Ironica

di

Mattia Carapelli


Mattia Carapelli - Ironica
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
15x21 - pp. 236 - Euro 13,00
ISBN 978-88-6587-3854

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In copertina: fotografia di Paolo Redditi

Foto dell’autore di Ruggero Vannelli


Pubblicazione realizzata con il contributo de Il Club degli autori in quanto opera finalista nel concorso letterario J. Prévert 2013


Prefazione

Mattia Carapelli, nel romanzo “Ironica”, inserisce, a piene mani, molteplici riferimenti all’umano vivere e sparge qua e là, come fossero semi da coltivare, profonde riflessioni esistenziali.
Durante l’evolversi della narrazione si assiste ad una precisa volontà di cristallizzare le emozioni, come se il protagonista si fermasse ad osservare il mondo che continua freneticamente ad andare avanti, protetto da una sorta di desiderio di “immobilità” ed ammantato da un senso di solitudine permanente, che lo catapulta in un mondo tutto suo, a volte, ai limiti della paranoia, fino alla rivelazione finale che porrà il sigillo definitivo sulla interpretazione d’ogni accadimento, d’ogni riflessione interiore, mancato gesto e fantasticheria: “la chiave di tutto è non muoversi”, rimanere cristallizzati nella propria dimensione in attesa che tutto scorra davanti a noi, dissolvendo ogni rimorso per le cose non fatte e annientando la nostalgia per ciò che poteva essere e non è mai stato. Ecco l’analisi finale, vera e spietata, di Mattia Carapelli.
La sensazione di fossilizzazione non incide affatto sulla narrazione che vede, al contrario, un susseguirsi di avvenimenti più o meno strani, fantasiosi e, talora, deliranti: eppure v’è sempre un sottile filo sotterraneo che fa percepire l’estrema lucidità nel riportare anche visioni oniriche che, alla fine, offriranno la rappresentazione del disegno globale dell’esistenza del protagonista.
La scrittura di Mattia Carapelli gioca sovente sull’ambiguità della vita ed insiste sulla sfera sessuale ma come a divertirsi nel raccontare ciò che può essere reputato scabroso: in fin dei conti, non v’è cosa più vera del lato oscuro dell’uomo, la sua propensione ambigua a vivere, tra presenza ed assenza, in un alternarsi di slanci emotivi e subdole diramazioni che indagano il luogo segreto nascosto in fondo all’animo d’ogni essere umano.
Reputo opportuno offrire alcuni brevi cenni inerenti la trama, lasciando ampio spazio per invogliare ad una lettura del romanzo, cercando di cogliere alcuni passaggi fondamentali che rendano appieno l’idea della sostanza stessa della narrazione di Mattia Carapelli, sempre in bilico tra la cruda realtà e l’assurdità della vita, rappresentata con vicende che mettono in mostra la sua fervida creatività e l’attenzione costante al paradossale, al microcosmo che diventa abisso immane.
Il protagonista si chiama Neri e desidera una ragazza ironica: il destino vuole che incontri Marta, ragazza che studia, come lui, all’università di Siena: lei piange leggendo libri d’amore, le piace il caffè e fuma solo “erba buona”. In breve tempo si fidanzano, ma lei si trasferisce a Trento con la sua famiglia e, nonostante il fatto che decidano di continuare la loro relazione, per lui inizia il calvario, corredato da crisi esistenziale con la “fissa delle indagini” e la “fobia di vedere assassini”, la sensazione di sentirsi spiato e la mania di spendere i suoi soldi facendo viaggi in treno e biglietti d’ingressi in numerosi musei, commettendo atti vandalici per rendere giustizia ad alcuni artisti sconosciuti ma più bravi di quelli famosi, fino ad intraprendere un percorso terapeutico con uno psicanalista.
La complessa trama vedrà il susseguirsi continuo di eventi più o meno strani e paradossali: dall’incontro con un amico, che si chiama Grigno, con l’idea fissa di fondare una sorta di partito, la famosa Squadra per l’Anti Miseria che riuscirà perfino a fare proseliti; per giungere, poi, alla relazione con una ragazza irlandese dai capelli rossi, che si chiama Veronica, grazie alla quale cercherà di superare la totale assenza di Marta e, ancor più, l’imprevedibile incontro con un uomo affetto da una rara forma di albinismo, che soffre d’insonnia ed ha il vizio di spiare le persone dalla finestra di casa con i suoi “occhi rossissimi”.
Ecco allora trasparire l’idea, che viene confermata durante la lettura del romanzo, che le “persone vogliono essere suggestionate”, anzi, sono quasi contente di vedere un uomo “dall’aspetto alieno” che si intromette nella loro vita; si dibattono tra nevrosi e paranoie alla ricerca di una visione salvifica pur rimanendo immobili nel loro stato di conservazione: tutto pare inutile, fatuo ed assurdo proprio come il lavoro di insegnante supplente in una scuola elementare.
Mattia Carapelli riesce a rendere fedelmente tale sensazione narrativa e, magistralmente, conduce in un abisso mentale che non è altro la vita stessa con le sue follie e le sue contraddizioni.

Massimo Barile


Ironica


MARTA

Neri voleva una ragazza ironica. Così trovò Marta.
Marta rideva dei turisti con la mascherina che davano da mangiare ai piccioni. Piangeva leggendo un buon libro d’amore. Applaudiva durante i titoli di coda de “Il Dottor Stranamore”.
A Marta piaceva il caffè. Sì, come ai vecchi terroni con il bastone e la coppola. Le piacevano i rigatoni al dente e le canzoni di Dente. Le piacevano le canne, ma solo quelle fatte con l’erba buona.
Neri la vide per la prima volta mentre aspettava il treno, per tornare a casa. Correva con il suo trolley, la sciarpa che svolazzava blu e logora nell’aria invernale. La nebbia e l’umidità le avevano arricciato i capelli. In affanno, temeva di essere in ritardo. Neri la fece passare per pura gentilezza. Non l’aveva neppure guardata in faccia, impegnato a cercare una linea wi-fi con il cellulare. Il vecchio Blackberry comprato in estate, che avrebbe trovato la sua tragica fine qualche mese dopo dentro il cesso di una toilette.
Il treno sferragliava in direzione Napoli. Neri aveva infilato il borsone sotto il seggiolino e si era concesso una dormita. Dopo qualche ora di viaggio aveva rivisto Marta. Ciondolava in cerca di un posto a sedere. Solo a quel punto Neri si era accorto del suo bel sedere.
Sì, anche il suo culo era ironico.

Si fidanzarono il 30 di marzo. Neri se lo ricordava bene, perché il giorno prima aveva preso un 28 all’università. Paleografia latina.
Nel giorno del primo appuntamento l’aveva portata a bere qualcosa di caldo. Fuori pioveva, e per le strade di Siena echeggiavano i passi veloci di chi era senza ombrello. Neri le offrì una sigaretta, ma lei declinò.
«Ho smesso.» disse.
«Come mai?» le chiese lui.
«Prova a indovinare.»
«Questa è difficile.»
Si concesse qualche minuto per rispondere. Nel frattempo la cameriera aveva posato sotto i loro nasi due tazze fumanti. Tisana di mirtillo per lui, espresso per lei.
«È per l’aumento dei prezzi.» disse infine «Adesso un pacchetto da venti costa quasi sei euro.»
«Mio padre è morto di cancro.»
Ci sono innumerevoli gaffe da evitare ad un primo appuntamento. Neri tuffò la faccia nella tisana e non parlò più per qualche minuto. Fu Marta a rompere il ghiaccio di nuovo.
«Hai mai sofferto della sindrome di Stendhal?»
«Cosa vuol dire?»
«No, sai, visto che studi storia dell’arte…»
«Penso che sia nient’altro che una favola per bambini. Nessuno ha mai sofferto davvero di una malattia simile.»
«Però Dario Argento ci ha fatto un film.»
«Ti piace Dario Argento?»
«Da morire.»
Le bevande si raffreddarono. La conversazione proseguì fino a quando la pioggia cessò e la temperatura calò ulteriormente. Uscirono dal locale tenendosi per mano. La spina dorsale di Neri si rilassò, finalmente.

Quella dell’università era stata una scelta ponderata. Neri era consapevole della scarsità di sbocchi lavorativi che un indirizzo del genere offriva. L’aspetto peggiore era sorbirsi tutti quei cazzoni che se ne uscivano con frasi del tipo “E poi?”. Cosa voleva dire “E poi?”. Non era neanche una vera domanda.
Quella della città era stata una scelta meno ponderata. Siena era la classica via di mezzo. L’est modus in rebus di Orazio tradotto nella vita di un adolescente. Abbastanza lontana da Napoli, ma non troppo. Abbastanza lontana dal nord Italia, ma non troppo. Abbastanza tranquilla, abbastanza comoda, abbastanza accogliente e almeno altri cento abbastanza. E poi, quale luogo migliore per un appassionato di arte? Non si potevano fare cento metri senza oltrepassare un bassorilievo, una scultura, un manufatto vecchio di almeno cinquecento anni. La sindrome di Stendhal era una cazzata (e quel film di Dario Argento faceva anche un po’ schifo), ma Neri non poteva comunque trattenere i brividi di fronte a quello spettacolo umano.
Marta, che studiava economia, aveva trovato un appartamentino a pochi passi dal centro. In effetti, quel palazzo distava pochi passi anche da casa di Neri. C’era una domanda che, nei primi mesi della loro relazione, gli si insinuò più volte in testa.
Ma come diavolo ho fatto a non incontrarla prima?
Erano entrambi al terzo anno di università. Entrambi dovevano prendere il medesimo treno per tornare a casa (la famiglia di Marta non abitava proprio a Napoli, ma nei dintorni). Entrambi erano single, sessualmente insoddisfatti, estroversi e amanti del cinema. C’era un tale senso di predestinazione in tutto ciò, che a Neri parve insopportabile. Per questo la lasciò.
Salvo poi, dopo tre giorni, accorgersi dell’errore. Tornarono insieme, e la cosa fu bellissima.

Un giorno di novembre comprai una bicicletta di nome Bike. Il nome glielo detti io, perché in inglese Bike vuol dire bicicletta. A me sembrò una cosa bellissima.
Neri rilesse queste parole mentre beveva una birra. La birra era urina, ma Neri si scolò la bottiglia in meno di un minuto. Scoppiò a ridere. Aveva ritrovato l’incipit fra le pagine di un quaderno delle elementari. Il primo tentativo di scrivere una storia. Nove anni, uno stile da scimpanzé, qualche errore di ortografia. E nonostante tutto, trovò illuminante la semplicità estetica di quelle due parole. Cosa bellissima. L’accostamento ricordava la crema sul cappuccino, il rumore della matita sul cartoncino, la sensazione della pelle sul cuscino fresco. Quando l’infantile supera il barocco, e un bambino di nove anni si trasforma in Shakespeare.
Guardando la sua calligrafia sghemba, una voglia sopita tornò alla ribalta. Desiderò scrivere qualcosa. Aprì il notebook, attese che lo schermo si accendesse e nel frattempo aprì una seconda birra. Era da solo in casa, l’unico rumore tangibile era il chiacchiericcio della gente per strada. Cliccò qualche tasto per distrarsi e poi cominciò. Ne uscì fuori, come un neonato urlante, una poesia per Marta. Il testo era più o meno questo:

Misantropia maledetta,
Come se potessi fare qualcosa per abbandonare
Il senso di solitudine, questo razzismo verso
Qualunque forma di vita,
Perfetta
O meno, l’unica eccezione che mi fa sperare
Sei tu, esistenza nella quale sono immerso,
A costo della mia vita.

Neri squadrò il foglio e lo accartocciò. Non bastava una sana ebbrezza per recuperare il talento.
Però scrivere gli era sempre piaciuto. A Natale era compito suo inventare piccoli componimenti da inviare in busta chiusa a parenti e amici.
Anche a Marta piaceva questa sua qualità. Forse avrebbe persino apprezzato quella poesia cacofonica. Si trattava di affetto.

Gli orari delle lezioni non contrastavano con i loro impegni. Entrambi cominciavano alle nove e staccavano alle quattordici. Come piccoli operai a mezzo servizio. Senza stipendio, ovviamente.
Il dover dipendere dai propri genitori era stressante. Neri sentiva montare qualcosa di molto simile ad un senso di colpa, ogni volta che comprava schifezze al supermercato, magliette superflue, o quando andava a cena fuori. Con l’avvento di Marta il senso di colpa crebbe.
Non che i genitori di Neri fossero poveri. Gestivano una bella trattoria, con centinaia di clienti ogni giorno. L’aroma della pasta al dente, dei pomodori freschi, dei fagiolini saltati, dell’olio che frigge, della caciottella, delle zucchine che cuociono, dei peperoncini sminuzzati, delle olive nere, delle cervellatine appena fatte, dei cicenielli sfrigolanti, dei capperi, delle melanzane soffritte, dei babà casalinghi. Tutti questi profumi ricordavano a Neri la gioia di tornare a casa. No, i suoi genitori non se la passavano male. Né lui poteva essere considerato un taccagno. Quel malessere gli derivava piuttosto da un’impotenza.
«Voglio pagarmi da vivere con dei soldi miei.»
«Senti, se non hai voglia di cacciare fuori trenta euro, stavolta faccio io.» rise Marta.
Erano seduti in un ristorantino profumato. Fra di loro brillava la fiamma di una candela. Marta si stava passando il burro cacao sulle labbra. Gli occhi le brillavano alla luce soffusa.
«Non ci provare. Sai cosa intendo.»
«Allora non ti resta che trovarti un lavoro.»
Neri accettò il consiglio. Nei giorni successivi sfogliò tutti i quotidiani locali, munito di occhiali da vista e di un grosso pennarello nero. Le richieste più ricorrenti riguardavano mansioni del tipo “custode”, “babysitter”, “guardiano”. C’era qualcosa di strano in quell’ammucchiata di proposte lavorative.
«Possibile che la gente cerchi soltanto qualcuno che… se ne stia fermo a osservare?»
Stavolta erano sdraiati sotto le coperte, nudi. Avevano appena fatto l’amore. Si erano accesi uno spinello e se lo passavano durante la conversazione.
«Non credo che sia proprio così.» disse Marta, tirandosi su la coperta per coprirsi il seno. Quel gesto riaccese in Neri una certa eccitazione, ma non lo dette a vedere.
«Le persone non sono più chiamate a fare qualcosa di pratico. Bisogna soltanto guardare. D’altronde ci sono macchine che fanno i lavori pratici al posto nostro.»
«Prendi l’esempio del guardiano in un museo. Deve soltanto starsene lì a controllare che nessuno entri, giusto?»
In quel momento Neri non ci pensò troppo, ma forse fu proprio a causa di quella frase se iniziò a bazzicare i musei.
«Giusto.» rispose, porgendole la canna.
«Sbagliato. E se entra un malintenzionato? Immagino che il guardiano sia tenuto anche a usare la forza, in situazioni di pericolo. Questa non la ritieni una cosa pratica?»
«Commesso. Mi andrebbe bene fare il commesso.»
Finito di fumare, lo fecero di nuovo.

Lavorò per tre mesi in un negozio di articoli sportivi. Era facile. Doveva soltanto accogliere i clienti, dare loro ottimi consigli per acquistare felpe e scarpe da ginnastica, rispondere alle chiamate. Essere gentile, sempre. Alcuni giorni doveva stare alla cassa, ma per fortuna non accadde mai per più di una volta alla settimana.
Ciò che più lo convinceva era l’orario. Dalle quindici alle venti, tutti i giorni. Giusto il tempo di farsi un panino, appena uscito dall’università. Lo store era in centro, perciò non si ponevano neanche problemi di spostamento.
Al contrario, Marta non era troppo convinta. Come biasimarla. Con questa novità, i momenti liberi per vederlo si erano ridotti a poche ore dopo cena, quando Neri era ormai distrutto. In effetti, riflettendoci dopo, Neri reputò che quello era stato di certo il periodo più difficile della loro relazione.
Litigavano spesso, e per motivi futili. Non facevano sesso da un’eternità. Parlavano meno. Molto di meno. Per una settimana Neri rifletté sul da farsi. Domande esistenziali della serie “La ami?”, “È la donna giusta per te?”, “Cosa provi per lei?”. Trascorse una manciata di notti insonni, con il risultato di essere ancora più stanco la sera successiva.
Per fortuna, alla fine, la vita decise al posto suo. Le lezioni finirono per la pausa natalizia, e Neri cominciò ad avere molte mattine libere da impegni. Dopo un mese, il negozio di articoli sportivi chiuse. Quando Neri si presentò impettito dal direttore per chiedergli il perché, quello scosse il capo.
«Roba burocratica, meglio non scavare a fondo.» disse.
L’estate successiva, al posto dello store se ne stava, placida come una rana, una bella banca.
Marta non versò troppe lacrime per la perdita del suo lavoro. Tutto tornò come prima, con annessa la dipendenza economica dai genitori. Neri si mise l’animo in pace: il telegiornale usava la parola crisi come un’ascia bipenne. Cadere in paranoia non avrebbe certo aiutato.
Con Marta le cose andarono meglio, da subito. Tornarono i baci, tornarono le vergognose poesie romantiche stampate su carta lucida, tornarono le merende, i ricciarelli e il tiramisù, tornarono le serate passate con i film di Monicelli in dvd, tornarono i pomeriggi in biblioteca a studiare insieme, le domeniche rilassanti alle terme, tornarono le carezze e i graffi, tornarono le canzoni di Dente e gli album di Vasco Brondi, tornarono il sesso e il sonno, tornò la passione.
Di quei mesi da bravo e giovane commesso in camicia azzurra Neri ricordò soprattutto un episodio. Ripensò spesso a un cliente barbuto in giacca a vento, che si era rivolto a lui in un pomeriggio di novembre. Cercava degli scarponi e altra attrezzatura per il trekking. Gli aveva spiegato che ogni fine settimana saliva in Trentino dalla famiglia, e camminava per ore e ore nei boschi vicino alla Paganella. Neri gli aveva presentato vari modelli di calzature adatte per i suoi scopi. Dopo aver visto e provato almeno dieci tipi di scarponcini, il cliente aveva sbuffato.
«Ma non c’è niente di più comodo? Suola anatomica, cuscinetti interni, roba del genere?»
Neri era rimasto interdetto. Aveva controllato in magazzino, senza sapere neppure di cosa parlasse quel tipo. Alla fine era tornato da lui scrollando le spalle.
«Mi dispiace, signore, gli unici modelli che abbiamo sono questi.»
Il cliente aveva sbuffato di nuovo.
«E ti aspetti che sudi come un maiale con un paio di scarpe scomode?» aveva replicato «Mica voglio faticare, io!»
Tornato a casa, Neri aveva sfogliato il vocabolario, alla ricerca della parola trekking.

Per il primo anniversario, Neri regalò a Marta due biglietti per un concerto degli Afterhours.
Ci andarono insieme, agitandosi nel parterre come scatenati.
Al ritorno, Neri decise di cominciare a scrivere qualcosa. Qualcosa di piccolo, niente di ché, giusto per testare le sue capacità. Nessun romanzone alla John Grisham, per intendersi. Soltanto pensieri sparsi, che magari sarebbero diventati con il tempo qualcosa di più.
Erano le quattro del mattino quando cominciò a battere i polpastrelli sulla tastiera, incurante del suo coinquilino che dormiva nel letto accanto. Scrisse per due ore, e poi si addormentò. Il giorno dopo non andò all’università. Si svegliò alle undici e rilesse ciò che aveva scritto poche ore prima. Gli fece schifo, ma non lo cestinò. Erano solo pensieri sparsi. Pensieri sparsi.

Era da qualche settimana che Marta insisteva su di un certo argomento.
Si stava infilando le mutandine, sotto le coperte, ma lui le fermò la mano. Gli piaceva che stesse nuda, insieme a lui. Fu in quel momento che lei lo disse:
«Non ti piacerebbe un cagnolino?»
«Un… cosa?»
«Un cagnolino. Un cucciolo di cane.»
Neri si rizzò a sedere. Stava cercando di trovare le parole giuste, una frase non troppo aggressiva per illustrare bene il concetto.
«Tesoro, non conviviamo mica.»
«E allora?»
«Chi lo terrebbe?»
Marta lo guardò come si guarderebbe un animale raro e variopinto. Ruotò le pupille all’indietro. Lo faceva sempre, durante una discussione.
«Lo decidiamo insieme. Ma sarebbe nostro, un cucciolo tutto nostro. Fantastico, non credi?»
«Ok, mi prendi in giro.»
«Non ti sto prendendo in… senti, ho capito. L’idea non ti fa impazzire, ma pensaci. È sempre stato il mio sogno.»
«Non ti basto io, è così?» fece lui, con un sorrisetto sulle labbra. «Non sono abbastanza per te, e allora vuoi riempire la tua vita con un pulcioso quadrupede.»
Marta scoppiò a ridere, scalciando via le coperte con entrambi i piedi.
«Mi prendevi in giro?» chiese di nuovo lui.
«No. Ero serissima. Non sei costretto a tenerlo tu. Posso anche tenerlo qui, a casa mia.»
Neri si guardò intorno. L’appartamento di Marta era spazioso, più del suo. Una camera con letto matrimoniale, una piccola cucina, un ingresso/soggiorno con tv. E, soprattutto, nessuna coinquilina.
Pensò per qualche secondo all’assurda ipotesi che la sua ragazza vivesse con qualcun altro. E se fosse stato un uomo? Uno studente moro, alto, di quelli che frequentano la palestra cinque giorni su sette? Sarebbe stato geloso? Neri non era un tipo geloso, ma stare per così tanto tempo con Marta aveva risvegliato in lui qualche ghiandola remota. Il fatto che per strada i ragazzi le guardassero il culo non gli era proprio indifferente. Una volta un commesso al supermercato le aveva strizzato l’occhio. Neri non era un tipo geloso, non era tipo da provocare risse per così poco. Ma quell’occhiolino non gli era stato indifferente. Forse Marta le notava, le scariche di adrenalina che lo colpivano in quei momenti. Forse ne godeva un po’.
«Sì, penso proprio che starebbe meglio qui.» rispose.
«Sì, penso anche io. È perché c’è più spazio.»
«Ma allora perché mi hai chiesto il permesso? Non puoi prenderlo e basta?»
«Il cagnolino?»
«Sì, quell’adorabile mucchietto di peli.»
«Devo contare su di te per accudirlo. Soltanto qualche passeggiata ogni tanto. Non ho mai avuto un cane, capisci. L’animalità insita in loro è tanto smorzata da sembrare artificiale.»
Pronunciò quest’ultima frase come se stesse recitando in un film con Charlotte Gainsbourg. Neri rilassò la nuca sul cuscino e allungò la mano a prendere il cellulare sul comodino.
«Capisco cosa provi.» disse, mentre entrava sul web con lo smartphone «Una volta avevo anche io un cane. Uno schnauzer. È morto quando facevo le medie. Un brutto colpo. Si chiamava Squillo.»
«Squillo. Come una prostituta?»
«Sì. Lo chiamammo così perché fino a un anno di età non riusciva ad abbaiare. Produceva un suono simile a una paperella di gomma.»
Digitò “allevamenti di cani Toscana Siena” su Google. Le sue mani sudate ungevano i tasti del cellulare. In realtà non era mai stato molto affezionato a Squillo. Neri non odiava i cani, anzi. Riteneva che fossero bestie intelligenti, capaci di miracolosi gesti di gentilezza. Tuttavia un cane portava con sé parecchie responsabilità. E molte incomprensioni.
Ricordava una domenica mattina, al bosco di Capodimonte. Aveva dieci anni, o giù di lì, e si era offerto volontario per portare Squillo a fare un giro. Si erano fermati sull’erba, avevano giocato un po’. Ad un certo punto Neri lo perse di vista. Eppure era accanto a lui, un secondo prima. Lo trovò dopo un po’ dietro a un albero e lo prese per il collare. Il cane cominciò ad abbaiare. Si abbassò e gli fece una di quelle domande stupide che i padroni fanno ai cani.
«Cosa hai sentito, bello?»
Squillo abbaiava, abbaiava, abbaiava, non smetteva più. Neri capì all’improvviso cosa lo aveva turbato. Un ometto grassottello, poco lontano da lì, stava fischiando. Fischi brevi e acuti. Non c’era dubbio: lo stava chiamando. Lo stava provocando. E non aveva intenzione di smettere. Fischiava come per dire: “Vieni, Squillo, infischiatene del tuo padrone”. E Squillo abbaiava, nervoso come mai era stato. Il pelo ritto, il moccio al naso. Quasi al limite della disperazione.
Neri cercò di spostarlo da lì, invano. Le zampette erano piantate in terra, in posizione di allerta. Neri tirò il guinzaglio con tutta la forza che aveva in corpo, e riuscì a smuoverlo solo di pochi centimetri. Squillo continuava ad abbaiare, incessante, un rumore che si faceva di secondo in secondo più insostenibile. Allora Neri gli dette uno sculaccione. Non aveva mai picchiato il suo cane, ma quella era una situazione estrema.
«Smettila, Squillo!»
Bau. Bau. Bau. Urla secche. Neri mollò un altro ceffone sul fondoschiena peloso, e poi un altro, e poi un altro ancora. Iniziava a temere, bambino innocente, che arrivasse la polizia e lo sbattesse dentro per disturbo della quiete pubblica. Bau. Bau. Bau.
«Smettila, porco cane!»
L’ometto nel frattempo si avvicinava, e continuava a fischiare. Neri, in balia degli eventi, si gettò a terra, incapace sia di portare via il cane sia di farlo stare zitto. Lo schiaffeggiò un altro pochino, in un ultimo tentativo. Niente. Squillo sembrava non sentire neppure le botte, troppo impegnato a fissare lo sconosciuto. Neri desiderò spaccargli la faccia.
In quel momento, imprevedibile come un tuono a ciel sereno, Squillo sbucò alle sue spalle e gli leccò la faccia. Per un riflesso incondizionato mollò il collare del cane che aveva trattenuto fino ad allora. Questo smise di abbaiare e corse verso l’ometto, che si abbassò e lo prese in braccio.
Uno schnauzer, come il suo. Identico al suo. Neri rimase immobile per svariati minuti, il volto paonazzo, con Squillo seduto accanto a lui. L’ometto lo squadrò severo.
Questo è solo un esempio di come i cani possano generare incomprensioni.
«Quale razza vorresti?» le chiese, mentre scorreva i risultati della ricerca sullo schermo del Nokia.
«Un cavalier king.»
Neri digitò in fretta il nome sulla tastiera.
«Che razza di cane è?»
«Dai, è famosissimo. Ne aveva uno anche il marchese De Sade.»
Si voltò a guardarlo. Gli occhi trasmettevano sensualità.
«Sai che assomigli a Charlotte Gainsbourg, proprio adesso?»
«Efface-moi… Déchire mes lettres…» cinguettò lei.

Neri si iscrisse a un corso di francese. Venti euro all’ora, due ore alla settimana. Avrebbe rinunciato al cappuccino e al cornetto della domenica, a Rolling Stones e ai volumetti di Dylan Dog.
La sua media universitaria si attestava attorno al ventisei, e ciò gli suscitava una pacata soddisfazione. Sua madre e suo padre si erano fermati al diploma del liceo. Non che Neri amasse i paragoni. E poi la società gli ripeteva giornalmente che una laurea in storia dell’arte non poteva essere motivo di vanto.
Fuori il sole rifletteva sugli specchietti dei motorini. Stava sottolineando un libro di storia contemporanea, e da uno stereo al piano di sotto proveniva una musica suadente. La voce di una donna.
«Siamo il contagocce della sera…»
Il telefono squillò. Andò a passi svelti a rispondere, ben sapendo chi c’era all’altro capo. Purtroppo per lui, era ignaro della notizia che gli avrebbe dato Marta.
«Cambio città.»
«Ehi… sei seria?»
«Sì. Seria, come quando ti parlavo del cane. Sai, penso proprio che lo prenderò. Un Cavalier King.»
«E dove lo farai stare?»
«Con me, a Trento.»
«Vai a Trento? Perché?»
«Non mi trovo bene qua. Per gli studi, intendo. La compagnia… quella è ottima.»
Neri non sopportava quelle conversazioni. Marta sembrava quasi volerlo testare, mentre lui odiava i convenevoli.
«Vuoi stare ancora con me?» chiese.
«Sì.» fece lei, senza dargli il tempo di finire la domanda.
Il suo cuore evaporò in una nuvola di conforto.
«Come ci vedremo?»
«Come fidanzati.»
«Intendevo in che modo. Con quali mezzi.»
«C’è il treno, tesoro mio. Siamo nel ventunesimo secolo.»
«Quanti treni, nelle nostre vite.»
«Sembra la frase di una brutta commedia americana.»
«È che mi mancherai.»
«Anche tu.» sospirò lei, e nella sua voce Neri percepì un sincero dispiacere.
«Quando parti?» le domandò.
«Il due di ottobre. Prima dell’inizio delle lezioni. Ho già trovato casa, là.»
Neri gettò uno sguardo al calendario appeso davanti a lui. Due di ottobre. Mancavano quindici giorni. Sentì gli occhi bruciare.
«I tuoi cosa dicono? Sono d’accordo?»
«Non te ne frega niente se i miei sono d’accordo, vero?»
«È vero. Vorrei solo che tu restassi qui. So che queste frasi ti danno sui nervi, ma non me ne frega un cazzo.»
«Perché pensi che mi diano sui nervi?»
«Perché sono frasi gelose.»
«Non troppo. È una gelosia che sono disposta ad accettare.»
«Allora posso continuare.»
Appoggiò le spalle al muro e cominciò a giocare con il filo del telefono. Era un apparecchio degli anni ’70, quando i cordless ancora non c’erano.
«A proposito,» disse lei, sovrappensiero «oggi mi è successa una cosa strana. Ho visto una faccia alla finestra.»
«Una faccia?»
«Sì. La faccia di un uomo. Mi guardava. Aveva gli occhi rossi. Rossissimi.»

[continua]


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