Opere di

Matteo Gozzi

Con questo racconto è risultato 8° classificato – Sezione narrativa alla XIV edizione del Premio Letterario Città di Melegnano 2009


Questa la motivazione della Giuria: «La solitudine assoluta, desolata e scanzonata di un impiegato geniale, incastrato in una vita nella quale l’isolamento, il disamore, l’abbandono, vengono vissuti con creatività mentale straordinaria ma altrettanto straordinaria disperazione. Fatica è fare una doccia, cenare, dormire, mentre la città indifferente gelida e crudele corre sotto i suoi occhi intelligenti e randagi. E’ una solitudine sartriana, intellettuale, inesorabile e non salvifica, nella quale, proprio come dice Sartre, “l’inferno è l’altro”. Unico volto percepibile in tutta questa desolazione è un commerciante siriano, da cui il protagonista compra cibo indigeribile per carità, o la memoria del nonno che ancora apre ferite nel cuore tenero e sgangherato del protagonista. È per questo che pur di rivedere l’ex compagna, nascosto dietro un albero e sotto la pioggia, come nei migliori o peggiori film francesi, egli vedrà la morte in faccia, per quegli inesorabili e terribilmente casuali eventi del destino che accadono solo a coloro che sono diversi, ma grandi nel loro vivere fino allo spasimo una vita che non c’è.». Alessandra Crabbia


«11»

Guardai l’ora lampeggiare, sfuocata, sul soffitto. Maledetta sveglia digitale. Era anche per quello che odiavo il Natale. Ti fanno sempre regali che poi finisci per usare pur non avendone bisogno. Quell’aggeggio infernale al laser ne era un esempio lampante. Proiettava, silenzioso, numeri rossi, lasciando intorno a me un senso di ritardo cronico che non riuscivo a scollarmi di dosso. Avevo dormito due ore. Miglioravo. Mi alzai faticosamente, appoggiando le mani sulle ginocchia. Cercai di razionalizzare l’ovatta mentale che mi avvolgeva dall’interno. Gli occhi non rispondevano ai miei disperati, quanto vani, tentativi di ottenere luce. Mi alzai e andai in bagno. Dopo alcuni rituali, suggeriti dallo scorrere dell’acqua nel lavandino, mi vestii. Giudicai la maglia che mi stavo infilando non meglio del cibo che il mio amico siriano mi vendeva ogni venerdì pomeriggio. Quell’uomo a me sconosciuto, lavorava in un negozietto sotto casa mia da alcuni anni. Arrivato con la risacca che chiamano immigrazione, rovesciato sulla spiaggia di un paese qualsiasi, era destinato, come altri, a modificare definitivamente la conformità delle coste su cui era approdato. Mi fermava con cadenza settimanale. Con un grido stridulo, mentre rientravo dal lavoro, mi intimava un passaggio tra le cataste di roba ammassate in quei pochi metri quadri divenuti il suo mondo. Nonostante i miei palesi tentativi di fuga dietro le auto parcheggiate in strada, mi accoglieva con un sorriso amichevole. Mi ripeteva alla nausea le doti afrodisiache dei suoi prodotti, io fingevo di credere al suo monologo. Sorrideva e con una pacca sulla spalla mi rifilava un paio di buste piene di roba indigeribile, che pagavo il doppio del necessario a causa di non meglio specificati scopi umanitari. Ma in fondo quel teatrino mi piaceva. Vedevo in lui qualcosa di indefinito, ma che mi somigliava molto. Pensavo spesso a un paio di dadi lanciati su un tavolo pieno di traiettorie e volti umani. Eravamo entrambi numeri inconsapevolmente inutili nella marea di infinte combinazioni del caso. Svegliandomi da questi pensieri mi accorsi che era tardi e, svelto, mi raggomitolai in un giaccone blu sbiadito. Fuori cominciava a fare freddo. Adoro Ottobre e la sua insensata, cupa prospettiva malinconica. Le mani nelle tasche dei pantaloni da consumato attore western mi davano un minuto senso di sicurezza. Arrivai al lavoro e posteggiai l’auto, come solito, di fianco a quella di Sonia. Credo che quel piccolo espediente mi fosse già costato diverse centinaia di euro. Spesa che giudicavo pienamente lecita in rapporto alle forme fisiche pressoché perfette di quella ragazza. Il mio carrozzaio d’altronde era d’accordo con me. Unico difetto palese di quella donna, era quello di parcheggiare nei posti più angusti e isolati. Io, per avere l’occasione di incontrarla e di scambiare un “ciao!”, cercavo di infilare la mia monovolume di fianco alla sua utilitaria alla moda. Spesso gli esiti erano tristemente contorti e inutili, come le plastiche del mio paraurti. Ripensandoci, di lei non mi interessava poi granché, ero essenzialmente attratto dall’idea di rapporto, qualsiasi esso fosse. A volte la solitudine provoca strani effetti secondari. Dopo un innocuo tragitto in ascensore, passato annusando gli odori dei miei compagni di viaggio, mi sedetti alla scrivania. La giornata trascorse tra i soliti ritmi indecenti e le scarse motivazioni impalpabili. Sentii, o perlomeno credetti, qualcuno dare ordini. Risposi con una sobria ed elegante indifferenza. Il mondo scorreva al mio fianco come un fiume visto dal finestrino di un treno in corsa. Mi ricordai di non aver fatto la doccia quella mattina, disegnai quindi una goccia su un post-it che infilai nel portafoglio, ripromettendomi di farla più tardi, dopo cena. Uno slogan appeso nel corridoio della mia scuola, ormai troppi anni fa, recitava “la pulizia prima di tutto”. La noia meccanica e rassegnata subito dopo, pensai. Arrivarono, non so come e soprattutto grazie a chi, le 18. Spensi il computer, al quale mi ero aggrappato nella speranza di sopravvivergli, otto ore prima. Accompagnai il gesto con un sospiro troppo teatrale e un movimento goffamente ritmato che suscitò uno sguardo di compassione da parte della mia collega più anziana. Lei sedeva eroica a cinque spruzzi di deodorante di scarsa qualità da me. Mezz’età e troppe ore di inutile fitness alle spalle. Giudicai malamente l’uomo, di otto ani più giovane di lei, con cui condivideva attimi di vita fotocopiata. Invidia? Fu roba di un attimo. Mi ritrovai a pensare che, forse, avesse ragione. Cancellai quella nuvola dai miei pensieri nell’istante in cui percepii nettamente il colore del suo respiro. Grigio. Mi alzai, con le ginocchia quasi insensibili, dopo tutte quelle ore passate ad appiattirmi il culo per risolvere cose di cui non comprendevo l’importanza. Pazienza. Il Dio denaro aveva vittime più illustri di me. Mi sentivo attore di un teatro dismesso, scusa traballante, come un castello di carte. Mi esplodeva la testa e mi resi conto che non avevo guardato fuori dalla finestra per tutto il giorno. Riavvolsi velocemente le ore per immagini, come si fa coi vecchi film presi a noleggio in cui si cerca solo la scena saliente. Le sensazioni, ammesso che ce ne fossero state, erano svanite in qualche cassetto della scrivania come un souvenir di un viaggio fatto molti anni prima. Aprii le tende dell’unica finestra che stava a due cestini e un fax da me. Fuori era buio, la città era flebilmente percepibile dietro i doppi vetri. Sembrava una mareggiata piena di meduse. Luci, insegne, piccoli puntini lattiginosi con un sottofondo di clacson lontani. Scrissi “adios” nell’isoletta di vapore condensato creato dal mio respiro su quella pellicola trasparente che mi separava dal tutto. Era sera. Provai pietà per me stesso, promessa non mantenuta, circo di periferia, vita artificiale. Blade Runner domestico. Immaginai il trucco di un clown in ginocchio colare sul colletto della camicia d’ordinanza da impiegato. Con la coda dell’occhio vidi la collega che mi fissava, forse preoccupata del mio permanere di spalle immobile. Il suo rigido, ripetitivo, ciclostilato schema di vita non prevedeva quella variante rispetto alla solita procedura di uscita. Non sarebbe mai stata un’eclettica giocatrice di scacchi. Poteva bastare. Non sopportavo più la mia presenza, figurarsi quell’ologramma di donna. Salutai come si saluta il nulla senza conoscerlo. Nel parcheggio, ovviamente, di Sonia nemmeno l’ombra. Il suo posto auto era vuoto. Le tempistiche di azione mi avevano storicamente sempre fregato, sempre. In modo automatico pensai al Tetris e a quegli odiosi spazi vuoti che ti impedivano il riempimento di righe. Quel gioco mi aveva rubato gettoni e ore di vita, ora si riproponeva in modo più tremendo, esplicito, tangibile .Credo avesse ragione quel tizio che un giorno mi disse che avevo un problema di sincronia con le opportunità che la vita riserva a ognuno di noi. Giusta o sbagliata che fosse quella sua analisi, quel tipo era morto anni fa, con un conto aperto al bar sotto casa, dimenticato perfino dal suo cane. Archiviai tutti quei pensieri calciando ciò che rimaneva di una lattina di birra. Ero troppo apatico per pensare di comprarmi qualcosa da mangiare. Decisi, dopo un breve summit con me stesso, che avrei utilizzato quello che rimaneva in frigorifero. Tonno o altri animali che avevano finito i loro giorni in modo diverso da come avevano immaginato. Così è la vita. Mentre rientravo a casa in auto molte macchine attraversarono il mio assorto modo di guidare. I sol settima di John Coltrane in sottofondo evidenziarono il deficit culturale che si frappone tra un veicolo a benzina e le virtuose variazioni di “A love supreme”. Sorridendo immaginai i volti di quegli esseri che percorrevano strade a me parallele od opposte. Pensai al tonno in frigo e a mio nonno che non voleva morire, ripiegato con le mani tra i capelli su un divano di velluto verde. Cercò la risposta ad un male col nome di un segno zodiacale tra le righe delle mattonelle della sala, per pochi mesi. Non guardò mai più mia nonna negli occhi, perché quegli occhi erano ormai solo una stupita domanda la cui risposta era ormai inutile. Passato remoto, come la neve e il dolore dei piedi gelati, dentro gli scarponi, in Russia. Mi mancava mio nonno. E’strano come i bambini ricordino i particolari di certe vicende. Le più tragiche, dure, spietate vengono spesso a galla per dei dettagli all’apparenza inutili. Effimeri. Come l’occhio di una balena. Ridicolo, in un infinità di corpo, quantità di sentimento concentrato in un punto infinitesimale. Sorrisi a quel mio stupido gioco e all’angoscia che sentivo in gola. Arrivato in garage, spensi il motore e con lui quel jazz morbido e sinuoso come l’alone che il vino lascia nei bicchieri, quella scia visibile solo in controluce ma di una perfezione e di una morbidezza che ricorda il piegarsi del grano al vento. Gli occhi si fecero pesanti. Le mani stranamente leggere. Contrasti. Entrando in casa lanciai le chiavi su un giornale di alcuni giorni prima. Mimai a fatica una cena per non dimenticare del tutto il concetto di dignità maschile, faticosamente modellata da secoli di cruente battaglie. Ingoiai qualcosa di cui non ricordo il sapore. Mi buttai sul letto sperando in un trillo del cellulare che mi segnalasse la mia presenza al mondo, o che mi segnalasse la presenza del mondo. Il progetto doccia, con relativo post-it, nel frattempo, era miseramente fallito. “Domani mattina” giurai fiero non so bene a chi. Non avevo voglia di fare bilanci. Volevo dormire. Una televisione con argomenti nazional popolari plagiava esseri inutili al piano sopra di me. La luce della casa di fronte alla mia penetrava tra le fessure della finestra, illuminava i miei occhi che non avevano nulla di meglio da fare che ricambiare l’intrusione. Reciproca invasione. Solo il rumore della pioggia intramezzato da una lontana discussione. Il brutto tempo mi aveva sorpreso. Decisi di arrivare a patti con l’insonnia, alzandomi. Mi accorsi del rumore strano delle mie ossa, qualcosa che aveva a che fare con le stive delle vecchie baleniere. Mi sedetti sul bordo della cucina, al buio. Amavo quel posto, odorava vagamente di aglio e biscotti. Speravo dentro di me che qualcuno mi cercasse, non Sonia, no. Sonia era un innocuo screen saver per le mie non giornate. Ma lei. LEI. Si era conficcata dentro di me alcuni anni prima e tutti i tentativi di togliermela di dosso avevano l’effetto delle banderillas sulla schiena di un toro ormai allo stremo. Più mi muovevo più laceravano in profondità. Stavo uno schifo, barcollavo e la diagnosi non era così difficoltosa nemmeno per l’ultimo degli sciamani a pagamento. Raschiai quello che rimaneva dal fondo di un barattolo di caffè liofilizzato e aspettai disarmato il bollire dell’acqua. A piccoli sorsi cercai di riprendere le coordinate spazio temporali della mia esistenza. Nel frattempo, la pioggia era aumentata di intensità coprendo definitivamente ogni tentativo di rivalsa vocale umana. Rimasi ad ascoltare il rumore del mio respiro, caldamente amplificato, dentro la tazza che avevo in mano. Decisi che, l’indomani, sarei andato da lei. Volevo vederla, solo vederla. Bastava. Anche da lontano, l’ondeggiare della sua gonna. Tutto qui. Lanciai la tazza nel lavandino come da copione hollywoodiano. L’esito fu disastroso sia per la scarsa consistenza del gesto sia per il già poco candido colorito delle mie tende. Mi distesi sul letto fiero delle mie decisioni, sicuro che avrei risolto i miei problemi dopo una salutare dormita. Tre ore dopo non avevo ancora preso sonno e sotto gli occhi avevo due buchi neri, capaci di una forza attrattiva immane. La doccia, questa volta, ebbe l’effetto del monsone in Asia. Mi resi conto che l’attesa era la stessa, il mio corpo necessitava di questo evento come i campi del Pradesh. Accesi l’auto un minuto prima che dal notiziario delle sei segnalassero l’aumento dei casi di displasia dell’anca nei cani da pastore. Il tutto sembrava essere dovuto alla sempre più frequente mescolanza di razze canine. La mia mente ingenua scappò divagando su alcune implicazioni politico sociali della questione. Un vecchio vizio da cui non ero ancora riuscito a disintossicarmi. Avevo stabilito, mentre masticavo il cuscino, alcune ore prima, che l’avrei incontrata sulla strada che ogni giorno faceva per recarsi al lavoro. Come la folla sulla strada che portava al Golgota, così io decisi di aspettare la mia redenzione visiva. Ci eravamo lasciati alcuni anni prima e le colpe, come spesso capita, avevano cambiato padrone varie volte nei documenti agli atti di un giudice inesistente ma, non per questo, meno severo. Dopo alcune birre rosse erano totalmente sue. All’uscita del supermercato, mentre evitavo di comprare calze di spugna e accendini, erano tutte mie. Solo le passeggiate col mio cane, in campagna, riuscivano a ristabilire una sorta di patto di non belligeranza tra il torto e la ragione. Una Yalta venuta male. Chiesi perdono a Churchill più volte di quell’ardito paragone post bellico. Ormeggiai la mia monovolume poco distante dal suo appartamento, in un porto alberato che mi sembrava sicuro. Scesi in strada accogliendo stoicamente, come dovuta, ogni minima goccia di pioggia che si infilava tra la camicia e il collo. Mi vennero in mente, come fotogrammi, almeno cinque film indipendenti con questa scena, facendomi sentire decisamente peggio. Mi misi ad una distanza sufficiente per non essere visto, ma insufficiente per dimenticare. All’aprirsi della porta di casa intravidi il suo sorriso. Quel sorriso, fermo immagine del mondo. Credo che il camionista avesse già cominciato la sua manovra e non mi avesse ancora visto. La retromarcia che fece, schiacciandomi il cuore, non poteva essere voluta. Rimasi immobile nell’ascolto agghiacciante del rumore sordo prodotto dal retro del camion che spappolava il mio unico raccoglitore di sentimenti ed emozioni. Unico… già. Il camionista fu gentilissimo, scese immediatamente e corse verso di me. Vedendomi inerme e pallido cercò di rassicurarmi dicendo che tutto si sarebbe risolto, era solo un po’ di sangue, nulla più. Ridendo di un riso isterico, rettilineo come un piano sequenza, lo guardai senza vederlo. Percepivo solo rottami dentro di me. Pompavano sangue, dove non doveva andare, ad un ritmo sincopato e disordinato. L’impatto doveva essere stato duro, anche l’autoarticolato era tremendamente distrutto. Non riuscivo a sentire nulla, solo un ronzio, come credo sia per i piloti dopo le incursioni ad alta quota. Mi passai le mani sul petto a rassicurarmi che tutto fosse a posto. Tutto a posto. Tutto a posto. Lei salì in macchina con lui, uno dei miliardi di lui sulla terra. Ma quel lui non ero io. Rimasi qualche minuto o forse ore, con un camionista che non c’era a raccogliere i pezzi di qualcosa rotto dentro, per una costatazione amichevole col mio futuro. Il mio passato era già in tangenziale nord con un nuovo pilota. Mi trascinai in macchina, olocausto di me stesso. Trasfigurato, mi arenai sul volante come un relitto senza il suo naufrago da salvare. Immobile, persi il controllo. Mi aggrappai al cruscotto per non sprofondare nella palude viscida di ansia che si stava formando sotto i miei piedi, umida. Vacillando vomitai rabbia, pura, acida sulle pedane fresche di lavaggio. Mi risollevai ridendo, sull’orlo di un confine straniero che si oltrepassa una sola volta, valutando una soluzione che sembrò l’unica. Decisi di non vederla, ma era li che mi osservava, immobile. Ricordo perfettamente la calma e il silenzio in essa contenuti e il dolce invito che sembrava ironicamente riservare. Nello specchietto retrovisore vidi qualcosa a cui non ero abituato. Un uomo di mezza età, con la barba di alcuni giorni, mi guardava fisso negli occhi. La parte oscura fissava il suo riflesso sconfitto con fredda determinazione. Il fiato pieno di rancore, sputai. Filamenti di saliva uscivano ed entravano dalla mia bocca al ritmo impazzito del mio respiro. Un clacson vicino all’incrocio, spaventandomi, mi riportò alla realtà . O qualcosa di simile. Pian piano mi calmai. Presi il cd di Coltrane dalla custodia e mentre abbassavo il sedile dell’auto le prime note accolsero un uomo vuoto di se stesso. Cercai in quel suono una nuova verginità, tentando disperatamente di cancellare immagini che graffiando mi rimanevano attaccate. Ero sfinito. Piansi. Piansi perché il tutto in un pugno non sta, perché non sapevo come riempire lo spazio tra due mani che si lasciano. Disteso guardavo il soffitto dell’auto, color beige. Mi svegliai, di soprassalto, erano passati non più di tre minuti ma, l’odore nell’abitacolo, era insopportabile. Scesi sbattendo la portiera dietro di me. Avevo una strana sensazione appesa tra lo stomaco e le costole, come di mancanza di contrappeso. Feci alcuni passi e raggiunsi il ponte da dove si ammirava lo scorrere del fiume, ingrossato dalle piogge e reso dorato dalle scaglie di sole che, timide, gli si abbattevano sopra. L’aria metallica del mattino mi riempì i polmoni, bruciava. Sembrava che tutto fosse fermo, sospeso nel tentativo di cercare un nuovo inizio. Sentii un fischio alle mie spalle. Voltandomi, notai il mio amico siriano che passava lento in bicicletta. Carico di borse, come una carovana beduina nel deserto, mi salutava felice, stupito di vedermi in giro a quell’ora. Passò oltre, in mezzo agli insulti e allo zigzagare di esseri molto più veloci di lui. Lo vidi sparire dietro a una curva, come un miraggio. In un bar poco distante due tizi parlavano di economia gesticolando. Un foglio di una pubblicità sorpassò, sospinto dal vento, il lampione alla mia destra. Salii in macchina e presi la tangenziale. Verso sud. Nemmeno pensai che era il mio compleanno.

Matteo Gozzi



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