I grandi Scrittori del Novecento
Mary Frances Kennedy Fisher
«Quando non posso lavorare… leggo, quando non posso leggere… cucino»
(Articolo di Massimo Barile Rivista Il Club degli autori 221-222-223-224-225-226 – Anno 22 – maggio 2013)
Da qualche anno si assiste ad una proliferazione di programmi televisivi dedicati alla cucina con la conseguente vendita di milioni di libri e ricettari vari. Tutti si riscoprono cuochi e grandi appassionati di cucina, in un susseguirsi continuo di invenzioni gastronomiche. Il fenomeno culinario esalta il pubblico e lo fa partecipe della preparazione della salsa più inutile, del piatto così strano che più strano non si può, dell’architettura più sofisticata costruita con il pan di spagna, le bucce di banana e le melanzane fritte; e, ancora, del disegno astratto più imprevedibile creato con lo zucchero caramellato e via dicendo con mille altre invenzioni.
Alcuni parlano di fenomenologia, altri di rintanamento nell’oasi di felicità offerta dalla gioia del cibo, altri ancora la classificano solo come una moda passeggera.
Eppure, a ben vedere, non è certo una novità. Più di settant’anni fa, Mary Frances Kennedy Fisher, scrisse dell’arte di mangiare, fu la pioniera del food writing e mirabile cronista delle soddisfazioni del cibo con autentiche ricette originali che integravano le sue esperienze esistenziali, i suoi stati d’animo, le suggestioni durante i numerosi viaggi, con utili consigli e suggerimenti, facendo riferimento ai locali visitati e alle gustose pietanze assaggiate in ristoranti ed osterie, riportando, poi, alcune ricette delle stesse.
Ciò che lascia stupefatti è che i suoi libri si leggono come dei romanzi: v’è la sua storia che si miscela con il piacere del cibo, v’è il desiderio di gustare la vita perché, per lei, il pranzo e la cena dovevano essere sensuali e avere la stessa importanza di altre esperienze dell’esistenza.
Mary Frances Kennedy Fisher ha inventato un genere letterario, la scrittura culinaria, ed è stata la più grande, unica ed inarrivabile. Anche se non è stata la prima memorialista culinaria.
Definita da John Updike «la nostra poetessa degli appetiti»: in effetti, lei scriveva di cibo con grazia poetica, la più semplice zuppa diventava poesia e la sua prosa era sempre accattivante e coinvolgente.
Tutto ciò potrebbe essere una certezza letteraria, ma fu proprio lei ad affermare, con tono deciso: «Io non mi considero una scrittrice di cibo». A tale proposito si deve, infatti, ricordare che ha scritto anche centinaia di storie per The New Yorker, un romanzo, alcuni saggi, numerosi diari di viaggio, un racconto per bambini e anche qualche sceneggiatura.
In un’intervista del 1990, aveva detto: «La mia materia ha indotto scrittori e critici ad ignorarmi per anni, molti anni. Era roba da donna». Nel suo libro The Gastronomical Me, già nel 1943, scriveva: «La gente mi chiede perché scrivere di cibo e mangiare e bere. Perché non scrivere sulla lotta per il potere o sull’amore come fanno gli altri. Lo chiedono in tono accusatorio, come se io fossi in qualche modo infedele all’onore del mio mestiere. La risposta più facile è dire che, come la maggior parte degli uomini, ho fame. Ma c’è di più. Mi sembra che i nostri tre bisogni fondamentali, per il cibo, la sicurezza e l’amore sono così mescolati e intrecciati che non possiamo pensare a uno di essi senza gli altri».
In una recensione relativa a Mary Frances, per The New Yorker Times Book Review, nel 1982, Raymond Sokolov ha scritto: «In una cultura gestita correttamente, Mary Frances Kennedy Fisher sarebbe stata riconosciuta come una delle grandi scrittrici che questo paese ha prodotto in questo secolo».
Riguardo questa superflua volontà di classificazione della sua opera, è interessante ricordare anche ciò che ha sottolineato Phillip Lopate: «Certo, il cibo era il suo argomento principale, e la sua intenzione era quella di utilizzare questa preoccupazione apparentemente banale come una metafora per l’analisi dell’appetito umano, la delusione e il rapimento». In sintesi, il potere di trasformare il cibo in un linguaggio metaforico.
In un’intervista, Mary Frances confessa: «Si deve vivere, lo sai. Non si può semplicemente morire dal dolore. Si potrebbe anche mangiare bene, avere un buon bicchiere di vino, un pomodoro buono».
Senza dubbio è stata una famosa scrittrice americana di food literature e alcuni suoi libri sono oggetti di culto: nella casa dove ha vissuto gli ultimi anni della sua vita si assisteva a continue visite dei suoi fedeli lettori. I suoi libri sono un’affascinante miscela di letteratura, ricette di cucina, amore per il cibo, viaggi e memorie di una donna strabiliante.
A dispetto di tutto ciò che è stato scritto riguardo la sua opera, lei riteneva che “mangiare bene” fosse stata solo una delle “arti della vita” ed ha cercato di esplorare se stessa con quest’arte.
I suoi libri sono stati autentici saggi sulla vita e sull’arte culinaria, costantemente sostenuti da una scrittura raffinata e da un personale stile letterario, capace di offrire profonde riflessioni esistenziali, mirabolanti ricordi e aneddoti di vario genere, sempre interessanti, intelligenti e divertenti.
La sua invenzione è stata un’accoppiata vincente: qualità letteraria accompagnata da un raffinato gusto gastronomico. La volontà di “parlare di cibo per parlare della vita” è stata vincente ma, al contempo, è stata una sorta di condanna che l’ha sfavorita ed inchiodata ad una presunta colpa incancellabile: “scrivere solo di cucina”. Questo atteggiamento critico nei suoi confronti, che diventava pregiudizio, la faceva divertire e sorrideva.
Con forte senso pratico, tipicamente femminile, rispondeva con un concetto molto più profondo e collegato alla stessa concezione della vita. È stato già ricordato ma è importante sottolinearlo perché ha rappresentato la colonna portante della sua visione: «Secondo me, i tre bisogni fondamentali dell’uomo – cibo, amore, sicurezza – sono così strettamente legati che è impossibile pensare a uno di essi senza pensare anche agli altri».
Tutti i suoi libri raccontavano della vita pulsante, seguendo i percorsi esistenziali, il senso del viaggio come scoperta, l’accendersi di amori e le contraddizioni dell’esistere, i numerosi incontri e le amicizie, le atmosfere, i colori e i sapori, le ricette sparse in qualche pagina, il profumo stesso della vita da “gustare”.
Era una donna d’una bellezza statuaria, con occhi penetranti, ammantata da eleganza innata: una donna che aveva fascino e stile.
Lei scriveva che si deve essere “belli” e sensuali anche in cucina: consigliava di appendere al muro uno specchio proprio come faceva lei nella sua cucina; poi, proponeva soluzioni per allontanare la malinconia come quella di tagliare, a forma di fiore, la buccia delle arance e metterle a seccare sul calorifero; e, ancora, che il nostro corpo è saggio perché “anche nell’angoscia della morte, del dolore e delle brutture, resta la fame, e insieme alla fame la vita, con tutta la sua pace. Come se i nostri corpi, più saggi di noi, ci incoraggiassero, contro di noi e quello che abbiamo imparato, e ci costringessero a rispondere, e a mangiare”.
La sua vita è stata travagliata, al di fuori delle regole, seguendo il cliché della donna complicata e indipendente, sempre accompagnata da una sorta di irrequietezza insita nel profondo del suo animo e del suo cuore.
Mary Frances Kennedy è nata il 3 luglio del 1908, ad Albion, nel Michigan. Èla maggiore di quattro figli: Anne è nata due anni dopo, poi Norah e David. Lei cresce in ambienti con fattorie circondate da orti e vigneti. Dopo che il padre ha venduto la sua quota del locale quotidiano Evening Recorder Albion, nel 1911, si trasferisce con la famiglia sulla costa occidentale e, dopo alcuni spostamenti, nel 1912, si trasferiscono a Whittier, in California, ed il padre Rex Breton Kennedy, diventa editore del Whittier News.
Fin da giovane ha due passioni: scrivere e cucinare. Scrive già alcuni divertissement abbastanza interessanti e si diverte a preparare pietanze che hanno sempre un quid di originalità.
Poi, Mary Frances incontra Alfred Young Fisher e si sposa nel 1929, a poco più di vent’anni. Lui vuole terminare gli studi di letteratura a Digione e lei lo segue. Passa qualche anno in Francia e la vita in quel nuovo mondo la affascina, fino ad affermare: «In quel Paese imparai a fare l’amore, a mangiare, a bere, e a essere me stessa e non quello che gli altri si aspettavano che io fossi». Nonostante tutto, per essere e sentirsi “una donna nutrita in tutti i suoi appetiti” desidera l’amore di un uomo che possa condividere con lei tutto questo fermento dell’anima. Purtroppo, Alfred non poteva offrirle ciò che lei desiderava e, in una sua lettera, spiega i motivi della separazione: «Alfred aveva paura dell’amore fisico… durante il nostro matrimonio era sessualmente impotente. Era un intellettuale solitario e mi sono allontanata emotivamente, sempre più, da lui. Contrariamente a ciò che credeva Alfred, non lo avevo lasciato per un altro uomo, lo avevo lasciato perché lui non poteva soddisfare i miei bisogni emotivi e fisici».
Nel 1932, torna in California e, poco tempo dopo, conosce Dillwyn Parrish: e sente di avere trovato l’uomo che le offre ciò di cui ha bisogno. Qualche anno dopo, divorzia dal primo marito e, nello stesso anno, sposa Dillwyn che l’aveva incoraggiata a pubblicare il suo primo libro, già nel 1937, dal titolo Serve it Forth, e continuerà a sostenerla anche nella scrittura del secondo famosissimo libro di Mary Frances, ed esattamente Consider the Oyster, che sarà pubblicato nel 1941 e dedicato proprio al suo amato Dillwyn.
Sarà un libro di culto che avrà come protagonista il prelibato mollusco, l’ostrica: la vita, la sopravvivenza, i suoi predatori, le curiosità storiche, le differenze tra le varie ostriche in base al luogo d’origine, i presunti poteri afrodisiaci, i consigli per raffinati fuori pasto a base di ostriche e champagne e la semplice ricetta delle ostriche al forno.
Si scopre che già l’uomo preistorico si nutriva di ostriche e che il famoso Cicerone ne mangiava molte, fermamente convinto che la loro ricchezza di fosforo fosse fondamentale per la sua arte oratoria. Racconta, con ironia, la storiella della morte di un uomo a causa di un’ostrica andata a male e ricorda l’aneddoto storico che si riferisce a Luigi XI, convinto che l’ostrica aiutasse ad accrescere l’intelligenza. Per questo motivo, una volta all’anno, offriva un banchetto ai professori della Sorbona, obbligandoli a mangiare quantità industriali di ostriche.
Tra le pagine del libro sono disseminate alcune ricette apprese durante i suoi viaggi e vecchie ricette di cucina casalinga nonché raffinate elaborazioni di ristoranti famosi che servono portate di ostriche. E, poi, vi troviamo considerazioni sui mangiatori di questa “vischiosa ed elegante” creatura: «Esistono tre categorie di mangiatori di ostriche: i tipi dalla mentalità aperta che le mangerebbero in tutti i modi, calde, fredde, vive, morte, in brodo o in zuppa, basta che siano ostriche; quelli che le mangiano solo e soltanto crude e quelli che, con lo stesso rigore, le gustano cotte e in nessun altro modo».
Non posso esimermi dal ricordare la divertente ricetta (raccontata a Mary Frances durante un pranzo) di uno chef russo che gestiva un locale nei pressi di Tolone, «frequentato da miliardari turchi ed egiziani che gli davano un preavviso di tre giorni e arrivavano con dodici Rolls-Royce. Provava nei confronti della gastronomia lo stesso sentimento che alcuni uomini provano di fronte alle donne belle e fatali»: questa è la sua ricetta delle “Ostriche à la Bazaine” (ripulita da aneddoti scabrosi e oscenità poliglotte).
«Tenete a portata di mano una scorta adeguata di besciamella, salsa Soubise e salsa velouté.
Preparate una roux con burro, farina di riso ed erba cipollina e mettete da parte.
Prendete qualche tartufo e tagliatelo a fettine sottili come una cartina da sigaretta, da cui ricaverete silhouette di delfini, granchi e altri mostri marini. Mettete da parte.
Cuocete in bianco delle trote di ruscello, preferibilmente vive, in un court-bouillon fatto con un buon champagne secco al posto del comune vino e acqua. Mettete da parte.
Fate una marinata usando dell’ottima acquavite al posto dell’aceto di vino e lasciatevi macerare per alcune ore, finché non presentano una vaga iridescenza, dei cubetti di prosciutto di Parma. Scolate e mettete da parte.
Preparate delle croutes facendo dorare fette spesse di buon pane bianco in grasso d’oca di Strasburgo. Non mettetele da parte.
Disponetele subito su piatti ben caldi. Ricoprite ogni fetta con uno strato di besciamella e uno di roux, poi adagiatevi con delicatezza una trota e nappate con la salsa Soubise. Cospargete qualche cubetto di prosciutto di Parma e coprite con un sottile strato di velouté. Infine decorate generosamente con le silhouette di tartufo, coprite con una campana di vetro e servite subito con un modesto ma garbato Sainte-Croix du Chàteau Pinardino 1908.
Oppure friggete le ostriche e servitele con birra».
La curiosità è: come preferiva mangiare le ostriche Mary Frances? «I molluschi freschi e sodi, passati rapidamente nel pangrattato, immersi per un istante in un buon grasso bollente e serviti immediatamente su un vassoio caldo con una semplice salsa tartara o qualche spicchio di limone, possono invece rappresentare uno dei piatti migliori che si possano gustare un po’ dappertutto, e il fatto che io ne sia ancora convinta nonostante i miei numerosi orribili incontri ravvicinati con ostriche fritte nei ristoranti è forse la dimostrazione che l’ottimismo è innato negli esseri umani».
Qualche tempo dopo, Mary Frances e Dillwyn si trasferiscono in una grande casa in Svizzera e la ristrutturano per renderla la “loro” casa: abbattono il muro della cucina per comunicare con il soggiorno in modo che “la musica e i profumi si muovano liberamente in tutta la casa”; e, poi, creano un grande giardino con un orto e la vigna.
Dopo il matrimonio, Mary Frances e Dillwyn, che lei chiama Timmy, nel gennaio del 1940, acquistano un terreno con una casa vicino a una pineta, in California. Purtroppo, lui ha già contratto la malattia di Buerger, che ha reso necessaria l’amputazione di una gamba, ma non si perde d’animo e torna a dipingere, creando una serie di opere per una mostra organizzata dall’Università della California.
Nel giro di pochi mesi la salute di Timmy peggiora sempre più e vive nel dolore continuo della malattia. Quando capisce che saranno inevitabili altre amputazioni, il giorno 6 agosto del 1941, si spara, proprio nella campagna vicino alla loro casa.
La scrittura diventa il rifugio di Mary Frances e finisce il libro che stava scrivendo per aiutare Timmy a non pensare alla malattia, e sarà la famosa Consider the Oyster.
Il suicidio di Timmy è un colpo doloroso e, poco dopo, muore anche David, il fratello di Mary Frances. Lei dirà: «La morte mi ha lasciata paralizzata. La morte di Timmy ha preceduto la morte di David da diversi mesi. Una parte di me non è sopravvissuta».
Ma lei non può “morire dal dolore” anche se, dopo la morte di Timmy, si considera un “fantasma”. Il coraggio di affrontare le perdite dolorose spingerà Mary Frances a scrivere numerosi libri: nel 1942, How to Cook a Wolf (scritto nel periodo della depressione, durante la seconda guerra mondiale, quando il popolo americano soffriva della scarsità dei generi alimentari primari); nel 1943, The Gastronomical Me, poi, nel 1949, traduce in inglese La fisiologia del gusto di Brillat-Savarin; e, ancora, nel 1954, il famoso The Art of Eating, per il quale riceverà un prestigioso premio molti anni dopo, al quale seguiranno molti altri libri.
Collabora con alcuni giornali e decide anche di andare a Hollywood, alla Paramount Studios, e durante il viaggio di lavoro, rimane incinta e nasce Anne, che sarà la figlia adottiva: non si saprà mai il nome del padre e Mary Frances non lo confesserà neanche negli ultimi giorni della sua vita. Lei indicherà un nome fittizio sul certificato di nascita.
La sorprendente vita di Mary Frances non si fermerà. Si trasferisce a New York con la figlia. Inizia una relazione sentimentale con il suo editore, Donald Friede, e, dopo due settimane, si sposa con Donald. Un anno dopo, nascerà Mary Kennedy Friede. Purtroppo la vita con Donald si sviluppa in modo diverso dalle aspettative: difficoltà economiche del marito e vari consulti psichiatrici perché lui soffre di crisi di nervi. Inutile dire che, circa sei anni dopo il matrimonio, nel 1950, divorzierà. Disarmanti le parole di Mary Frances riguardo quel matrimonio lampo: «Ero la sua quinta moglie, fu un matrimonio corto e sciocco, ma allegro».
Dopo questa esperienza cercherà di dedicarsi alle due figlie e si sposterà in continuazione tra il sud della Francia e la California dove ha costruito una casa in un ranch nella famosa Napa Valley, grazie all’aiuto dell’amico David Pleydell-Bouverie.
Non rinuncerà mai a scrivere e scriverà ancora molto. Nell’ultima stagione della sua vita sarà sempre acuta osservatrice della vita e vivrà la vecchiaia come una nuova impresa da affrontare, scrivendo, nel 1984, un libro dal titolo emblematico Sister Age, e affermando: «Penso che si debba darle il benvenuto. E io le do il benvenuto come a una sorella».
Negli ultimi anni della sua vita vivrà nella famosa “Lost House”, l’ultima casa, nel ranch di Pleydell- Bouverie, a Glen Ellen in California.
Clifton Fadiman ha affermato, in una introduzione ad un libro di Mary Frances Kennedy Fisher, che lei ha scritto “di cibo, come gli altri scrivono d’amore, solo che lei l’ha fatto meglio”. Tutto ciò che ha scritto, nella sua visione, era ammantato da un alone sensuale e le sue narrazioni esistenziali, oltre alle sue dissertazioni sul cibo, si sono sempre miscelate in una sostanza vitale: le ricette di cucina, gli aneddoti, i viaggi, le suggestioni e le emozioni, incluse le riflessioni sulla sua vita e sul senso dell’umano vivere, sono stati gli ingredienti naturali per mettere se stessa, con la propria tumultuosa vita, all’interno della sua opera, che si è tramutata in una “portata” che offriva al lettore, come a “cucinare” letterariamente anche la sua esistenza.
La raffinata e serena bellezza della sua scrittura si contrappone alla sua vita travagliata e vulcanica come a vivere in una continua deflagrazione del proprio essere e del significato del vivere. Il suo viaggio lo dimostra in modo preciso: una donna che è stata sposata tre volte, che ha sofferto per il suicidio del secondo marito dopo una dolorosa malattia; una donna che ha divorziato due volte ed ha avuto una figlia da un uomo la cui identità è rimasta sconosciuta. Si è trovata, poi, a fare i conti con una serie di tormentate relazioni sentimentali ed ha vissuto momenti di sofferenza e turbamento. Ha sofferto di depressone e i suoi medicamenti, in alcuni periodi della sua vita, sono stati l’alcol ed il cibo.
Eppure, nonostante questo marasma esistenziale-sentimentale, lei è riuscita a scrivere numerosi libri con una prosa frizzante ed accattivante, giudicata in modo positivo da molti scrittori che hanno espresso, in varie occasioni, sincera stima nei suoi confronti.
Il piacere del cibo si univa ai piaceri della vita. Era un bisogno vitale che nasceva dentro di lei, la volontà di andare controcorrente, di essere e sentirsi libera, straordinariamente indipendente: vi sono molti frammenti memoriali che ha scritto sulla sua famiglia, sugli amici e, soprattutto, su se stessa ma, sovente, sono mezze verità, un po’ romanzate e infiorettate, quasi hollywoodiane. E noi sappiamo che lo scrittore è un fingitore, come asseriva Pessoa.
Lei raccontava le sue storie molto bene, era brava a ricordare “con nostalgia”: era così brava a ricamare la sua vita che, alla fine, non si riusciva più a capire dove finiva la realtà e quando iniziava la fantasia virtuosa.
Non a caso, nel 1943, era andata a Hollywood per cercare fortuna come sceneggiatrice. A questo proposito è divertente ricordare l’aneddoto che si riferisce al comportamento di un produttore che le chiese una gag in tre minuti. Lei tornò nel suo ufficio, la dettò alla segretaria e gliela fece portare. Quando il produttore la lesse, sbottò, arrabbiato: «Non è possibile. L’ha copiata, nessuno può scrivere una cosa simile in così poco tempo». Logicamente la rifiutò.
Non è difficile credere a questo aneddoto anche perché il suo umorismo e la sua scrittura erano troppo raffinati per funzionare nell’ambiente cinematografico anche se, comunque, scrisse alcune battute per Bing Crosby e fu amica dei fratelli Marx.
Mary Frances era troppo brava e intelligente, quindi, infastidiva. Non rileggeva quasi mai ciò che scriveva. Tutto nasceva nella sua mente già in forma compiuta e doveva solo mettere su carta le sue idee, e lo faceva con estrema facilità.
Il tentativo di diventare sceneggiatrice fallì, anzi, fu lei ad andarsene, ma, durante quel soggiorno, rimase incinta e nacque Anne, come già ricordato. Lei non volle mai dire il nome del padre neanche agli amici più intimi e, per tutti, rimase ufficialmente una figlia adottiva. In una delle sue lettere, Mary Frances confesserà che “il giorno in cui ha scoperto che stava per avere Anne, è stato uno dei giorni più felici della sua vita”: «Questa bambina è la cosa giusta, in ogni senso. Ora la mia vita sembra piena e calda e ricca di nuovo. Sono stata fuori al freddo per tanto tempo…».
Mary Frances si trasferì nella famosa “ultima casa” a Glen Ellen, in California, quando aveva già sessantadue anni. Trascorrerà gli ultimi vent’anni della sua vita proprio in quella casa costruita apposta per lei, in un vigneto. Una casa riparata da un boschetto di alberi di alloro e querce con intorno vasti prati con fiori gialli e viola e, in una foto, si vede lei affacciata al balcone di quella casa, con un sorriso che vale più di mille parole.
Lei aveva capito le sottigliezze culinarie della seduzione e le aveva spiegate nei suoi saggi, meditando sui piaceri sensoriali della vita come quando raccontava che i suoi ospiti rimanevano affascinati, appunto, da questi “piaceri sensoriali”: «L’aria è molto dolce… quando le persone camminano verso le loro auto, schiacciano con i loro piedi le gemme di eucalipto che cadono, e sembrano quasi stordite per qualche minuto. Ho messo alcuni germogli nelle loro mani».
L’amico David Pleydell-Bouverie l’aveva aiutata a costruire quella casa su misura per lei. La sua casa aveva pareti di colore rosso cinese che facevano da sfondo alle numerose opere d’arte. Il bagno aveva le stesse dimensioni di una seconda camera da letto, una piacevole sontuosa sala da bagno per “personalità eccentrica”. Invece, la cucina era una semplice cambusa con una bella finestra sul lavello e la camera da letto aveva un balcone con vista sul campanile. Le librerie erano in tutta la casa, oltre ad armadi cinesi in lacca rossa e un grande stipo che fungeva da credenza per i vini pregiati. Mary Frances si incontrava con alcuni selezionati e fidati amici, compagni di raffinate cene ma anche di veloci e rustici fuori pasto. Negli ultimi tempi, era abituata a guardare i film con il signor Martin, ed aveva chiamato quel rituale “il loro Shut Up and Eat Your Club Popcorn”.
Il giorno del suo ottantesimo compleanno, Mary Frances, nonostante la malattia e la ridotta mobilità, aveva ancora lo stesso slancio vitale di quando era bambina e si era divertita a spostare alcuni oggetti in giro per la casa. Quando era ragazza amava risistemare quasi tutto in casa, era sempre intenta a spostare mobili e cose. Era una necessità non solo fisica ma anche mentale e lei, già nel 1933, aveva confessato: «Sposto tutto in una stanza, come alcuni tolgono i vestiti da un corpo desiderabile, senza muovere più i bulbi oculari».
Come a ricordare una semplice ricetta per la felicità, Mary Frances recupera un frammento memoriale, un momento della sua infanzia quando, in California, in compagnia della famiglia, davanti ad un bella cena viene evocata la soddisfazione profonda che il cibo riesce ad offrire a Mary Frances: «Quella notte non solo ho visto mio padre come persona, per la prima volta. Ho visto le colline d’oro e le querce in un modo così chiaro come non li ho mai più visti, e ho visto le fossette nelle mani di mia sorellina in un modo che ancora mi commuove, e ho visto il cibo come qualcosa di bellissimo da condividere con le persone piuttosto che come una necessità tre volte al giorno… Ora le colline sono tagliate di traverso da super autostrade… e noi abbiamo venticinque anni di più. E ancora la calda torta rotonda di pesche e la panna fresca che abbiamo mangiato insieme quella notte d’agosto vivono nei palati dei nostri cuori».
Mary Frances muore il 22 giugno del 1992, all’età di ottantatré anni, dopo aver lottato contro l’artrite e, poi, il morbo di Parkinson. Nella sua casa in mezzo ai vigneti, dove offriva mandorle tostate, vini pregiati e amava cucinare cozze fumanti e fritture, sempre ricordando agli amici: «Ho deciso all’età di nove anni che uno dei modi migliori per crescere è quello di mangiare e parlare tranquillamente con buone persone».
Il suo drink preferito? Cocktail rosato di gin, vermouth e Campari.
Prosit.
Massimo Barile