Il senso del nulla

di

Matteo Bona


Matteo Bona - Il senso del nulla
Collana "I Gelsi" - I libri di Poesia e Narrativa
14x20,5 - pp. 96 - Euro 9,00
ISBN 978-88-6587-840-8

eBook: pp.  - Euro 4,99 -  ISBN 978-88-6587-877-4

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In copertina: «Le metamorfosi del nulla» © Matteo Bona, 2017


Prefazione

Il libro di Matteo Bona, dal titolo “Il senso del nulla”, comprende una silloge di poesie che si alternano con alcuni brevi racconti relativi a tematiche eterogenee e, proprio questa capacità di spaziare su vari orizzonti, denota anche una forte propensione alla narrativa, sempre giocata sulla linea di confine tra la cruda realtà e la visione creativa dell’autore.
La sua concezione letteraria è totalizzante e la volontà di creare uno spazio che coniughi la visione lirica alla tensione narrativa, diventa lo strumento per proporre, nel miglior modo, la sua opera.
La silloge di poesie è divisa in tempi lirici che dettano il ritmo d’una versificazione sempre attenta e costantemente tesa a fissare l’impulso che ha generato tali percezioni, emozioni e visioni poetiche.
La sua Parola, limpida e decisa, penetra negli anfratti del mondo e nelle pieghe della vita, che “intrappolano” in un simbolico “claustro inconsistente”: virtualmente concluso in questa dimensione, il poeta vive i silenzi della notte, è assediato da suggestioni, invaso da echi esistenziali che inondano la mente mentre una “lama trafigge” l’Essere.
Ecco allora che, nel dispiegarsi del processo lirico, tutto pare “lontano”, inesorabilmente avvolto dal “senso del nulla”, mentre il defluire del mondo poetico e del flusso di pensiero, si fa abissale e, al contempo, “titanico”, come a constatare che il dolore della vita è “incatenato” al corpo dell’Uomo.
La poetica dell’autore risulta avvolgente e pare inglobare nella sua fascinazione: pervasa di immagini che non lasciano spazio a fraintendimenti, generata da un profondo scandaglio interiore e alimentata da un lessico ricercato, mette in risalto la sua estrema originalità, per giungere, infine, ad atti lirici “purificatori”.
Nella concezione dell’autore il poeta può, quindi, paragonarsi ad un “oracolo” delle “anime risorte” ed incarna, nel bene e nel male, una sorta di voce del “ricongiungimento” alla verità.
Nel momento in cui Matteo Bona entra nel campo della narrazione il suo raccontare si fa ancor più penetrante e scava nell’animo umano con racconti che esaltano tale propensione: la tragica vicenda d’un suicidio che vede il protagonista fagocitato nei “meandri oscuri della mente” e la sua esistenza diventare un “sogno eterno”; la struggente storia d’un matrimonio e della conseguente difficile “strada verso la completezza” come a riportare l’idea che le manifestazioni del vivere si disperdono sia in dimensioni impensabili come nella fusione di “due anime che si accompagnano nel divenire del Mondo, al di là del tempo e della volontà”; e ancora, la necessità di creare un personaggio fittizio per occultarsi, di avere una maschera grazie alla quale nascondere la vera identità.
Come atto conclusivo di questo processo d’indagine, infine, nel racconto “La stagione dei crisantemi rossi”, troviamo la dolorosa storia di una donna, soffocata dalla sofferenza, conscia dell’inutilità della sua esistenza, annientata dal destino crudele, umiliata dal marito che la tradisce: il suo errore è amare troppo l’uomo che ha sposato e che non merita il suo immenso amore, la sua totale dedizione.
Nel cuore della donna, il crisantemo rosso diventerà il simbolo dell’amore, ma non servirà a nulla coltivare la speranza d’amore perché sarà preda della follia e della volontà di possesso d’un uomo che non è mai stato capace di amarla veramente.
Nelle narrazioni presenti nel libro “Il senso del Nulla”, emergono prepotentemente il travaglio ed il dolore dell’esistere, resi pienamente dalla Parola di Matteo Bona, costantemente proteso a fissare nitidamente le molteplici contraddizioni ed inquietudini dell’umano esistere, tra realtà e finzione, mai dimenticando di cospargere le sue poesie ed i suoi racconti di un velo d’enigmatica percezione della vita e della morte.

Massimo Barile


Il senso del nulla


Ringrazio Andrea, Elisa, Gino, Rossana ed Alba per aver contribuito alla pubblicazione di questo libro.


Dedico questa silloge a Martina ed Elena.


MISERIA E SILENZIO

Io sono un’attrattiva monumentale,
costituita dal senso del nulla


LA CAMPANA E LA NOTTE

Undici rintocchi
Echeggiò gravida
La cupa campana,
Ed i suoi scintillanti fruscii
Inondarono strillanti
I nostri stretti cuori,
Come bianchi
Silenzi,
Nella pioggia
Notturna.


FATO E SOFFERENZA

Briglie sciolte e disfatte al Fato
Prorompente e forte:
L’inedia feroce –
La celata malattia –
Mi espugna il cuore
E nulla più vedo se non il sangue
Che piacevole affiora.
Nella mia mente è fiorito un tarlo
Avaro –
Cupido –
Una pestilenza tragica, distruttiva.
Dai miei occhi di vetro
Sgorgano stille taglienti come cristalli.

Se mi accosto al ciglio dell’uscio,
Se mi sporgo fra questi due mondi
Stretti ed esiziali,
Scorgo dirupi che m’intrappolano
In un claustro inconsistente.

Come una lama che ci trafigge
La sofferenza
Può essere tanto complessa da
Descrivere.
Un sussulto inaspettato verso
Speranze – disperse,
Tumulate.

Da drappelli interiori e cupi
Urlano corde bellicose e sorde,
La mia pelle si dilania con strappi
Sguaiati,
I rochi stridii dell’ossa che si frantumano
Paion’ timpani squarciati:
Anima mia, perché sei tanto
Piccola? Perché m’appari
Un punticino nascosto da tutta questa
Carne?
Più ti guardo e più ti compatisco,
Più mi compatisco più mi paro meschino!

Non reo è il Tempo,
Noi siamo macchiati, noi malati,
Noi bestie turpi e magniloquenti,
Stanchi paramenti della vanità.
Lontane da me le fronde fresche,
Lontana da me la terra grassa e florida
Ed ahimè pur Amore, che con strali di
Ginestre in fiore e lance d’orchidee,
Mi rifugge!

Più ammiro e meno vedo:
Tutto mi sovviene titanico –
Macigno –
Come se una mano soave e gentile –
Lontana dalla realtà –
M’espugnasse con
Violenza le membra.
Io –
In quel gozzoviglio d’intestini
Ed arti freddi –
Soffro,
Come può soffrire
Un amante solingo.

A che dir Umanità?
Perché? Solo fetide
E stentoree parole –
Raminghe.
Così brute
Da ribollire indolenti di labbro in altro:
Io non son più io
Se mi si discosta di qualche passo:
Poco più in là son poeta ed ancor di poco
Pindaro.

Sofferenza amata, amara compagnia
D’ogni dì, quanto cubar nella notte!
Sarà forse eterno
Il nostro convivere?
Ti aggrappi tanto forte al mio corpo –
Pondo nella notte –
Apparendomi unica scaturigine
Del mio vivere.
Ahimè, mai più mi volgerò mirando
Gli occhio suoi? Giammai udrò ancor
Il canto suo placido e quietivo?
Io traditore, io carnefice terribile:
Or che dalle tasche ho vuotato
D’argento i trenta pezzi
All’imo del goder Amore sia relegata
L’anima mia!
Parole, solo perché sappiamo musicar di queste!
Altro non ci imponiamo che tracotanti
Cantilene, noi bevitori di suoni.
Toccate:
Tutto ciò che v’è
Al di là del sole altro non sia che
Vanità?

Noi non viviamo in questo mondo,
Siamo imbelli fanciulli:
Dolce alea del vano,
Rendimi nullaggine cosmica in questo
Vivere!
Dacché sia fatto questo voler mio
Mai più desterommi per urlare
A voi tutti, a voi compassionevoli:
Imbecilli!


LE URLA

Se solo potessi udire le urla
Celate da queste
Ferme parole,
Incatenate: fra
Bianco e Nero
Il dolore della
Vita.


NELLA PIAZZA DI DE CHIRICO

Disperato si aggrappa
Ai pensieri
Ed a quell’iperbolica
Insoddisfazione
L’uomo metafisico
Che cammina solingo
In una piazza,
Longinquo dai taciturni vocî,
Vuoti.


ECHI

Io vivo
Ed in te respiro,
Echeggiando
Degli stessi
Mormorii della
Natura,
Infine divengo
Un atipico suono
Della tua stessa
Essenza:
M’infrango
Ai confini della bellezza,
Riducendomi
In polvere,
Per giungere
Purificato
In un mondo
Che non
M’apparteneva.


INSONNIA

L’insonnia ti rende una larva, ti spossa, rendendoti completamente inconsapevole: un pupazzo del nulla che indolente vive un sogno stanco, con quei due occhi sbarrati come due lucernari tondi accesi nella quiete della notte, proprio mentre tutti dormono, privi di pensieri e di frustrazioni; intanto tu pensi, rimescoli incessantemente i turbamenti che ti sconquassano ogni giorno; più rimani in questo sempiterno stato di catalessi più quelli diventano titanici, inumani ed insormontabili. La mente, dunque, si spande in atmosfere che cercano di acquietare questo costante inaridimento: cerca luoghi impropri, distanti dalla personale condizione di annullamento, e spesso sovviene il ricordo di quelle dormite serene, lontane ed infantili; l’arrivo della nostalgia segna il successivo passaggio verso la cessazione delle proprie speranze, dei propri interessi.
Si vive nel passato immaginandolo come un sorta di terra lontana, ora assolutamente inesplorabile.
Tutto questo nella notte: proprio quando tutti dormono, o fanno l’amore, e tu altro non puoi fare che immaginare il calore dell’amplesso.
Gli sguardi, le occhiate complici, stanche, e seraficamente innamorate e consapevoli.
Il lato positivo è che l’insonnia è un ottimo esercizio di pazienza e, ancor più, di immaginazione; gli avvenimenti più assurdi divengono espedienti spunti per una riflessione, per un’analisi totale di ciò che circonda quel piccolo esserino, oggetto, persona o pianta od ancor altro; la follia ventura è uno stato elementare, pressoché ovvio.
Ovviamente il riscontro sociale non è dei migliori: si diviene una sorta di manichino neutrale, spesso cervellotico, se non paranoico a tratti; le proprie manie divengono un’oggettiva ed inalienabile necessità di vita. Dacché la mente è paralizzata in un costante stadio d’utilizzo, tanto vale che la sua interminabile fonte di parossismi si sfoghi inverecondamente su inezie o facezie, più spesso sulle prime: i fogli disposti disordinatamente sullo scrittoio in pile divengono interessanti ed accattivanti, parimenti libri, stoviglie, bottiglie di vino da ordinare per nome, annata, tipologia, bouquet, fragranza, dischi, film od altri millanta oggetti ed oggettini.
Il disturbo ossessivo-compulsivo diviene il miglior compagno di vita, il coinquilino ordinato ed onnipresente; diviene l’unica motivazione per rimanere ancora in vita; tutto ciò che per una persona normale è una faccenda prettamente momentanea, per te è una sorta di palliativo.
Entrato in un giardino, dopo aver ammirato la bellezza della verzura e la potabile ridondanza d’essa, il primo pensiero che ti invade è l’ottimizzazione d’ogni nullaggine, dalla gomma semi-srotolata accanto al pozzo di mattoni cotti, dal gazebo ricolmo di vasi, vasetti e ciotole, fioriere cariche di erbacee semi-morte, se non decedute del tutto.
L’unica necessità che ti coglie in maniera impellente è la voglia di riordinare quello strano agglomerato di vegetali. Ti seccano persino quelle minuscole erbacce che fuoriescono dai mattoni in tufo, che costituiscono il fondamento del gazebo, come se fossero i peccati che hanno originato la tua patologia.
Con grande maestria, ordine e dovizia sradichi attentamente, ponendo un’attenzione maniacale all’essere stato nevroticamente ed assolutamente clinico nel tuo ripulisti nevrotico.
Dopo questo inquietante periodo di sovrapproduzione, e di sovrabbondanza di laboriosità, ti si presenta una contumacia ad ogni sorta d’istinto vitale, come se la tua mente ed il tuo corpo si fossero ripiegati nella negazione assoluta d’ogni volontà; la tua conformazione di cervellotico ordinatore biologico è divenuta una struttura paradossale, di carte vacillanti, come se un tenerissimo soffio avesse fatto tremolare le fondamenta e che, da quella minima scossa, ogni sentimento di sopravvivenza fosse divenuto una sorta di attesa fatale.
Sei diventato un accidioso, una delle peggior specie di contemplatori dello scorrere del tempo: una di quelle anime stanche della loro condizione e che rifiutano, persino, d’analizzare i perché ed i percome della loro esistenza fraudolenta. Si aspetta e basta.
Tutto ciò che t’è intorno è causa d’indifferenza; ti senti assolutamente stanco, eppur le tue palpebre – immote come un edificio e restie al chiudersi, anche solo per un istante maledetto – non si decidono di chetarsi.
Tuttavia pensi che questa condizione possa essere momentanea, ma lo pensi e basta e quindi non ti decidi a dare una svolta radicale a questa tua condizione di lassismo prolungato. Ti senti una sorta di fardello, non per gli altri certamente – o forse sì? – ma per la tua stessa persona: ti senti come un sasso sulla rena, fermo, sballottato di qua e di là senza un perché, smosso soltanto dalle onde che ti giungono contigue; senti tutto, dalla marea che sale e che scende, dalla sabbia che ti solletica il radico su cui poggi, dai vocii lontani di quegli uomini che si stanno vivendo la loro vita, a quegli stessi che vivono nella noncuranza assoluta della tua condizione.
Con un feroce slancio di volontà, – forse l’ultimo che ti pervaderà – ti decidi a fare un passo indietro, deciso a viaggiare a ritroso, verso quello stadio che previamente hai vissuto.
Ritorni inesorabilmente con tono arrendevole e rassegnato a quell’essenza ossessiva ed ordinatrice, ignorando completamente il senso della dignità.
Sei il cliente soddisfatto di una meretrice frusta, stanco ed indolente, volgendoti così al senso più basso e bestiale della perdita di coscienza individuale.
Pensi, ripensi, conti, scrivi, riordini, disfai per l’insoddisfazione, ri-riordini, incolonni, alfabetizzi: tuttavia, non ti fermi ad analizzare la motivazione per la quale tu sei divenuto quell’automa infausto e disvoluto. Sei schiavo di te stesso, come se la tua mente soggiogasse parti differenti d’essa stessa.
Ti auto-fagociti in una patetica autocommiserazione, riempiendo fogli e fogli, ed ancora fogli, con pessime frasi sul senso inesistente della vita.
Se fossero analizzate concretamente, spaventerebbero anche il più apatico e scaltro degli psichiatri.
Sei la copia insignificante ed insulsa di Diogene.
Un misero pupazzetto noncurante di ciò che t’avviene attorno: ti disturba lo scompiglio del Mondo, ti disturba il disordine d’una casa o, ancor più nel piccolo, d’una persona soltanto; eppur non ti scalfisce il subbuglio che hai sotto i capelli. Non riesci ad essere obbiettivo nei tuoi stessi confronti poiché, e forse, l’accidia ha eradicato quel minimo di consapevolezza che ti pervadeva.
Sei ad una svolta assolutamente fondamentale: scegliere d’intervenire o passare alla fase successiva del giuoco: la follia.
Conti di riuscire a placare le tue manie, i tuoi parossismi, non rendendoti più conto del sottilissimo confine che divide la realtà dalla tua medesima allucinazione.
Non riesci a riscontrare la differenza che intercorre fra un turbamento assolutamente umano e la tua stessa mania: sei una sorta di burattino nelle mani di nessuno. Sei un gioco in balia d’una mente che ha smesso di fungere.
Vorresti dormire e non puoi, ti piacerebbe rinchiuderti in quella cella onirica per immaginare una condizione alternativa, una nuova speranza, o – magari – soltanto una dolcissima morte.
Con questa tua nuova condizione ricalchi una scena che non senti più tua, che percepisci sideralmente lontana dalla tua esistita normalità: eppure continui ad essere un umano parimenti ai tuoi consimili; ma, come la scienza ci ha dimostrato, il confratello malato viene allontanato, marchiato con l’inscindibile epiteto di condannato.
Non sai come proseguire, sei in una condizione di stallo, in un bianco impasse: il tuo amor proprio ti mantiene in vita, il cosiddetto istinto di sopravvivenza ti salva dal tuo scervellarti.
Un diverso sonno t’attira come un favo attira un orso.
Ti senti come un attore a cui hanno assegnato una parte assolutamente incompatibile.
Questo tragico fraintendimento è fisiologicamente irreversibile: ti fiondi come un forsennato nei meandri più oscuri della tua mente per immaginare, per ricercare una motivazione degna d’essere chiamata colpa, benché questo fallo non vi sia.
Divenuto uno schiavo di te stesso, dei tuoi deliri, percepisci la realtà in maniera assolutamente discordante, la rendi più tua che oggettiva, la mistifichi con voci, con sentiti dire. Argomenti la tua verità con facezie assolutamente prive di significato, per quanto romanticamente vane possano essere, sempre secondo la tua personalissima opinione.
Sei un angelo senza ali, un essere asessuato che vive una sua condizione di malattia, senza essere reo d’un vero delitto.
La tua mente ti ha privato di tutto e di nulla: di amore, di felicità, del piacere di vivere ogni istante, di sentire il profumo d’un crisantemo appena schiuso, della fragranza del tè caldo appena fatto; tutto per cosa?
Sonno.
Sei un codardo, tuttavia: non hai la minima intenzione di farti una collana di corda o di puntarti una pistola alla tempia. Sei un definitivo inetto, una materia organica senza spirito; sei come la terra che hai sotto i tuoi stessi piedi, come un sasso, come un oggetto senza scopo né possibilità d’uso.
Eppure, fra tutti noi, quanti hanno veramente uno scopo? Quanti hanno veramente un’anima?
Lasciati con questa domanda scettica, assolutamente priva di risposta e ripensa ad ogni tua azione, od ogni tuo minimo pensiero. L’appartenenza ad un gruppo più alto, non più puro, ti rende un poverello prescisso da questo: la tua cerchia è ben più ristretta, la cerchia dei folli, il girone dei diseredati dal patrimonio della socialità e la frugalità d’ogni gesto, ed ogni minima azione, considerabile come amata, si riduce alla contemplazione della tua stessa condizione di annullamento.
Una sembianza estraniata e pigra, psichiatricamente autolesionista.
Risiedi in un’interminabile casa di Morfeo, od almeno così ti pare, come se l’esistenza – disfatta dalla cessazione del sonno – fosse diventata un sogno eterno nel quale tu sei un personaggio neutrale ed insignificante, incapace di comprendere come la reale plasticità delle cose si strutturi ancora con una solidità tangibile; sei un teatrante senza palcoscenico, un attore dietro ad un sipario di mattoni.
Un monolitico essere indissolubile.
Tu ti disperdi, come un povero agglomerato, un diseredato in una terra che non senti più come tua progenitrice e sostenitrice: ti dissolvi come un fiato, soffocato ed inaudito, come se la vita si fosse resa, istantaneamente, una trappola mortale, vicina e inopinabile da cui fuggire inequivocabilmente.

[continua]


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