Opere di

Martina D’Adamo in Wedam

Con questo racconto è risultata 7^ classificata – Sezione narrativa alla X edizione del “Premio di Poesia e Narrativa La Montagna Valle Spluga 2009


«Orso»

Il vento s’insinua nella foresta.
Graffia gli abeti, scuote i larici, frusta le esili betulle. Gli alberi compatti intonano un canto antico e greve come la pietra delle montagne, che la gente di qui sa interpretare.
«Temporale» avrà sentenziato la Marisa prima di chiudere sbrigativamente le imposte alle finestre della sua modesta casetta sul ciglio della scarpata.
«Pioggia in arrivo! le avrà fatto mentalmente eco il vicino Giulio, gustandosi ancora qualche boccata di pipa prima di rientrare in casa.
«Meglio levare le tende» staranno sdrammatizzato gli operai, giù alla locanda del paese, sorseggiando un bicchiere di aspro vino scuro dopo una giornata di duro lavoro.
Mi piacciono i temporali come questo.
Adoro assistere allo spettacolo del rotolare grigio e scomposto delle nuvole dalle cime ancora innevate e riempirmi i polmoni di quest’aria densa che ha un profumo buono, sa di cortecce umide e di ricordi.
Anche l’uomo-orso aveva quest’odore certe volte, quando tornava dal bosco per esempio o dopo aver lavorato a lungo nel capanno della legna a lato del giardino. Scuro come un pino nero, alto e robusto come una diga, portava un barbone ispido e malcurato e aveva due piccoli occhi acuti dell’azzurro intenso di un fiume ghiacciato.
Taciturno e scontroso, era più selvatico degli animali che amava tanto: rapaci di alta montagna, cervi e stambecchi con lunghe corna aguzze, guizzanti bisce velenose.
«Orso» gli diceva la gente di qui. «Uomo–orso» lo appellavano col bonario affetto di una comunità unita nelle avversità e nelle gioie e divisa solo nelle piccole beghe di vicinato o per futili pettegolezzi, diffusi più per riempire i lunghi pomeriggi piovosi che per reale malizia.
E lui rispondeva col suo vocione profondo, che sembrava sgorgare dalla gola di una montagna o dall’oscurità di una grotta, stando al gioco in maniera semplice, senza dilungarsi troppo in chiacchiere.
«Sempre di poche parole tu, eh?» gli diceva talvolta la Lucia, donna risoluta e testarda che gestiva il piccolo negozio di alimentari del paese e che in gioventù aveva provato senza riuscirci a incrinare la sua scorza impenetrabile e spinosa come quella di un riccio.
«Scappa scappa che sono pericolosa, io!» aggiungeva con una risatina vedendolo tagliar corto mentre una vena di malinconia scalfiva il suo intatto cuore di zitella che ancora una volta nonostante infruttuose occhiate languide e inutili battute di vorace sarcasmo si sarebbe mantenuto tale.
Un po’ per tutti qui, l’“Uomo-orso” era un importante punto di riferimento. Era lui che consigliava quali alberi abbattere a seconda dello scopo a cui sarebbe stata destinata la legna, era lui l’esperto assoluto della zona in materia di funghi ed erbe spontanee e soprattutto era lui a conoscere meglio di chiunque altro le abitudini degli animali del bosco, semplici o bizzarre che fossero.
«Meglio chiedere a Orso» diceva la gente del paese se si trovava in dubbio su una qualche questione di questo tipo. E lui puntualmente risolveva problemi, dava consigli, elargiva raccomandazioni sempre nel suo modo schietto ed efficace seppur estraneo alle buone maniere.
Anche il giorno che incontrò quella che sarebbe poi diventata sua moglie non dimostrò una particolare loquacità, né un briciolo di qualsivoglia romanticismo.
Daniela, così si chiamava, era una donna dall’animo ritroso e timido di un esile capriolo imprigionato in un corpo resistente e temprato da forte arbusto di montagna. Come la maggior parte delle persone da queste parti, era un’instancabile lavoratrice, una grande amante della valle e delle montagne che la circondavano e soprattutto era semplice ed onesta.
Tutto questo di certo non era poco per Orso, ma ad attrarlo più di tutto furono con ogni probabilità i suoi modi fortemente schivi e sfuggenti che, oltre a fargli pensare che potessero essere specchio di una natura simile alla sua, gli ricordavano il comportamento di certi animaletti selvatici con i quali si trovava spesso più a suo agio che con gli altri esseri umani.
Fu dopo una delle annuali feste di paese che Orso si accorse dell’esistenza di Daniela e cominciò a ventilare la possibilità di non restarsene da solo nella sua casa-rifugio nascosta dai primi alberi della fitta boscaglia accanto al fiume, ma di condividerla con qualcun altro e magari di metter su anche famiglia.
E fu così che Orso fu avvistato con sempre maggiore frequenza nei pressi della casa della Daniela o meglio della famiglia di lei e ad entrambi bastò il riconoscersi come creature affini a farli innamorare e l’idea di amore che c’è da queste parti, sentimento puro e concreto senza strani grilli per la testa a farli rimanere tutta la vita sotto lo stesso tetto.
La loro prima ed unica figlia stupì tutti.
Nacque in un gelido mattino di primavera, quando ogni cosa da queste parti era ancora ricoperta di un leggero manto di neve e il timido tepore che sarebbe giunto di lì a qualche settimana sembrava un’ ingannevole illusione. La brina aveva tessuto splendidi ricami sui rami, che Orso aveva osservato a lungo nel vano tentativo di allontanare almeno un po’ il nervosismo dell’attesa.
«Cosa me ne faccio io di una cosina del genere?» disse con un filo di voce spezzando con un pizzico d’ironia la commozione di vedere per la prima volta sua figlia.
Ed effettivamente ben poco aveva della robusta costituzione dei genitori quella bimba tenera e pallida come un timido bucaneve che pare essere spuntato fuori troppo presto o nel posto sbagliato quando penetra la candida coltre gelida.
Ad Orso ricordò la forma meravigliosa quanto fragile di un fiocco di neve e decise risoluto di chiamarla Bianca.
«Non essere troppo burbero con la piccolina, mi raccomando Orso!».
«Vedi di non esagerare coi tuoi modi duri!».
«Guarda che è una bambina non un pezzo di legno!» lo canzonavano i paesani con l’affetto di sempre.
Eppure nulla sembrò cambiare o modificare l’atteggiamento di Orso, che continuò a comportarsi con tutti nello stesso modo ruvido e graffiante di sempre e a condurre la stessa vita selvatica ed orgogliosa.

Stranamente però il ricordo che io ho di lui è molto diverso.
Passi che affondano nelle foglie secche sparse sul terriccio, raggi di sole filtrati dai rami degli abeti, il fruscio perpetuo dello scorrere di un fiume, il buffo ticchettio di un picchio sui tronchi, bianchi puntini sul dorso di giovani cerbiatti… ricordi di passeggiate nel bosco.
La sua voce forte come questi tuoni che preannunciano i violenti nubifragi estivi di montagna, con me si faceva zefiro dolce ed incantevole che raccontava dei luoghi preferiti dagli uccelli per chiacchierare, di riunioni di cervi nella stagione degli amori e di morbido muschio che ammantava le pietre del sottobosco dove i folletti si fermavano a riposare.

Lo ricordo così, mio padre, grande orso buono che tingeva i boschi di magia e che teneva tutto il suo miele per me. E in giornate come questa quasi mi dispiace chiudere le imposte e frapporre un velo, fra noi.

Martina D’Adamo in Wedam


Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Avvenimenti
Novità & Dintorni
i Concorsi
Letterari
Le Antologie
dei Concorsi
Tutti i nostri
Autori
La tua
Homepage
su Club.it