Ora guardo il referto prima o poi dovrò farlo. Questo punto mi sembra particolarmente adatto. Non so come sono finito qui, alle spalle del mercato del pesce, a fianco c‘è un ristorante dove qualche domenica vengo a pranzare, sul portone d’ingresso c‘è una scritta di Virginia Woolf: “Uno non può pensare bene, amare bene, dormire bene, se non ha mangiato bene”. 20 metri più avanti c‘è lo strapiombo circa 200 metri di vuoto. E’ un bel punto per fotografie o altro, vedo un battello che si allontana nell’oscurità. Estraggo la busta la rigiro fra le mani. Ho bisogno di luce, qui c‘è troppo buio. Una vetrina vicina attrae la mia attenzione. Mi avvicino per sfruttarne la luce ma mentre sto per aprire la busta, il mio sguardo viene irresistibilmente attratto dallo spettacolo di un magnifico presepe allestito al suo interno. Comincio ad osservare uno ad uno i singoli pezzi ed automaticamente infilo la busta ancora nella tasca, pezzi lavorati artigianalmente di gesso e di cartapesta. Colgo la visione d’insieme che ricostruisce una scena atipica per un presepe: non pare ambientato in oriente ma in una delle nostre campagne e difatti mi avvedo che la foggia degli abiti ricorda quella dei contadini delle mie parti quando io ero un ragazzino. Tutta la ricostruzione mi ricorda all’improvviso la vecchia casa dove sono nato e ho vissuto i primi anni fin quando decisi di prendere la via degli studi. Forse è solo uno scherzo della mia immaginazione che quel contadino che porge un dono al Bambinello assomigli tanto a mio padre. Ed anche il volto di quel pastore ha qualcosa di vagamente familiare. D’improvviso nella mia mente si affollano le immagini di Francesco bambino, dei giochi, delle corse sul prato e i calci al pallone. Come posso aver espresso dei giudizi così su mio figlio se manco ormai lo conosco. Forse la signora Biondi ha delle ragioni, mi sono proprio imbruttito anche dentro.
Continuo ad osservare la scena senza riuscire a staccare gli occhi. Quello strato verde su cui poggiano le figure è muschio vero. Lo riconosco. Quante volte in anni lontani mi recavo fuori dalla città per procurarne una quantità sufficiente ad allestire il presepe di casa. Ricordo la felicità di Francesco quando tornavo col carico prezioso e insieme iniziavamo a predisporre la base per il presepe. Poi il taglia legna meccanico, l’omino che faceva il pane, l’acqua che scrosciava veramente, a volte anche troppo, che bagnavamo la parete. A quei tempi Francesco vedeva in me il faro e la guida: scorgevo l’ammirazione per me in ogni suo sguardo, che guida sono stato per lui anzi per loro. Solo uno che insegue il suo scopo, questo oggi ho capito, ha ragione la signora Biondi. Si tende sempre a proiettare sugli altri i nostri difetti. E probabilmente mio figlio li ha assorbiti almeno in parte. Fermo in quell’angolo oscuro, col destino in una tasca, comprendo finalmente cosa è stata realmente la mia vita. La continua ricerca di una visione chimerica a fallace, l’illusione che il comando e il potere potessero colmare il vuoto che s’andava intanto accumulando. Perché solo ora devo finalmente comprendere che la mia esistenza è stata un unico, grandissimo errore? Ritiro fuori la busta, la guardo, che probabilità ho di non avere alcuna malattia? “Quasi nessuna”, ha detto il medico con grande sincerità. Ma quasi nessuna non vuol dire neanche una. E fin quando la probabilità non ha ceduto il passo alla certezza, tutto può accadere. Forse, basta solo volerlo, desiderarlo fin nei precordi del proprio essere come la cosa più bella e preziosa su cui si possa aspirare, attaccarsi a quella speranza con tutta la forza della vita stessa. La busta di colpo mi cade dalle mani, un colpo di vento, strano non ce né era, la porta a pochi passi dietro a una fontanina d’acqua, una vecchietta me la raccatta e con occhi d’una mitezza che a quel buio non potevano vedersi me la pone nella mano, ringrazio e lei:
“Giovanotto cosa fa qui da solo, non ha una casa?” “Oh si, si” “E allora che aspetta”. In un lampo non vedo più nessuno, penso di stare male o ad un’allucinazione, mi ha chiesto se ho una casa. Mi guardo attorno grattandomi la testa. D’improvviso un’idea fulminante, un lampo lacerante nelle tenebre della mia mente, un barlume di Fede. Chissà se c‘è ancora un aereo per la Sicilia? Forse faccio ancora in tempo a essere a casa per mezzanotte. Che sorpresa sarebbe per Alessandra trovare domani mattina il presepe col Bambino. E forse dopo tutto, Francesco potrebbe rientrare a casa per la notte e sorprendersi come una volta trovando l’omino del pane che si inceppava come un tempo, e mi faceva arrabbiare. Ora lui ormai ingegnere lo avrebbe riparato definitivamente. Ecco, ora sono pronto. Apro la busta e leggo il verdetto, mentre l’universo intero sembra trattenere il respiro in trepida attesa. E quella che vedo è la parola più bella della vita. Una parola che racchiude tutto un mondo che ancora mi sta davanti e i mille significati legati a quel sentimento che solo ora mi accorgo di avere veramente scoperto e che si suol chiamare amore. Lascio andare la busta sull’acqua. La guardo sparire al buio e sento un’onda che la raccoglie come la vita in un nuovo attimo ha raccolto il sottoscritto. Non so quando mi sia dato vivere. Per ora la bufera è passata, eppure prima o poi, il momento temuto dovrà giungere. Ma vicino o lontano che sia, voglio che il tempo che mi è stato donato, rappresenti qualcosa di radicalmente nuovo e che la mia vita e quella dei miei cari possa valere la pena di essere ricordata anche solo per quanto saprò fare d’ora in poi. Camminando in fretta col cellulare chiamai Grazia, la mia segretaria, questo è potere: “Prenotami un posto sul primo aereo da Napoli per Palermo” “Buonasera signor Giorgio sono le 21 e 40 se non sbaglio alle 22 e 50 c‘è l’ultimo volo”. “Brava benedetta ragazza e appena puoi chiama la signora Biondi comunicale che non è più licenziata, dille che ho trovato una sua sistemazione in magazzino, ciao e buon Natale”.


Torna alla homepage dell'autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Avvenimenti
Novità & Dintorni
i Concorsi
Letterari
Le Antologie
dei Concorsi
Tutti i nostri
Autori
La tua
Homepage
su Club.it