Opere di

Massimo Martinelli

Con questo racconto si è classificato al sesto posto al Concorso Città di Melegnano 2008 sezione narrativa


Questa la motivazione della Giuria: «L’autore, innamorato di Bukowski, Cèline e Miller, non possiede però i vizi e le virtù così fascinosi di questi scrittori, né vive le loro esistenze così strascicate e border- line. Ma se il suo stile narrativo è simile a quello di Bukowski, dichiara apertamente la sua ammirazione per l’universo femminile, che tali scrittori non hanno di certo compreso, nel loro maschilismo dichiarato. L’autore descrive invece la donna con meravigliosa e ironica dolcezza, narrandone le idiosincrasie, i gesti abituali, il loro inconoscibile, inaccessibile e tenero mondo. Se questo autore desidera una risposta critica tipica di Bukowski, è che sì, ha classe». Alessandra Crabbia


«Non bevo quanto Bukowsky – E gli altri due li ho metabolizzati»

Lo so. È più forte di voi. E del resto io non faccio niente per evitarlo. Lo so cosa pensate: ecco un altro che vuole imitare (e male, malissimo) il vecchio Buk. Lo imita come un bambino di due anni imita il fratello maggiore, ma senza quella grazia data dai calzoni corti. Mi dispiace, ma io non voglio imitare nessuno. Questo è quello che ho da dire e questo il modo, il mio, per dirlo. Del resto io non bevo, a parte un po’ di birra in estate sotto la veranda e un po’ di vino rosso in inverno. E non sono un grande scopatore. Sono un timido per dirla tutta. Sì, con le donne me la cavo abbastanza ma certo non sono un grande scopatore. Le quattro sei scopate al giorno che diceva di farsi il vecchio Hank, bè, io ci sono molto lontano.
Però voglio lo stesso parlarvi di donne. Di quello che fanno con i loro sguardi o con la loro andatura o con il modo in cui tengono fra le mani un libro o quando carezzano un gatto o provano un paio di scarpe eleganti e via così. …Ah, sì, certo, ho letto e digerito Miller e Celine e a volte mi sembra di scrivere come loro. Li ho metabolizzati, sicuro, ed ora fanno parte di me, sono ben fissati alle mie fibre, come licheni pleistocenici alla pietra. Ma non imito nessuno. Mi piacciono e a volte vorrei avere vissuto come loro. Vorrei avere scritto le cose che hanno scritto e vorrei che non le avessero mai scritte e io fossi il primo a farlo. Avrei voluto essere un dragone d’assalto come Celine e spostarmi nella notte in arcione oltre le linee tedesche e poi scriverne come ha fatto lui. Avrei voluto fottermi Parigi e poi scriverne come Miller e via così. Se questo può farvi felici. Ma non li imito. La vogliamo chiamare sfortuna? Del tipo: sono una nullità e arrivata troppo tardi, per giunta. Vogliamo?
Torniamo alle donne. A me piace osservarle. Certo mi piace anche dividerci un pasto o sentirle leggere ad alta voce qualcosa di Hikmet mentre ci fai l’amore, mica no. Ma in realtà, anche in quei momenti, quello che faccio è osservarle. Forse per questo non le scopo bene e vengo troppo presto oppure non vengo affatto e mi dimentico perché sono lì a scoparle. Le osservo, questo è quello che faccio. Un momento buono, un momento fantastico per farlo senza provare sensi di colpa per il fatto di perdere del tempo invece di scrivere od essere occupato a far carriera in ufficio, è quando accompagno mio figlio di sette anni in piscina. Ha cominciato quando ne aveva cinque, ma all’inizio lo accompagnava la madre, perchè io lavoravo come un giapponese d’acciaio e non ero mai a casa. Passavo la maggior parte del tempo in automobile e mancavo sempre gli appuntamenti con la mia famiglia. Poi qualcosa m’ha dato uno scossone e mi sono fermato. È stato come sbattere contro un muro invisibile. In ogni caso non sono più ripartito e ho cominciato a prendermela comoda.
Sugli spalti della piscina coperta ci ho passato tutto l’inverno e buona parte della primavera. Due volte alla settimana. Credo di non avere mai saltato un giorno, a parte quando il piccolo non poteva andare. Quando accadeva, mi sentivo perso. Ero incazzato. Ero convinto che ci fosse un complotto contro di me per farmela pagare per aver mollato. Una volta ho persino convinto il piccolo ad andare nonostante un inizio d’influenza. È stato un disastro: a metà della lezione è uscito dall’acqua con le lacrime agli occhi. Mentre rientrava infreddolito negli spogliatoi, magro e fragile con le braccia serrate al petto, ha alzato gli occhi verso di me che me la godevo sulla gradinata, facendo uno sguardo da gattino sconfitto. Mi ha fatto un male boia, perchè con quello sguardo mi stava dicendo: scusa babbo, ma non ce l’ho fatta. Ma che dici, piccolino, non dovresti neppure essere qui, ma al caldo nella tua camera! Dovevamo restare a casa pesciolino. E così mi sono sentito veramente una merda. E mi ci sono sentito nel modo che ti rimane addosso per giorni e che ritorna ogni volta che tuo figlio ti guarda chiedendoti scusa per qualche motivo. Povero ragazzino. Ho cercato di spiegargli. Dubito che abbia capito e dubito molto che sia stato un gesto opportuno, la spiegazione intendo. Faccio spesso di questi errori con lui: l’approccio che mi è congeniale è quello dell’amico e non del padre. So che non va bene. L’ho letto su uno di quei libri che spiegano come fare i genitori. Fanculo: io sono uno che sbaglia. Comunque il giorno migliore è il mercoledì, perchè le ragazze arrivano da sole, senza mariti intendo. Al sabato, al contrario, c’è il pieno di babbi eccitati che scattano foto con il telefono o fanno riprese spenzolandosi dal parapetto di ferro che chiude in basso la gradinata. Il parapetto è azzurro e loro sembrano oranghi. Quanto al mio piccolo, lo voglio dire, lui è diventato un vero pesciolino. Magro e tosto e seminudo come un fromboliere (così come immagino dovesse essere un fromboliere di una compagnia di frombolieri ai tempi delle guerre persiane… Contro i greci, sapete…), sguscia lucido dentro e fuori dall’acqua, si rovescia, si immerge e risale nell’azzurro compatto e specchiante della piscina, si aggiusta gli occhiali, batte forte le gambe lunghissime cercando di mantenerle sollevate. Elegante e necessario al suo momento e al suo spazio, come una libellula. Con i suoi occhialini gialli e la cuffia blu. Per me è uno spettacolo. Ma non posso farci niente: dopo un po’ mi distraggo e mi perdo a guardare le donne che se ne stanno sedute intorno a me sulla gradinata della piscina e che come me osservano i loro figli determinati e guizzanti, provarsi nelle due vasche giù in basso. Magari in quel momento un goccio me lo farei, non dico di no. Per godermi di più la faccenda, si capisce. Di tanto in tanto mi faccio un Pastis, con acqua ghiacciata, ma al bar della piscina non sanno neanche cosa sia. Una volta l’ho chiesto e la ragazza al banco mi ha servito un fernet. Dico! Non avevo mai bevuto un fernet: non è male, ma ci arrivi piano piano, perchè all’inizio è un vero schifo. È come ciucciare un pezzo di ferro arrugginito tolto da sotto la neve.
Come potrei descrivervele? Non sono bravo. Certo farei prima a venirvi a prendere sotto casa con l’ automobile e portarvi là. Ma voglio lo stesso provare. Magari mi mandate a cagare al primo capoverso. O magari qualcuno comincia a guardare le cose in un modo differente da prima. A me, sapete, è successo e succede spesso: leggo un libro o guardo un buon film ed ecco che imparo a viaggiare con lentezza, fermandomi nelle trattorie con i tavoli fuori o ai bordi della strada per osservare un tramonto coi fiocchi, o a dare un passaggio ad un’autostoppista (a proposito, avete notato che gli autostoppisti non se ne vedono più?). Oppure imparo a toccare una donna o a farla ridere quando invece lei si aspetta che tu sia serio e ancora un po’ distante (questo si chiama sorprendere ed è un trucco che funziona). Dai libri si imparano tante cose. Non a fare il genitore forse, ma altre cose sì. Soprattutto si comincia a capire che non vi è mai una sola angolazione, una sola prospettiva, un solo modo. Insomma, finisce che a forza di leggere, si scavalca la siepe, si guarda indietro il nostro giardinetto e pensiamo: è solo un giardinetto. E la casa, la guardiamo ed è solo una casetta. E la vita, bè, è solo la nostra vita, niente insomma, per cui valga la pena giocarsi l’anima. Così, se siamo fortunati, perdiamo le certezze che fanno di pietra il cuore degli uomini e cominciamo a non accettare subito la sedia che ci porgono, ma, rifiutandola con cortesia, ci guardiamo intorno e magari saliamo sul tavolo per avere una prospettiva diversa e finisce che decidiamo di sederci per terra. Oppure restiamo in piedi mentre tutti gli altri sono ordinatamente seduti. In piedi, se si ha qualcosa da dire, la si dice meglio. Ora certo io non pretendo di essere quello che vi illumina la strada, ma provate a sentire come vanno le cose…
La prima cosa che faccio in piscina, dopo aver guardato il pesciolino fromboliere fare nodi d’anima nell’acqua, è annusare. Annuso l’aria come un lupo annusa la nebbia per scandagliarne il fondo, con il naso sollevato e gli occhi almeno trenta gradi sopra la linea d’orizzonte. Annuso, perchè c’è un profumo da annusare. Quello delle donne che stanno sedute intorno a me. È roba loro questo profumo. Lo avverti anche se ogni cosa sembra derivare dalla formula bruta del cloro. E non perchè sia eccessivo, ma perchè si muove con loro, accompagna i loro gesti. E ogni tanto, quando indolenti si voltano di tre quarti e incrociano i tuoi occhi e nei tuoi occhi si trattengono il tempo della parola ECCO sussurrata a te stesso a filo di labbra, quel profumo, che è una poesia, che è una canzone, quel profumo ti arriva e ti tiene stretto e sembra volerti confondere e ti confonde e finisce che anche tu pensi d’essere fatto di odore. Odore e niente altro. A questo punto ti chiedi se l’anima abbia un odore e se sia lo stesso per tutti oppure cambi a seconda di quello che siamo o siamo stati nel mondo materiale. E quel goccetto, adesso, vorresti proprio fartelo. Mi piace anche un po’ di cognac, di tanto in tanto. Più che altro quando piove.
Loro, le ragazze, nel frattempo si sono tolte i cappotti attillati e le giacche alla moda e li hanno posati sulla poltroncina accanto o sopra le ginocchia ed ora mostrano il profilo dei seni sotto le maglie di lana o cotone, spavalde e austere allo stesso tempo. E parlano. Le donne parlano. Anche quando stanno zitte le donne raccontano storie. Il mondo è costruito sulle storie raccontate dai silenzi delle donne. Sanno un mucchio di cose. Noi pochi uomini presenti siamo isole e stiamo in silenzio. Ci guardiamo intorno in silenzio e sudiamo un poco sulla fronte e lungo la schiena, che non riusciamo a tenere eretta sulle sedute di plastica senza schienale. Al contrario, le ragazze, sono a proprio agio, come gatte su vecchi cuscini. Così ci togliamo la giacca e diamo l’impressione di non pensarci più. Già. Ma questo non è possibile. Fermare i pensieri intendo. Forse solo le donne ci riescono. Perchè sanno bene cosa sia il presente. Loro sono per la maggior parte del tempo presenti e fedeli a se stesse. O così spero. Lo spero veramente. Come spero che finisca la mezza dozzina di guerre attualmente in corso (dite che sono di più? Ci sta) o come spero che trovino una cura per il cancro. A questo punto devo confessarvi che non so bene dove o quando io debba andare a capo né se veramente vi stia raccontando qualcosa. Fate conto che lo stia facendo e seguitemi ancora un po’. Fosse per me toglierei tutta la punteggiatura. Toglierei anche gli spazi fra le parole. Vorrei scrivere tutto in un’unica colossale parola, in modo che diventi tipo un sostantivo che comincia con la lettera “L” e finisce… non lo so ancora con quale lettera finisce.
Dunque le donne. Non dico mentre ci fai l’amore o mentre sei innamorato di una in particolare. Non dico quando le incontri per strada vestite apposta per farti male. Non dico quando le puoi stringere e baciare perchè in quel momento e in qualche modo, sono prese da te e tu da loro. No. Dico delle donne come direi delle gazzelle o dei faggi nel bosco o delle stelle nel cielo. Come se non fosse così certo e ragionevole pensare che in qualche modo saranno tue. Anzi, come se fosse certo che tu non le potrai mai avere, cosicché il tuo non può che essere un amore vero e disinteressato. Dico le donne che sono per se e si bastano; in quel momento si bastano e vivono e respirano per se stesse e neanche loro sanno quanto siano per se stesse. Dico le donne quando sanno che possono piacere, ma così, appunto come una gazzella può piacere ad uno che la guarda con il cannocchiale da dietro una roccia e la vede in mezzo alla prateria asciutta e glabra, nella luce abbacinante del pomeriggio.
Ad esempio le loro mani. Si muovono e sono curate ma non necessariamente belle. C’è della vita sopra. L’importante è come queste mani riescono a volare davanti alle labbra, alle parole. Come riescono ad accompagnare le parole confinando inesorabilmente lo spazio in docili frammenti e perdurando oltre la loro fiamma nella memoria di chi le osserva. Se poi hanno le unghie della lunghezza giusta e con su dello smalto del colore che ti piace, bè, tanto meglio. Io vado matto per il verde, ad esempio.
Poi capita che squilli il telefonino (che idiozia questa parola. Che trovata da imbecilli. Ino. Ino un cazzo!). Allora lo cercano nella borsa o le più spavalde lo tirano fuori dalla tasca posteriore di jeans attillati. Scostano con un movimento irripetibile la ciocca dei capelli dall’orecchio (a volte se hai fortuna, capita che si tolgano l’orecchino e scansino una ciocca di capelli mandandola dietro l’orecchio: allora io vorrei essere lì, nel punto esatto dove sono finiti i capelli e sentire il loro profumo e il calore liscio fra l’orecchio e la testa. Vorrei conoscere il nome di quello scudo osseo, liscio e perfetto dove se ne sta attaccato l’orecchio, e dire: fra l’orecchio e…, invece che avere detto fra l’orecchio e la testa. Forse voi potete aiutarmi…) scostano quei capelli, dicevo e sorridono. Di solito sorridono e se non sorridono e si mostrano preoccupate allora mi preoccupo per loro e l’impulso è quello di andare lì e tirare via il telefono e cancellare in qualche modo ogni fonte di preoccupazione e baciarle leggero sul collo. E su quello scudo d’osso di cui non so il nome. Questo vorrei fare. E vorrei camminare sull’acqua e andare dal mio pesciolino e dirgli quanto è bravo e quanto sono belle le sue spalle magre viste da lontano con l’acqua che ci luccica sopra, come su un vetro.
La cosa che apprezzo maggiormente in una donna è l’intelligenza. E l’ironia, che ne è una conseguenza. Ecco. Ed il mio è un caso fortunato, perchè dal posticino dove sono seduto, in cima alla gradinata, io non vedo che donne intelligenti e spiritose. Alcune sono anche belle, nel senso molto particolare che io do a questo aggettivo. Altre sono belle e basta, nel senso che tutti diamo a questa parola. La bellezza del primo tipo deve manifestarsi in tre momenti. Mentre sorridono, mentre sono assorte in chissà quali pensieri e mentre piangono. Se la bellezza regge a queste tre prove è fatta ed io sono perduto.
Si può dire che io sia sempre innamorato e che il mio amore sia come la nebbia che avvolge ogni cosa illudendosi che questo sia per sempre. Il fatto è che gli alberi e le strade e gli uomini, sanno che prima o poi la nebbia si dissolverà e torneranno di nuovo i contorni e le masse saranno di nuovo riconoscibili. Ma la nebbia continua imperterrita a tornare convinta d’essere lì da sempre e di non essere mai andata via. Eterna e folle.
Ce ne sono due, in particolare, di cui sono pazzamente innamorato e a cui non ho ancora rivolto parola. Ma ci siamo guardati. I loro occhi hanno accarezzato la mia scorza e credo che le cose siano state messe in chiaro: io le amo e loro possono contare su questo. Così stanno le cose. Quindi a che servono le parole? Le osservo agitare la mano per farsi notare dai figli a guazzo nelle vasche e quando i ragazzi finalmente le vedono e contraccambiano il saluto, loro agitano di più la mano. A volte fanno il gesto di alzarsi ed io guardo quei culi ben fatti. Ben fatti, non si sbaglia.
…Ho letto e metabolizzato anche Gadda, se è per questo. Un vero drago, cazzo. Lo dico proprio volentieri: un cazzo di drago, con la scrittura. Mamma mia. E non so cosa ci incastri lui con gli altri, con Miller e Buk e Celine, ma mi piace. Se è per questo mi piace anche Papini, ma qui si capisce di più. Volete una lista? Non ve ne frega niente? Ottimo. Mi piacciono certe poesie di Pasolini. Mi sa che lui osservava le cose con il mio stesso metodo. E le amava più o meno al mio stesso modo. Non fate i difficili! Di Pasolini mi piace anche qualche film. Quasi tutti, a parte l’ultimo, quello delle centoventi giornate. Troppo reale.
Una delle due è una mamma sui quaranta, mora, con gli occhi azzurri. Il naso è leggermente aquilino e i fianchi decisi. Vorrei mettesse la gonna. Vorrei vedere come sta con una gonna. Secondo me sarebbe uno schianto. Questo potrei anche dirglielo. Per il novanta per cento del tempo guarda la sua bambina che ha i capelli rossi, come il padre. E la stessa stazza, contenti loro. Riceve ogni volta almeno un paio di messaggi sul telefonino ( fanculo a questa parola) e una telefonata. Quando legge i messaggi è molto concentrata, ma non seria. Al telefono ride spesso. Sono quasi sicuro che ha un amante. I messaggi devono essere per forza dell’amante. Non riesco ad immaginare altro. Conosco ormai la sua espressione, il tempo che intercorre dal bip di avvertimento al momento in cui tira fuori il telefono dalla tasca posteriore dei jeans: non è immediato. Lascia sempre passare qualche secondo. Perchè sa chi glielo ha inviato e vuole concedersi il piacere di aspettare ancora un poco prima di leggerlo. È sicura di essere amata. Fareste così se ve lo mandasse una sorella o una zia? Tornando alle percentuali: rimane un dieci per cento di cui almeno l’otto lo dedica al telefono, perchè poi ai messaggi risponde (mentre li scrive le si piegano le labbra in un mezzo sorriso molto molto sensuale. Continuate a pensare che stia rispondendo alla zia?). Il restante uno, due per cento del suo tempo in piscina, ebbene, lo dedica a me, lanciandomi occhiate brevi e cordiali. Io contraccambio, cioè faccio come se la guardassi solo in quel momento. Invece sono un pazzo che con metodo osserva, dando ad ognuna il tempo che vale. A lei do la maggior parte e prima o poi le parlerò. Anzi, ora che ci penso ci ho già parlato. Non ricordo il motivo e nemmeno se è stata lei ad attaccare discorso. Di certo è stato breve e dopo mi sono sentito come se avessi dimenticato per tutto il tempo la patta dei pantaloni aperta. La seconda è più giovane. Fresca, veloce. Ha due bambini, due maschi, ma solo uno nuota. Il più piccolo resta sulla gradinata con lei. Nonostante passi buona parte del tempo dietro al bambino, lei è la più “sessuosa” di tutte, là dentro. E non è per il seno grosso e sodo o per le cosce lunghe. O per il culo che prorompe nell’emiciclo ogni volta che si china verso il figlioletto. No.
A volte, quando il bambino si mette tranquillo, lei tira fuori dalla borsa un libro e comincia a leggere. Allora i cappelli le ricadono sul volto in due ciocche carnose e io mi sento come un vecchio puttaniere che si è innamorato dell’immagine della Madonna. Immensamente sereno e felice. Tutto qui? Tutto qui.


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