Opere di

Mario Pettoello

Con questo racconto è risultato 3° classificato – Sezione narrativa alla VI Edizione del Premio di Scrittura Creativa dedicato a Lella Razza 2010


«I colori di Filomena»

Filomena l’apprese dalla madre
“La Contessa non vuole.”
La Contessa non vuole, mica era una novità, quando mai la Contessa s’era accorta di lei o dei suoi piccoli desideri di ragazza, come potersi allontanare una settimana, anche una sola, dalla mezzadria.
“Non vuole cosa, Mamma?”
“Cosa, cosa, che tu vada sposa vestita di bianco.”
Il vestito bianco, non sarebbe dovuta andare all’altare con il vestito bianco. Due anni di risparmi del suo lavoro. La sera, a cucire e stirare per le signore della città, dopo aver lavorato tutto il giorno sui campi.
“Mamma, io posso portarlo il vestito bianco. Non sono incinta e poi te l’avrei detto.”
“Ci mancherebbe altro. Non vuole e basta.”
“Perchè?”
“E’ troppo bello.”
“E’ troppo bello? Cosa?”
“Il tuo vestito da sposa.”
“Ma è mio!”
“Si, è vero, ma la Contessa non vuole.”
La contessa non vuole. Per poter indossare l’abito bianco a testa alta, Filomena aveva quasi litigato con Antonio, ma ancora di più con se stessa, giacché quando lui l’accarezzava si sentiva addosso un calore che le faceva perdere la testa. Questo a sua madre, però, non poteva dirlo.
“Ma lo voglio io mamma!”
“Tu lo vuoi? Sai cosa ha detto la Contessa a tuo padre. Sono state queste le sue parole: Se tua figlia si sposa con il vestito bianco, a San Martin via. Fuori dalla mezzadria, capisci?”
“E’ invidiosa?”
“La Contessa? Invidiosa di te? Perché sei più bella di sua figlia? No. Tu potresti essere più bella di una madonna, ma laContessa e sua figlia crederebbero sempre d’essere meglio di te.”
“E allora, qual è il motivo?”
“Non lo so, e non m’interessa, La Contessa non vuole e solo questo, purtroppo, conta per noi.”
Qualche settimana prima il gastaldo aveva informato la Contessa che non c’era motivo per non consentire alla figlia del mezzadro Canzian di sposarsi. Anzi, la mezzadria avrebbe acquisito due nuove braccia, giacché lo sposo si sarebbe aggiunto alla famiglia mezzadrile. La ragazza, aveva aggiunto il gastaldo, si sposerà con il vestito bianco. La Contessa aveva sorriso, convinta che nessun vestito avrebbe potuto competere con quello della sua unica figlia, seppure proprio alcuni giorni prima avesse appreso che la ragazza era incinta. Alla notizia aveva reagito sdegnata, ma s’era anche imposta di salvaguardare le apparenze
Era semplicemente impensabile che si dovesse ricorrere ad un matrimonio mattutino o vespertino, da celebrare nella chiesetta delle Suore dell’ordine di Maria Bambina, quella che nella vulgata popolare era diventata la chiesetta dell’ordine della Riparazione.
Avrebbe voluto dire esporre la figlia al giudizio della gente e offrire a quattro zoticoni di contadini il pretesto per rifarsi delle critiche che lei non aveva mai lesinato.
“Mettete al mondo un figlio l’anno, come le bestie, non sapete controllarvi.”, era solita rimproverarli.
“Anche la contessina, non sa controllarsi”, avrebbero farfugliato a loro volta, appresa la notizia.
La Contessa era certa che il Parroco non avrebbe frapposto ostacoli. Sapeva fare sin troppo bene i suoi conti. La risposta, invece, fu categorica.
“La ragazza non può sposare con l’abito bianco, le regole sono uguali per tutti.”
La sola cosa che stava veramente a cuore alla Contessa era salvare le apparenze e fece, perciò, un ultimo tentativo.
“Faremo all’antica. Il matrimonio sarà celebrato nella chiesetta adiacente alla nostra villa, lontano da occhi indiscreti.”
“Con il vestito bianco?”
“All’interno della mia proprietà, nessun estraneo noterà il vestito bianco.”
“Io lo noterei e tanto basta.”
Il Parroco fu irremovibile e la Contessa, per rifarsi dell’umiliazione subita, non trovò di meglio che ribaltare il sospetto e la curiosità sulla figlia di un suo mezzadro. Se Filomena non si fosse sposata con il vestito bianco, non ci sarebbe stato nessun confronto tra quella ragazza, figlia di un contadino, e la contessina sua figlia.
La mezzadria era troppo importante per la famiglia Canzian e Filomena dovette tenere il suo bel vestito bianco nell’armadio. Lo indossò solo una volta, la sera prima che Antonio, suo marito, partisse per il fronte, ma se lo tolse di tutta fretta. Era l’ultima notte che avrebbero trascorso assieme.

Nel ’18 Antonio non tornò dal fronte e Filomena si vestì di nero. Dapprima fu per il lutto, ma con il tempo il suo abbigliamento assunse un diverso significato. Non era solo una manifestazione di uno straziante dolore.
Filomena, infatti, aveva inteso assumere su di sé il compito di trasmettere la consapevolezza del tormento che la guerra aveva causato a tante famiglie. Il suo lutto divenne memoria e testimonianza del senso d’assenza e di perdita, che aveva sovrastato i soldati al fronte e i loro famigliari per quattro lunghi anni.
La retorica patriottica e l’esigente volontà del regime fascista di costruire una nuova storia collettiva avevano frettolosamente accantonato questi sentimenti. Protrarre il lutto nel tempo era, invece, un modo per rivendicare il suo negato diritto ad una storia privata.
Filomena aveva frequentato solo la terza elementare, ma in una qualche maniera era sodale alla grande Ada Negri che, in tempo di guerra, aveva dato voce alle donne del popolo, quelle che non riconoscevano nel proprio uomo o figlio un’eroica e astratta figura di soldato, ma un corpo vulnerabile che non poteva, e non doveva, essere strappato agli affetti più cari.
Ada Negri s’era guadagnata l’invettiva di Marinetti: “Donne, non piagnucolate”, Filomena, invece, si meritò la volgarità dei gerarchi locali, convinti che per restituirle una concreta storia privata sarebbero stati sufficienti gli argomenti che tenevano sotto i pantaloni.
La privazione del marito aveva trasmesso a Filomena la convinzione che la guerra è la naturale conseguenza d’ogni ideologia o dottrina che non riconosce la vita come un valore che prevale su tutti gli altri. La vita d’ogni donna e uomo, infatti, ha un senso di per se stessa e non in rapporto agli eventi della storia, quella scandita dal rombo del cannone e dal fango delle trincee.
Per questi motivi quando, nel ‘36, anche al suo paese i preti benedirono i gagliardetti e le truppe in partenza per l’Africa e la Spagna, Filomena si rifiutò di frequentare le funzioni religiose. Con i preti non volle neppure più parlare, ma cercò di parlare con Dio.

Filomena ha parlato con Dio sino all’ultimo giorno. Gli piaceva farlo seduta nel giardino di casa, le spalle addossate al muro, lo sguardo rivolto al cielo. Negli ultimi tempi, ripercorreva con insistenza gli anni della propria vita, quasi volesse prepararsi ad un appuntamento che sapeva prossimo. La sua mente, però, s’era come smarrita e le accadeva di confondere i ricordi con i sogni che aveva sognato e con i desideri che aveva coltivato, per poter sognare.
Solo una cosa riusciva a distoglierla da quest’intimo colloquio con il suo passato e il domani che l’attendeva.
A distoglierla e, nello stesso tempo, ad affascinarla era l’apparire dell’arcobaleno, con i suoi tanti colori, dopo un temporale.
La distoglieva, perché non sapeva farsi una ragione dell’assenza dei due colori che avevano segnato la sua vita. Il bianco di un vestito da sposa mancato, il nero di un lutto che non era stato solo dolore, ma protesta e rifiuto.
L’affascinava, perchè l’aiutava a ricordare (o, forse, solamente ad evocare?) gli anni della giovinezza e dell’amore per l’unico uomo della sua vita, quando ogni stagione aveva un colore e i colori si ripetevano, come i sentimenti che sempre si alternano, di stagione in stagione.
Una perduta primavera, quando Filomena amava intrecciare un nastro rosso nei capelli e si muoveva, leggera, a passi di danza su un prato verde, quello della speranza, nell’attesa che Antonio la sfiorasse con lo sguardo.
Una remota estate, le notti della loro unica calda estate, quando lei lo attendeva sveglia, sino a tardi, ma troppo stanca si addormentava abbracciata ad una luna dipinta d’arancione.
L’autunno, con lui lontano per lavoro, e una nebbia azzurra sembrava velare la sua felicità, ma solo per poco, giacché Antonio allora sempre tornava, come i fiori gialli di campo.
Le ultime sere di un solo inverno quando, raggomitolata accanto ad Antonio, strani presagi addensavano la sua mente, ma lei, ostinata, si costringeva a pensare che si sarebbero diradati, come fa la brina che tinge d’argento l’indaco scuro delle scure notti.
Il viola, infine. L’ultimo colore dell’arcobaleno le ricordava la stagione che non c’è stata, quella che lei avrebbe voluto donargli, quello che lui avrebbe voluto lasciarle. Il colore che avrebbe voluto amare, per potergli dire: aspetto un bambino. Il colore che lui avrebbe voluto evocare, per quel fascino misterioso e magico che ogni nuova vita annuncia.

Fu in un tardo pomeriggio d’aprile che Filomena vide per l’ultima volta l’arcobaleno. La trovarono, l’indomani, il capo reclino, seduta nel giardino della sua casa, le spalle addossate al muro.
Il volto era sereno e colorato di un tenue vento. Ai suoi piedi, quello stesso vento d’aprile aveva accumulato un grumo di foglie secche, come i ricordi che Filomena aveva abbandonato per sempre.

Mario Pettoello


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