Quando nevica scarlatto – I due angeli dalle ali d’ebano

di

Martina Villa


Martina Villa - Quando nevica scarlatto – I due angeli dalle ali d’ebano
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 236 - Euro 14,30
ISBN 978-88-6587-223-9

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In copertina: illustrazione di Martina Villa


“Quando nevica scarlatto” è un libro che parla delle avventure di Crimson, un diciassettenne che dopo essere morto si ritrova in una stanza completamente bianca, viene mutato in un angelo maledetto, un angelo con le ali nere e si dimentica la sua identità. In seguito a questo episodio il Consiglio degli Arcangeli, l’organo più importante “dell’altro mondo”, decide di rispedirlo sulla terra con il compito di scoprire chi era per poter stabilire se farlo entrare in paradiso o spedirlo dritto all’inferno, a patto che lui non riveli agli esseri umani quanto gli è accaduto, ma i problemi per Crimson non finiscono certo qui; anzi questo è solo l’inizio (a voi scoprire chi siano il Principe, Isobel, Josh e Seth).
A tutto questo si intrecciano una serie di vicissitudini legate alla scuola, alle amicizie, alla famiglia ed alla morte, collegate all’interno del libro grazie ad una trama articolata e ricca di colpi di scena che di certo non vi deluderà.
Questo libro, in realtà, nasconde un invito alla “guerra contro la discriminazione”, infatti il protagonista, unico angelo con le ali nere del Paradiso, non viene proprio accolto a braccia aperte dagli altri suoi simili, anzi, tutti diffidano di lui e tentano di evitarlo, tutti lo additano come se fosse un “fenomeno da baraccone” anche se l’unica cosa a differenziarlo dagli altri angeli è un puro fattore estetico: il colore delle sue ali.


Quando nevica scarlatto – I due angeli dalle ali d’ebano


Ai miei genitori e a tutti i miei
parenti, che mi hanno
sostenuta durante questo
progetto. In particolare
dedico questo libro a mia
nonna Lidia, la mia prima,
primissima fan.

Martina Villa


“Con una gioia quasi crudele
e forse in ogni gioia come
in ogni piacere, la crudeltà
ha la sua parte”

(O. Wilde)


Capitolo 1

Chi sei?

La pioggia scendeva lenta ed io ero in uno stato di dormiveglia, in balia del suo canto. Il motore canticchiava anch’esso e mio padre faceva tamburellare le dita sul volante mentre percorrevamo la strada per casa; eravamo appena stati al mare ed io mi ero divertito tantissimo, spero di tutto cuore che torneremo presto in quel posto da favola.
Sul sedile dinnanzi al mio c’era mia madre; sentivo il suo respiro, calmo e regolare. Doveva essersi addormentata da poco.
Io, invece, stavo con la guancia appiccicata al finestrino e le braccia conserte, tentando invano di prendere sonno, ma senza successo; le frequenti gallerie mi irroravano luce, impedendomi di dormire. Una, due, tre… dieci… quindici…
Luce ed ombra si davano il cambio come in una staffetta, mi rassegnai all’idea di schiacciare un pisolino, così rimasi semplicemente con gli occhi chiusi ad ascoltare il canto della pioggia. Plic, plic. Luce, eccoci in una nuova galleria, piena di luci ma priva di suoni. Poi di nuovo il buio. Plic, plic, e il canto della pioggia riprende per poi interrompersi nuovamente con l’arrivo della luce. Da quel momento i miei ricordi sono diventati confusi: ho sentito una brusca frenata, ho aperto gli occhi e dopo il buio ha inghiottito il mondo.

Dopo non so quanto tempo mi risvegliai in un luogo a me sconosciuto, mi sentivo tremendamente pesante, come fossi fatto di piombo. Riaprii gli occhi, ma avevo la vista offuscata e distinguevo a malapena i contorni delle cose; provai a respirare e sentii una fitta lancinante al petto che si propagò per tutto il corpo. Un dolore fortissimo si impossessò di me.
Iniziava a tornarmi la vista, scrutai l’ambiente intorno a me; vidi dei letti al mio fianco, una finestra con le tende beige e due comò con sopra una bottiglia d’acqua a testa; poi guardai me stesso, non l’avessi mai fatto: ero sdraiato su un letto, intubato da capo a piedi ed ero collegato ad una macchina infernale che mi stava facendo scoppiare la testa a causa dei suoi continui “bip”. Non potevo non respirare, ma farlo era doloroso. Respirai nuovamente e questa volta il dolore fu più intenso. Chiusi gli occhi come se volessi isolarmi dal mondo, fuggire da quel posto a me ignoto, tornare alla mia vita di sempre…
Cosa mi era successo? Dov’erano mio padre e mia madre? Stavano bene?
Quegli insopportabili “bip” si erano annidati nella mia testa come tante api che ronzano su un fiore particolarmente appetitoso, notai che i “bip” si erano fatti più frequenti e che, ogni volta che respiravo, il dolore al petto si incrementava a dismisura. Respirai di nuovo e cercai di sopportare quel male che si stava diffondendo dentro di me; rimasi per un po’ ancora con gli occhi chiusi, poi mi feci coraggio e decisi di riaprirli per capire meglio la situazione nella quale ero finito.
Inizialmente vidi ancora quella stanza dalle pareti bianche e dalla finestra con le tende beige, poi tutto divenne sfocato. Mi girava la testa. Mi sentivo mancare. Aprii la bocca come per chiedere aiuto, ma non ne uscì alcun suono. Non riuscivo più a respirare; avevo sete d’aria, ma i miei polmoni si rifiutavano di accoglierla, proprio come se fosse un ospite indesiderato.
Il tempo si fermò in quell’istante, sentii delle persone che accorrevano, forse in mio aiuto, e in ultimo quel “bip” che era diventato un unico suono, lungo e acuto.
Da quel momento non sentii più nulla, nemmeno il dolore.

Mi svegliai di soprassalto, come se mi fossi appena lasciato alle spalle un incubo, purtroppo però qui era tutto reale. Mi alzai da terra e rimasi stupito da quello che vidi: ero nel nulla più assoluto.
Nello spazio che mi circondava regnava un solo colore, il bianco.
Lì non c’era praticamente niente, era come trovarsi in una stanza del tutto vuota e senza porte, con pareti, soffitto e pavimento completamente bianchi, ma tutto ciò era diverso da una stanza, era come trovarsi nello spazio, ai confini dell’universo, solo che lì era tutto bianco, senza stelle e pianeti che tenessero un po’ di compagnia.
Ero solo e immerso nel niente più assoluto dalle punte dei piedi fino ai capelli, cos’avrei fatto lì? Ma soprattutto, come ci ero arrivato, io, nel nulla??
Mi sedetti sull’ipotetico pavimento della stanza, incrociai le braccia, come ero solito fare ogni volta che mi sedevo, e rimasi a contemplare quello strano paesaggio alla ricerca di qualsiasi cosa che non fosse bianca, altrimenti sarei impazzito all’idea di vivere immerso in un bicchiere di latte per l’eternità; neanche mi piace il latte.
Qualcosa cadde vicino al mio piede destro, mi inginocchiai per vedere meglio di cosa si trattasse.
Una macchiolina rossa.
Mi strofinai gli occhi per vedere meglio, avevo paura di essere diventato daltonico a furia di vedere sempre e solo lo stesso monotono colore; no, no, era proprio una macchiolina color rosso ciliegia; e qui attorno iniziarono a pioverne altre. Non proprio che piovessero, scendevano in un modo più grazioso, delicato, armonioso. Mi danzavano tutt’attorno, non riuscii a resistere e decisi di toccare uno di quei batuffoli cremisi che piovevano dal nulla.
Erano freddi.
Capii allora che si trattava di neve. Era tutto così strano, come faceva a nevicare rosso? Beh, di cose strane negli ultimi dieci minuti me ne erano capitate parecchie, quindi era anche plausibile che nevicasse rosso.
Rimasi lì, per terra, per un po’ a guardare la neve che scendeva piano, anche quando ero piccolo, d’inverno, mi piaceva rimanere affacciato alla finestra a osservare la neve, non so perché, ma mi dava speranza, mi faceva star bene e mi rendeva felice. Mi bastava solo guardarla per essere in pace con me stesso e con gli altri.
La guardai ancora, per un tempo infinito. Minuti? Ore? Giorni? Non lo so dire, ero così preso da quello spettacolo che non me ne resi neanche conto.
Ora tutto attorno a me era di una tonalità rosso scarlatto; bello, ma anche triste, il rosso è il colore del sangue e della morte, ma il suo bel manto appariscente mi rapisce, mi ipnotizza e mi rende suo schiavo.
Mi toccai i capelli e li sentii umidi, poi mi guardai le mani: erano coperte di rosso.
Le pulii alla bell’e meglio, cercai un fazzoletto nelle mie tasche e iniziai a pulirmi prima i capelli, poi la faccia, le mani, le braccia. Più o meno poteva andare, almeno ora aveva smesso di nevicare, così non mi sarei sporcato ulteriormente.
In quell’universo bianco mi ero creato il mio spazio, avevo “colorato” il mio tratto di territorio, così che quel pezzetto di stanza fosse solo mio, anche se tutto lì avrebbe potuto appartenermi visto che ero l’unico abitante di quel luogo tanto bizzarro.
Alzai la testa e vidi materializzarsi qualche metro più in là, una porticina, fatta di un bel legno di mogano, con dei motivi dorati sugli stipiti, mi parve di capire che si trattava di un’edera che si inerpicava ai lati della porta. Una volta apparsa l’intera entrata, pian piano, essa si aprì ed io sentii un tuffo al cuore: allora significava che non ero solo?
Da dietro la porta comparve un ometto di mezza età e di bassa statura, aveva gli occhi piccoli e neri che emanavano una strana luce e dei capelli corti del medesimo colore. Era leggermente tarchiato e indossava dei piccoli occhiali a mezzaluna sulla punta del naso, era vestito di bianco con giacca e cravatta che facevano risaltare ancora di più i suoi occhietti vispi. Era molto elegante e quando lo vidi mi vergognai da morire perché lui se ne stava lì imperterrito a squadrarmi da capo a piedi ed io ero come incollato per terra con gli occhi fissi su di lui, inginocchiato in mezzo a quel lago scarlatto.
Dopo parecchi minuti di assoluto silenzio l’uomo disse: «Ohi, ohi, mi sa che sono arrivato tardi» e si batté il palmo della mano sulla fronte, subito dopo rivolto a me, aggiunse: «Chi sei?».


Capitolo 2

Ali

Meditai per qualche attimo su quella banale domanda e constatai che non ne conoscevo la risposta.
Mi presi la testa tra le mani, come se la risposta volesse fuggire ed io dovessi trattenerla per far sì che non scappasse da me, ma era troppo tardi; quella risposta se ne era già andata, peccato che non sapessi per dove. Rassegnato mi alzai e mi rivolsi al mio interlocutore: «Mi spiace non me lo ricordo…» ammisi.
Lui mi guardò con dolcezza e disse: «Lo immaginavo».
Dopo quest’affermazione guardai quell’ometto con aria interrogativa come a dire: «Ma cosa stai dicendo?» e lui rise alla mia espressione turbata, la sua non era una risata di scherno, ma di compassione.
«Hai assistito alla nevicata scarlatta, vero?» mi chiese.
«Sì» risposi, con il tono di un bambino che era appena stato sorpreso dalla mamma a rubare le caramelle dalla credenza. Non avevo idea di cosa comportasse assistere a quella nevicata, l’unica cosa di cui ero certo, era che ero stato beccato in pieno mentre giacevo in quella pozza rosso cremisi.
«Tranquillo, non è grave, hai solo dimenticato chi sei» disse l’ometto come se mi avesse letto nel pensiero. “La fa facile, tanto non è mica lui quello che non si ricorda più un tubo!”
Rise.
«Controlla i tuoi pensieri» mi suggerì e aggiunse: «io posso sentirli, non ti do torto per ciò che hai appena pensato, dopotutto era la verità…».
Arrossii. Non pensavo che esistessero persone in grado di leggere nel pensiero, ma a quanto pare mi sbagliavo.
«Che posto è questo? Dove sono?» domandai.
«Sei morto» rispose disinvoltamente quell’uomo.
Mi sentii raggelare. Morto? Io? Avevo solo diciassette anni, come avevo fatto a crepare?!
«E questo è il purgatorio?» chiesi nuovamente con una nota di rammarico.
«No, qui giungono coloro la cui anima non è stata presa da Daniel» rispose.
«Daniel?».
«L’angelo della morte, Daniel è il suo nome.» mi disse «Ci sono tante persone che muoiono nel mondo ogni minuto e lui non può certo occuparsi di tutti, così ogni tanto gliene scappa qualcuno…».
Rimasi lì a sentirlo finché non mi invitò a seguirlo oltre la porticina in mogano dove trovai ad accogliermi una stanza molto simile alla reception di un albergo, con tanto di bancone, campanello, registro e chiavi, tante, tantissime chiavi appese un po’ per tutta la stanza; erano appese ad un piccolo gancio d’ottone sopra il quale stava una cifra che serviva ad ordinare quell’infinità di chiavi, tutte dannatamente uguali. Alcune mancavano come la numero 34 o la 198; mi chiesi dove fossero finite.
«Non sono mai esistite» disse l’uomo e subito dopo sorrise.
Già, mi ero appena dimenticato che dovevo stare attento a quello che pensavo quando lui era nei paraggi. Tutto a un tratto si fece serio ed aggiunse: «Una sola di queste chiavi apre il cancello del paradiso, tutte queste chiavi servono a confondere i demoni che sovente vengono qui per distruggerci. Quelle mancanti servono solamente a fuorviarli, infatti è più probabile che una delle chiavi che non sono appese qui apra il Cancello Dorato ed è anche quello che pensano i demoni, ma l’unico mezzo utile per aprire quel cancello si trova in questa stanza».
Un doppio trabocchetto, geniale!
«Visto che tu non ricordi nemmeno il tuo nome non ho idea se tu sia destinato al paradiso oppure all’inferno» disse mentre sfogliava il registro che si trovava sul bancone: c’era un lungo elenco di nomi sulla prima pagina e presumo anche su quelle successive, seguiti da un “sì” o da un “no”; credo che “sì” stia per “può andare in paradiso” e “no”, “non può andare in paradiso”.
Chiuse il registro e disse: «Allora ti sottoporrò ad un piccolo test, caro il mio…, ehm… decidi tu come ti devo chiamare».
Dovevo scegliermi un nome, ce ne erano tanti che mi piacevano: William, Philip, Alain, Edwin… ma non potevo di certo avere tre o quattro nomi. Osservai i miei vestiti macchiati e ripensai a quella neve, la prima cosa che mi aveva accolto quando ero arrivato qui. Quella neve rossa, scarlatta, cremisi…
«Crimson» dissi alla fine «chiamami così».
«Crimson» ripeté lui.
«Va bene» aggiunse, e subito dopo mi illustrò il suo indovinello dopo essersi schiarito la voce con due colpi di tosse: «Dunque, un uomo ha appena derubato una banca e sta fuggendo, un poliziotto lo rincorre e dopo un po’ lo raggiunge e gli spara, uccidendolo. Chi dei due ha ragione?».
Ci pensai su un attimo e alla fine conclusi che entrambi avevano sia ragione che torto.
«Perché?» domandò l’uomo.
«Perché il ladro ha sbagliato a rubare, ma forse ha ragione perché deve sfamare la sua famiglia e il poliziotto ha torto perché ha ucciso il ladro, e uccidere è sempre sbagliato, ma ha anche ragione perché non sapeva se il ladro fosse armato o meno e ha avuto paura per la sua incolumità».
L’ometto sorrise compiaciuto: «Bravo, è esatto. Non esistono ragione e torto, sono bensì due facce della stessa medaglia».
Sorrisi anche io, soddisfatto della mia intuizione e chiesi se ora avessi accesso al paradiso e l’uomo fece un gesto di consenso: «Sono io che possiedo la chiave del paradiso, solo io posso farti entrare» disse rivolgendomi un sorriso smagliante e, allora, finalmente capii qual era il suo nome.
«San Pietro!» esclamai.
«Chiamami Pietro…» si affrettò a dire come se quel “San” lo facesse apparire troppo importante, anche se infatti era così. Lui era una delle persone (o angeli?) più significative dell’altro mondo!
«Dunque, la numero 33…» disse tra sé e sé, poi si rivolse a me e mi chiese se potevo aiutarlo a trovare la chiave numero 33.
«Gli anni di Cristo non è un po’ banale come numero?» chiesi.
«No, tutt’altro. Più una cosa è banale meno è considerata. Ti spiego: se tu dovessi cercare un tesoro d’inestimabile valore lo cercheresti in un luogo sperduto e non nel giardino di casa tua. Anche questo fa parte del trabocchetto; sai, le chiavi più gettonate sono la numero 12, come gli apostoli, la 4, come gli evangelisti e la 666 che è la meno probabile di tutti, quindi anche la più considerata…».
«Capisco, le opzioni più semplici e superficiali sono le prime ad essere scartate» conclusi.
Pietro mi fece segno di sì con la testa e si rimise alla ricerca della chiave, fu in quell’istante che la vidi, visto che non erano numerate con un ordine preciso, la numero 33 era abbastanza in alto, ed io essendo di statura maggiore rispetto a Pietro salii su una seggiola situata dietro il bancone e la presi.
«Eccola» annunciai trionfante mostrandogli la chiave.
Mi sorrise, la prese e si avviò nei pressi di un’altra porta facendomi segno di seguirlo. E così feci.
La porta si aprì e davanti a noi si stagliò un immenso cancello dalle inferiate d’oro purissimo. Era veramente enorme, la cosa più grossa che abbia mai visto, al suo confronto, io, sembravo un granello di polvere. Rimasi lì per un po’ a bocca aperta a contemplare tale bellezza, solo dopo mi accorsi che accanto al cancello c’erano due porte: una in mogano uguale a quella che portava alla stanza delle chiavi, l’altra era in ferro e massiccia, doveva essere molto pesante e ricordava molto una porta blindata che solitamente si mette dinnanzi ad una cassaforte. Chissà a dove conducevano quelle porte?
Quella in mogano si aprì e vidi comparire due figure, uno era un vecchio con i capelli del tutto bianchi, il naso adunco ed una moltitudine di rughe che gli intaccavano il viso conferendogli un’aria da saggio, l’altro era un ragazzo più o meno della mia età con dei capelli neri e lisci che gli arrivavano fin sotto le orecchie, aveva gli occhi grandi e neri anch’essi che gli davano un aspetto sveglio e vispo. Era vestito completamente di nero: indossava una canotta nera senza maniche e dei pantaloni larghi, sempre neri; l’unica cosa che creava contrasto nella sua figura erano due grandi ali piumate del tutto bianche, ma non bianche come un foglio di carta, più bianche, di un bianco quasi brillante. Se ne stava sottobraccio con quell’anziano signore.
«Ciao» ci salutò e subito Pietro rispose: «Ciao Daniel!».
Daniel!? Quel Daniel? Daniel l’angelo della morte era lui? Me l’ero immaginato del tutto diverso: molto più magro, quasi scheletrico, con degli occhietti piccoli piccoli e più, anzi mooolto più vecchio, almeno con un po’ di barba e magari con in mano una falce a mezzaluna…
«Che faticaccia il mio lavoro, non mi fermo mai nemmeno un secondo, c’è sempre qualcuno che crepa di qua o di là». Notai che mentre parlava gesticolava e lo trovai buffo per essere l’angelo della morte. «Vorrei proprio prendermi una vacanza…» sospirò il povero Daniel. Poi riprese a parlare di quanto fosse stressato e di quanto volesse farsi una bella dormita ogni tanto, non si accorse di me finché Pietro lo interruppe dicendogli: «Daniel, lui è Crimson. Penso che ti sia scappato…». Lo disse con ironia e quando pronunciò la parola “scappato” si girò verso di me e mi fece l’occhiolino.
«Oh, Crimson hai detto?» disse rivolgendomi un largo sorriso «Aspetta che controllo sulla mia agenda» ed estrasse da una tasca una piccola agendina nera, che, scoprirò poi, serve a capire coloro che sono morti o che stanno per morire.
«No, aspetta. Lì dentro non troverai il suo nome» disse Pietro «Crimson è un nome che si è scelto da solo. Vedi lui ha assistito alla nevicata scarlatta e non si ricorda più chi è».
«Cosa? Ha assistito alla nevicata scarlatta!?». Daniel mi parve preoccupato ed io ci capivo sempre meno. Assistere a quella nevicata, allora, non comportava solo dimenticarsi la propria identità.
Poi, Daniel, continuò dicendo: «Lo sai bene che non avresti dovuto farlo entrare!».
Sembrava irritato e spaventato allo stesso tempo.
«Suvvia, Daniel…» disse Pietro «Ha superato il mio quiz, non possiamo sapere con certezza se sia quella entità o no».
Entità? Quale entità?
Daniel si zittì di colpo e mi porse le sue scuse dicendo: «Mi spiace, Crimson, non avrei dovuto giudicarti. Spero che potremo essere amici».
Mi porse la mano ed io la strinsi: «Sì» dissi infine.
«Quando comunicherai al Consiglio degli Arcangeli che lui ha assistito alla nevicata scarlatta?» domandò Daniel a Pietro. «Solo per precauzione, nient’altro» aggiunse subito.
«Una volta che gli saranno spuntate le ali, così vedremo se i tuoi sospetti saranno confermati o smentiti» rispose Pietro.
Quel fatto delle ali mi incuriosì molto, così mi decisi a porre una domanda ai miei due interlocutori: «Tra quanto tempo mi spunteranno le ali?».
Pietro mi spiegò che dipendeva da individuo a individuo, a lui erano spuntate dopo mezz’ora che era arrivato qui, mentre a Daniel ci erano volute cinque ore. D’improvviso il vecchio che seguiva Daniel parlò: «Allora? Dovete tirarla per le lunghe?».
«Oh, scusami tanto John» disse Daniel con una faccia stupita, come se si fosse dimenticato che quell’anziano signore dai capelli folti e bianchi fosse lì con lui.
Daniel chiese a Pietro di dargli il suo registro e quest’ultimo glielo porse con un sorriso, l’angelo della morte lo consultò velocemente e alla fine annunciò: «Mio caro John, benvenuto in paradiso!».
Il vecchio non riuscì a trattenere le lacrime e rise, rise di felicità, sul suo viso intaccato da una ragnatela di rughe si tinse uno splendido sorriso.
Ero felice per lui, gli sorrisi ed egli ricambiò.
Pietro estrasse la trentatreesima chiave, la inserì nella piccola serratura ed il grande cancello si aprì con un sonoro “clang”.
«Stammi bene!» urlò Daniel a John, mentre quest’ultimo si allontanava tra le nuvole del paradiso.
Guardai oltre il cancello e vidi nuvole su nuvole, in ogni dove. Per il resto era tutto uguale al mondo terreno, c’erano alberi che crescevano con le radici piantate nelle nuvole, c’erano case le cui fondamenta giacevano nelle nuvole, c’erano fiumi che scorrevano in un letto fatto di nuvole e i fiori non spuntavano dalla terra, ma dalle nuvole.
Il cancello si richiuse ed io (anche se non sapevo il perché) non potevo ancora avere accesso al paradiso fino a che non mi sarebbero spuntate le ali.
All’improvviso Daniel mi appoggiò una mano sulla spalla e mi disse: «Vuoi vedere una cosa?».
«Che cosa?» chiesi, incuriosito.
Con l’indice indicò la porta blindata e mi rivolse un sorriso da furbetto; guardai la porta, poi lui, poi di nuovo la porta.
«A dove conduce?».
«Al mondo degli inferi, qualche volta ci devo portare giù qualcuno. È un brutto posto. Ti va di darci un’occhiata?».
«Ma se hai appena detto che è un postaccio». Ero molto confuso.
«Solo per curiosità, tutto qui. E dai che muori dalla voglia di darci una sbirciatina!» disse facendomi l’occhiolino, poi senza nemmeno attendere la mia risposta si rivolse a Pietro: «Mi daresti una mano ad aprirla?». Ed indicò nuovamente la famigerata porta.
Pietro si avvicinò ed iniziò a maneggiare con le innumerevoli serrature presenti su quell’uscio e alla fine la porta si socchiuse.
«Prego, guarda pure» mi intimò Daniel con un sorrisone a trentadue denti. Mi appoggiai ad uno stipite e guardai dentro. Buio. Nero. Non vidi altro. Che mi avessero preso in giro?
«Non vedo nulla» confessai.
«Infatti non è la vista che devi usare, ma l’udito» mi consigliò Pietro.
Mi concentrai e rimasi in ascolto.
Lamenti.
Orride voci giungevano da laggiù. Suppliche, imprecazioni, bestemmie, pianti, voci nere, tutto si fondeva in un lungo e continuo lamento d’agonia.
Mi sentii mancare, non volevo finire laggiù, per nulla al mondo.
«Chiudi la porta» dissi a Daniel.
«Come?»
«Chiudi la porta!» gli ordinai allontanandomi da lì, con le mani mi tappai le orecchie. Volevo scacciare quei lamenti che ancora mi rimbombavano nella testa. Daniel richiuse la porta e parve un po’ offeso dalla mia reazione.
«Non avremmo dovuto farlo» concluse Pietro «Non è in grado di reggere simili emozioni».
Daniel sbuffò, incrociò le braccia al petto e disse: «Sentire quelle voci è un’esclusiva per pochi che sono qui in paradiso, volevo solo fargli un favore».
Pensai che Daniel fosse un tipo un po’ lunatico, un attimo prima era il tuo migliore amico e appena tu facevi qualcosa che non gli andava a genio metteva giù il muso.
Rimasi inginocchiato con le mani sulle orecchie per un po’, finché non sentii uno strano prurito sulla schiena come se mi avesse punto una zanzara. Anzi due. Mi prudeva in due punti sulla parte alta della schiena.
Poi il prurito si fece più intenso e tutto successe in un attimo, egli “uscì” dal mio corpo e si tramutò in due gigantesche ali nere.
Nere.
Le osservai del tutto sgomentato, poi mi voltai verso Pietro e Daniel che avevano due facce ancor più impaurite della mia. Tornai a fissare le ali.
Tra i miei due amici il primo a ricomporsi fu Daniel: «Beh, almeno si intonano con gli occhi». Cercava inutilmente di sdrammatizzare e fu allora che intervenne Pietro: «Ohi, ohi» disse ancora preoccupato, successivamente assunse un’espressione seria, mi guardò puntandomi contro i suoi occhietti neri e disse: «È ora che tu sappia veramente cosa vuol dire assistere alla nevicata scarlatta».

[continua]


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