Poesie di Mario Vierucci


I miei giorni

In grembo all’ombra io mi nascondo ogni giorno
sotto i rami di quercia vivente.
Qui seduto, fantastico ed allungo lo sguardo
su una distesa d’erba che simula il mare.
Ma al crepuscolo un’ombra d’uccello s’avvita in alto su di me
e sparisce all’orizzonte in un battito d’ali,
Chissà, forse perché presto io supererò il sentiero dei tramonti andati.
Di notte mi sento già un fantasma legato a fili di memoria,
e mi muovo nell’oscurità come un’umbra che attraversa alter ombre.
Ho visto tante stagioni profondersi e volar via.
Com’è scorso il tempo, come sono scorsi gli anni!
Eppure sento un angoscioso desiderio d’amore,
adoro la mia terra, i tenui splendori dell’alba
e le oscurità profonde della sera.
L’aria del mattino ha un buon sapore al mio palato:
sento la sua brezza sulla pelle e mi par di rifluire nell’oceano della vita.
Se mi bagno al fiume, il suo scorrere mi leviga come un sasso.
Sulle mie membra riposano i raggi del sole e s’allungano pigri al tramonto.
Di giorno vago in cave di solitudine,
ma da lassù mi sorride la luna nascosta in un lievito di nebbia.
Il vento mi porta profumi d’Oriente e fra gli alberi comincia a cantare.
Allora guardo il cielo e dico sottovoce: resta ancora con me dolce vita,
col mio cuore che non s’arrende, con le mie labbra che sorridono,
con i miei occhi che piangono.


La donna nera del Nadir

Un po’ pazzo e vacillante mi rese quella sera l’assenzio,
e all’apparir del stelle mi domandai cosa potevo aspettarmi dalla notte.
Ma poi caddi in un sonno profondo, e sognai una donna nera del Nadir
che mi attendeva nella sua tenda-alcova,
colma d’ambre e voluttuose aromi d’ogni specie.
Era lì, ornata di conchiglie bianche: pareva che per lei cantasse la luna
tanto era bella nelle sue bianche vesti di seta.
Io la guardai come non si guarda la donna di una notte
per i suoi occhi volti al plenilunio, tristi come due nuvole grigie.
Estasiato, accarezzai le sue mani, mentre la luna la palpava con fradice dita.
Allora passò l’amore nella sua carne stupenda e nel respiro della bocca,
cosicché brillarono nei suoi occhi e rotolarono le luci ed i colori del prisma.
Lei restò immobile, come immersa in un ineffabile languore.
Poi – cosa strana – si svestì davanti allo specchio mio antico.
Ed io, con versi ameni come ninnoli le chiesi d’amarmi.
Ebbene, così fu la sua risposta: assorta, a voce bassa, con un consentimento tacito.
Quindi lei si mosse verso di me guardandomi con occhi di brace.
Anch’io la guardai e sulle sue labbra non lessi remora alcuna alla forma del piacere.
Mi toccava già il cuore ed il corpo una squisita emozione,
quando, all’improvviso, fui svegliato di soprassalto
dai suoni e dai canti che venivan su dalla strada.
Così io rimasi solo, nell’oscurità, ad evocare la donna del Nadir,
fantasticando sui godimenti vagheggiati in sogno.
Ma laggiù, in un angolo, s’allargava lo specchio mio antico,
e s’esaltava d’aver accolto in sé, per attimi, l’armonica beltà.
Intanto, nel cielo d’opale andava a smarrire lo scialbo incantamento della luna,
e tutte di me ridevan le ultime stelle.


Agadir

Ad un giorno monotono segue un nuovo giorno monotono, immutabile,
mentre io, tonto dal calore, mi sento come un prigioniero in un manto di tufo.
Al tramonto, però, scende lieve la sera col girar nell’aia di afrori e di suoni.
Poi, scortata dalla luna, avanza la notte
e atterrano i segreti antichi fra le mura di Agadir.
Lenti passano i minuti che vengono a me dalle miriadi di minuti passati,
e non c’è niente di peggio – io penso – che star qui,
fra incubi ed angosce che via via prendono forma.
In gola mi brucia l’assenzio.
Emergano così quelle visioni incespicate dentro l’anima
che si fondono nella metafora della mia solitudine.
Ed ora, pensieri, stanchi e rappresi mi strisciano fuori di testa,
poi vagano fra la sabbia, e si perdono nel blu del deserto.
Di notte stropiccio la mappa dei ricordi,
e nel buio scorgo la favilla del rogo che mi riarsi giovane,
quando si formavano intenti di poesia, si profilava l’ambito dell’arte.
Allora mi credevo il genio dei poeti di antiche terre,
e a stento soffocavo sussulti d’orgoglio.
In certe notti con poche larghe stelle, mi giungono
voci ideali e care di tutti quelli che morirono per la mia Patria.
Con il loro suono ritornano suoni su, dal primo epico canto della vita
come una musica a notte che lontanando muore.
Spesso cammino al chiar di luna su un ampio strascico di deserto
che porta alla mia ultima spiaggia, ma sembra non dover finire mai.
Finalmente arriva l’alba dall’orizzonte di sabbia,
e dona ad Agadir i colori che le portò via la notte.
Allora io ascolto i suoni dei frangenti
che m’invitano su friabili ed immense rive.
L’oceano dialoga col vento
e m’acquieta col l’ipnotico frastuoni dell’onde,
mentre, a bocca chiusa io mastico un’antica nenia turca.
Intanto evapora il tempo nel deserto
e l’essenza della mia vita va rubando, inavvertitamente …


Poesie tratte da “Una vita nel deserto” – Montedit – 2007
di Mario Vierucci


I Miei giorni

In grembo all’ombra mi nascondo ogni giorno
sotto i rami di quercia vivente.
Qui seduto, fantastico ed allungo il mio sguardo
su una distesa d’erba che simula il mare.

Ma al crepuscolo, un’ombra d’uccello s’avvita in alto su di
me e poi sparisce all’orizzonte in un battito d’ali.
Chissà, forse perché presto supererò il mio sentiero
dei tramonti andati.

Di notte, mi sento già un fantasma legato a fili di memoria
e mi muovo nell’oscurità come un’ombra che attraversa
altre ombre.

Ho visto tante stagioni profondersi e volar via.
Com’è scorso il tempo, come son scorsi gli anni!

Eppure ho un angoscioso desiderio d’amore
e poi adoro la mia terra, i tenui splendori dell’alba
e le oscurità profonde della sera.

L’aria del mattino ha un buon sapore al mio palato:
sento la sua brezza sulla pelle
e mi par di rifluire con l’oceano della vita.

Se mi bagno al fiume, il suo scorrere mi leviga
come un sasso.
Sulle mie membra riposano i raggi del sole
e s’allungano pigri al tramonto.

Vago di giorno in cave di solitudine,
ma da lassù mi sorride la luna, nascosta
in un lievito di nebbia.
Poi arriva il vento che mi porta profumi d’Oriente
e fra gli alberi comincia a cantare.

Allora guardo il cielo e dico sottovoce: resta ancora con me
dolce vita, con il mio cuore che non s’arrende, con le mie
labbra che sorridono, con i miei occhi che piangono.


La donna nera del nadir

Un po’ pazzo e vacillante mi rese quella sera l’assenzio.
Così, all’apparire delle stelle,
mi domandai cosa potevo aspettarmi dalla notte.

Ma poi caddi in un sonno profondo e sognai la donna
nera del nadir
che m’attendeva nella sua tenda-alcova,
colma d’ambre e voluttuosi aromi d’ogni specie.

Era lì, tutta nera e ornata di conchiglie bianche:
pareva che per lei cantasse la luna tanto era bella
nelle sue vesti di seta.

Io la guardai come non si guarda la donna di una notte
per quei suoi occhi volti al plenilunio, tristi come
due nuvole grigie.

Estasiato, accarezzai le sue mani mentre la luna la
palpava con fradice dita.

Passò allora l’amore nella sua carne stupenda
e nel respiro della bocca,
cosicché brillarono nei suoi occhi
e rotolarono le luci ed i colori del prisma.

Lei restò immobile, come immersa in un ineffabile languore
e poi si svestì – cosa strana – davanti allo specchio
mio antico.

Allora, con versi ameni come ninnoli,
fino all’alba io le chiesi d’amarmi e così fu la sua risposta:
assorta, a voce bassa, con un consentimento tacito.

Poi, sinuosa, si mosse verso di me guardandomi
con occhi di brace.
Anch’io la guardai
e sulle sue labbra non lessi remora alcuna alla forma
del piacere.

Mi toccava già il cuore e il corpo una squisita emozione,
quando, ad un tratto, fui svegliato di soprassalto
da suoni e canti che venivan su dalla strada.

Allora io rimasi lì solo, nell’oscurità, ad evocare la donna
nera del Nadir, fantasticando sui miei godimenti
vagheggiati solo in sogno.

Ma lì, in un angolo, s’allargava lo specchio mio antico e s’esaltava
d’aver accolto in sé, per attimi, l’armonica beltà.

Intanto, nel cielo d’opale andava a svanire lo scialbo
incantamento della luna e tutte di me ridevan le ultime stelle.


Notti

Le mie son notti dei venti del sud,
notti dal flebile respiro
che fan viaggiare nel tempo dei sogni.

All’apparire delle stelle,
m’incammino con la tenera notte che cresce
e mi culla in un fluttuante assopimento.

Poi abbraccio l’ipnotico sonno
e vago sognando fra le dune del deserto.
Qua e là, lascio l’impronte dei miei versi sulla sabbia
ed al risveglio, vado verso uno sciocco sbadiglio
di soddisfazione.

Talvolta m’appaiono in sogno entità con volti dai vaghi
contorni: son persone care che un giorno ho baciato,
con mani bianche che ho tenuto fra le mie mani.

Con paura e sospetto,
alcuni si guardano intorno con occhi esterrefatti
ed altri riempiono il fiato di voci che non sanno chiamare.

Poi arriva l’alba
e nel nulla svaniscono le diafane ombre dei miei fantasmi.

Ogni sera, dopo il tramonto,
verso di me l’oscurità vien frusciando.
Così, torna sovente a prendermi la notte
e gelosa mia spia
se nel mio taccuino induco in versi la malinconia della luna.

Quando s’annoia il cielo delle stelle,
s’alza la luce del giorno
e con un alito di vento
m’accarezza premuroso un soffio di poesia.


Un amore
(Travemunde – Mar Baltico – Gennaio 2005)

In queste notti d’inverno generose di stelle
risento sulla pelle la gelida carezza del vento
ed in sogno mi vieni incontro tu, mia cara Inge,
con la tua apparente frivolezza,
pervasa da un certo candore che io amavo tanto.

Poi mi sveglio e vago a ritroso nel tempo,
quando ci avvolgeva una tela d’amore.

Rivedo gli incontri di mani,
lo sfiorare di visi, delle labbra, come a caso.
E poi, tatto di membra (un attimo appena), furtivamente,
perché la madre non s’avvedesse mentre al sole ricamava
in giardino.

Ma ora il nostro amore s’è ridotto a piccoli frammenti.
Più non brillano per me i tuoi occhi
e mi dicono soltanto che la nostra storia è finita.

Eppure, insieme a te io vorrei ricomporre quei frammenti
qui, su questa spiaggia sul Baltico
che un giorno vide il nostro primo incontro.

Tu non sai che
l’eterea parvenza del tuo volto, così bello, così indefinito,
varca ogni notte le colline dei miei sogni.

E quando apro gli occhi, si risveglia all’alba la memoria.
Anche le labbra ricordano.
Nelle mie mani un senso tattile s’accende e associa
percezioni, associa attimi d’amore.

Poi vedo i tuoi occhi che mi sorridono:
io m’illudo ancora
e lascio che un’estrema tenerezza accompagni l’avvicinarsi
dei tuoi passi.


Solitudine

Ancora assonnato, sento una voce allegra alla mia porta:
“Dài, svegliati papà!” – mi dice affettuosamente Tulay.

È lei, mia cara Asena,
la nostra figlia che tu partoristi morendo fra le mie braccia.
Oggi compie quattordici anni,
è molto bella è come te ha due occhi grandi e
la pelle d’ambra.

Ieri sera, come allora, c’era aria di festa nelle strade di
Istanbul e lei s’è allontanata all’improvviso per nascondersi
fra la gente che cantava.

Poi l’ho vista un po’ distante da me col viso accaldato
che danzava una canzone lenta e ammaliatrice
fra le braccia di un giovane dalla pelle scura.

Ad un tratto, m’è sembrato che lui la guardasse con occhi
di desiderio.
Forse ho frainteso quello sguardo, ma all’istante, ho sentito
una fitta al cuore.

Poche e labili sono le mie memorie
e talvolta mi sfugge la tristezza dei tuoi occhi
che ti sottraeva luce ma che io amavo tanto.

Eppure, il cuor mio ricorda ancora le tue sembianze,
perché le raccolse come parte di sé quella sera che al
tramonto tu mi dicesti per la prima volta:
“io ti amo, Kadir”.

Di notte, mi sfiori in sogno con la tua voce.
Poi ti sente tra i pensieri la mente
e solo allora, con sillabe illuminate di pianto,
io scrivo versi pervasi da un’attesa di felicità.

Con angoscia mi sveglio presto al mattino
e di giorno mi divora il cuore questa mia solitudine.

Troppo presto, mia cara, mi sei venuta a mancare
ed ora, senza di te, tutto mi lascia indifferente,
anche il fascino antico e misterioso di Istanbul.

Dalla nostra terrazza guardo spesso le acque del Bosforo
e più forte si fa il ricordo doloroso di te.
Ed è questo ricordo che ogni giorno, ogni ora, ogni attimo,
lentamente mi sta consumando.


Agadir

Ad un giorno monotono,
segue un nuovo giorno monotono, immutabile
e tonto dal calore, qui mi sento come prigioniero inerme
in un manto di tufo.

Ma al tramonto, scende lieve la sera col girar nell’aria di
afrori e di suoni.
Poi, scortata dalla luna, avanza la notte e atterrano segreti
antichi fra le mura di Agadir.

Così, lenti passano i minuti
che vengono a me dalle miriadi di minuti passati
e non c’è niente di peggio che star qui, fra sogni e angosce
che via via prendon forma.

In gola mi brucia l’assenzio
e d’un tratto, emergono visioni incespicate dentro l’anima
che si fondono in una metafora della mia solitudine.

Pensieri stanchi e rappresi mi strisciano fuori di testa
e vagando fra la sabbia si perdono nel blu del deserto.

Stropiccio ogni notte la mappa dei ricordi
e nel buio scorgo una favilla del rogo che mi riarse giovane,
quando si formavano intenti di poesia, si profilava
l’ambito dell’arte.
Mi credevo il genio dei poeti di antiche terre ed a stento
soffocavo sussulti d’orgoglio.

Nelle notti con poche larghe stelle,
mi giungono voci ideali e care
di tutti quelli che morirono combattendo per la mia patria.
E col loro suono, un attimo ritornano suoni su, dal primo
epico canto della vita,
come musica a notte che allontanando muore.

Talvolta, al chiar di luna, io cammino sognando su un
ampio strascico di deserto che porta alla mia ultima
spiaggia, ma sembra non dover finire mai.

Poi arriva l’alba dall’orizzonte di sabbia
per regalare ad Agadir i colori che le portò via la notte.

Allora ascolto i suoni dei frangenti che m’invitano su
friabili ed immense rive.
L’oceano dialoga col vento
e m’acquieta con l’ipnotico frastuono dell’onde.

Alfine s’alza la luce del giorno
ed io mastico a bocca chiusa la mia terra in
un’antica nenia turca.

Intanto evapora il tempo nel deserto
e l’essenza della vita mi va rubando, inavvertitamente…



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