Cinque - Come le strade della mia vita

di

Mario Batignani


Mario Batignani - Cinque - Come le strade della mia vita
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 70 - Euro 8,00
ISBN 978886037-7036

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Introduzione

Mi scuso anticipatamente con voi, amici lettori, se questo mio racconto vi sembrerà di scarso interesse o addirittura banale. Ma sappiate che sono una persona modesta, non ho molta cultura e neppure tanta pratica con la scrittura: questa è la mia prima volta, ma avendo avuto modo di visitare l’ospedale Meyer di Firenze, mi sono reso conto di quante difficoltà abbia il personale, sia medico, che infermieristico, nell’esercitare il proprio lavoro. Ai bambini con grossi problemi di salute mancano i farmaci necessari per potergli assicurare terapie mirate; alcuni bimbi devono essere trasferiti in altri centri all’estero con immenso sacrificio delle famiglie più disagiate; mancano apparecchiature e fondi per poter effettuare cure specialistiche. Premetto che tutte le equipe che lavorano in questo ospedale sono composte da persone veramente eccezionali, bravissime nel loro lavoro e con un tasso di umanità incredibile: trattano quelle creature come fossero i propri figli.
Dunque Amici, è a voi che da queste pagine rivolgo il mio appello: comprate questo mio libro, poiché tutto il ricavato lo devolverò a questo ospedale. Ovviamente sarà mio dovere dimostrare a voi tutti, con opportuna documentazione, che questo è avvenuto. Vi prego ancora, si tratta di creature innocenti: cerchiamo di aiutarle il più possibile. Purtroppo il destino ha deciso così per loro, senza alcuna colpa.
Giunto ad una età tale da poter tirare le somme, ho tentato di rispondere alla domanda più difficile nella vita di ogni essere umano: quella sul significato della propria esistenza. Un percorso fatto di gioie ma anche di sofferenze che io qui ho direzionato in cinque strade, e che ora cercherò di raccontare nella maniera più dettagliata possibile.
Tengo a sottolineare che questo racconto non vuole elargire consigli a nessuno o avere la pretesa di essere una guida. Chi lo legge non deve per forza intraprendere questo mio cammino, tutt’altro: ho voluto semplicemente narrare la mia esperienza di vita, senza avere la pretesa di coinvolgere altre persone, perché ciascuno di noi è libero di prendere le strade che vuole.
Infine una precisazione: nel racconto, compariranno le figure che hanno tessuto il mio quotidiano. Di questi, solo i nomi dei miei familiari rimarranno invariati. Degli altri – escluso poche eccezioni – ho rispettato il loro ruolo pur modificandone il nome.
Nel caso in cui questo scritto risultasse lesivo nei confronti di qualcuno, mi riterrò l’unico responsabile perseguibile penalmente.

Mario Batignani



Cinque - Come le strade della mia vita

Adesso inizia il percorso della mia vita che ho suddiviso in cinque strade.
Ho definito la prima strada, strada dell’adolescenza: una vita per me bellissima sotto tutti i punti di vista e vissuta in modo semplice ma felice. Ricordo che i miei genitori erano persone molto modeste sotto il profilo economico, così come tante altre famiglie di campagna – e non solo – di quell’epoca. Ricordo l’amore che avevano per me e per mia sorella Evelina, maggiore di me di tre anni.
Dicevo all’inizio, una vita vissuta con gioia, che mi faceva stare molto bene. Non avevo molti beni materiali ma bastava poco per divertirmi. Non avevo giocattoli e neppure tanti amici: solo due, ma sinceri, con i quali condividevo le mie giornate, giocando a nascondino, andando a pescare nei torrenti adiacenti casa mia, facendo i compiti di scuola e giocando a calcio (mia grande passione). Ricordo che giocavamo con un pallone, da tempo forato; ma nonostante ciò, ero fiero dei miei genitori, perché al posto dei giocattoli, che non potevano comprarmi, mi davano tutto il loro amore, un sentimento sincero e inamovibile: valore che a distanza di anni in alcune famiglie sembra non esserci più. La televisione e la stampa riferiscono spesso alcuni fatti che definire osceni è dir poco: madri che abbandonano le proprie creature; figli che uccidono i propri genitori ecc. Ma tutto questo per che cosa? Su cento casi, novanta sono per soldi. La madre che abbandona il proprio figlio dice che non sa come mantenerlo; i figli che uccidono i propri genitori non sono mai contenti e pretendono sempre soldi e potere.
I miei genitori non avevano niente da offrirmi se non l’amore e ovviamente da mangiare: se lo toglievano di bocca per darlo a me e a mia sorella. Eppure non mi hanno abbandonato, ed io, fino all’età di 13 anni, non ho mai preteso di più, pur sapendo che esistevano cose molto belle e che i miei amici di scuola potevano permettersi (palloni sempre buoni per giocare, biciclette per fare girate e vacanze in posti di mare…).
Di tutto questo, caro babbo e cara mamma, vi ringrazio perché mi avete donato la vita: il gesto d’amore più grande che potevate farmi. So bene che queste parole non potete apprezzarle – non ci siete più da tempo – ma spero di avervelo dimostrato in quei tredici anni passati con voi.

Il percorso della mia vita continua con la seconda strada, da me definita come la strada dell’illusione.
All’età di 13 anni mi trasferisco con la mia famiglia dal comune di Reggello a quello di Incisa Valdarno. Pochi mesi dopo, per un male incurabile, viene a mancare mio padre, colonna portante della famiglia. Aveva solo 52 anni, mio padre, lasciando tutti nel più totale dolore e sconforto. Ricordo ancora quei tragici momenti, la grande sofferenza che provocò a tutta la famiglia la perdita di una figura di riferimento. Ma la sua mancanza si fece sentire anche a livello economico. Mia sorella, che già lavorava nonostante la sua giovane età, dovette aumentare i propri sacrifici, come pure mia madre, che aveva un carattere forte e di grande determinazione. Infatti, dopo la morte di suo marito, si era rimboccata le maniche e aveva iniziato a lavorare. Fece lavori umili, ma onesti – tipo servizi domestici – prima in un convento di suore e poi da alcune famiglie. In più doveva badare a un ragazzino scavezzacollo come me che manifestava comportamenti non proprio adatti per i suoi tredici anni.
In quel periodo inizio a giocare a calcio, a Incisa Valdarno; non come tesserato, semplicemente con i ragazzi della mia età. Un giorno, mentre gioco, mi nota un osservatore del Montevarchi. Dopo la partita mi propone di andare a giocare proprio per la squadra che rappresenta. Io ovviamente ne sono entusiasta e, dopo aver convinto mia madre, accetto.
Ricordo che per andare a fare gli allenamenti e giocare le partite andavo in treno. Per me, una grande soddisfazione.
Vengo ovviamente inserito nel settore giovanile, esattamente nella categoria allievi. Qui inizia un percorso che mi porterà a bruciare le tappe.
S’avvia un campionato considerato di ottima qualità. Le squadre con cui giocavamo erano considerate le migliori, tutte squadre di Firenze e dintorni. Io mi metto subito in evidenza, facendo valere le mie doti di grandissimo corridore e lottatore. Gli esperti dicevano che anche tecnicamente non ero niente male.
Quell’anno facemmo un buon campionato – per le possibilità che avevamo – piazzandoci al settimo posto su diciotto squadre partecipanti. Finito il campionato seguirono alcuni tornei notturni, giocati sempre in maniera egregia, lo ricordo tutt’ora. Avevo in corpo tanta di quella voglia di giocare che mi impegnavo sempre al massimo, ottenendo anche elogi da persone della società. Erano soddisfatti di me ed erano contenti di avermi portato dalla loro. Un po’ meno soddisfatta era mia madre; stavo trascurando quello a cui teneva di più: la scuola. Tra i banchi ero un disastro. Insomma, cominciava a farsi sentire la mancanza di mio padre; nonostante i suoi rimproveri stavo prendendo il sopravvento: non temevo mia madre come avrei temuto mio padre.
Ma un giorno arriva una notizia, per me, inimmaginabile. I dirigenti del Montevarchi mi convocano in sede e mi dicono che vorrebbero parlare con mia madre, perché da circa sei mesi degli osservatori del Milan mi stavano seguendo. Questi signori volevano che andassi a Milanello – centro sportivo del Milan – per un provino che, a detta di loro, sarebbe stato quello definitivo per un passaggio in questa importante società.
Mi chiesero se sarei stato felice che il trasferimento a Milano fosse andato in porto. Ero talmente convinto che non li feci neppure finire di parlare; gli dissi che sarei scappato di casa se mia madre non fosse stata d’accordo. Risposero che sarebbero comunque venuti a parlare con mia madre, e che avremmo preso una decisione in base alla sua risposta, scartando a priori l’ipotesi della fuga.
Era maggio, lo ricordo perfettamente, quando questi signori vengono a parlare con mia madre; le spiegano le cose esattamente come stanno, e aggiungono che non avrei abbandonato gli studi. Anzi, sarei stato più seguito che a casa, perché questa società, così come tutte le altre, cura prima di tutto lo studio del ragazzo, tutto il resto viene dopo.
Con mio entusiasmo mia madre acconsente. Loro salutano e mi dicono di tenermi pronto, perché a giorni ci sarebbe stata la chiamata per l’ultimo test a Milanello. Prima di salutarci si sentono in dovere di tranquillizzarmi dicendo che sicuramente non avrei avuto problemi, facendomi capire che l’affare era già fatto e che non era certo legato ad una semplice partita di allenamento.
Finalmente arriva la tanto sospirata chiamata. I dirigenti del Montevarchi mi dicono che la mattina dopo, alle cinque, sarebbero arrivati con un taxi per andare a Milanello. Quella notte non dormo dall’emozione: alle cinque del mattino ero già fuori ad attenderli. Loro arrivano puntuali e partiamo. Verso le 10,30 arriviamo a Milanello. Io ero emozionato come non lo ero mai stato. L’ambiente è bellissimo visto dal di fuori. Ci presentiamo in portineria e ci fanno entrare in quello che per me era il tempio del calcio. Scendiamo della macchina e vedo una persona passeggiare: lo riconosco subito, è Gianni Rivera. L’emozione fu grandissima. Poco più in là ne vedo un’altra: Mora, fortissima ala destra del Milan. Poi un’altra ancora: Amarildo, attaccante brasiliano. Tutti grandi campioni che, ovviamente, giocavano nelle nazionali dei rispettivi paesi.
Mi avvicino ad ognuno di loro per farmi fare l’autografo, riuscendo a scambiarci solo qualche parola a causa dell’emozione.
Alle 15,30 facciamo la sospirata partita. Io ce la metto tutta, comportandomi ottimamente e facendo un gran gioco. Ricordo ancora i complimenti che mi fece il tedesco Snellingher, allora terzino sinistro del Milan, che aveva assistito alla partita a bordo campo.
Finito tutto andiamo a farci la doccia. Quando esco dagli spogliatoi trovo i dirigenti del Montevarchi (quelli che mi avevano accompagnato) ad attendermi. Con un sorriso a trentadue denti mi fanno i complimenti e mi dicono che avrei parlato con un dirigente del Milan: sarebbe stato lui a dirmi tutto. Così vengo chiamato in un ufficio dal dirigente, e mi dice che da quel momento sono un calciatore del Milan a tutti gli effetti. Ovviamente se fossero andate bene tutte le visite mediche, che tutte le società fanno fare, di rito, per l’idoneità allo sport agonistico. E questo sarebbe successo ad agosto, all’inizio della nuova stagione. A quel punto salutiamo, riprendiamo il taxi e torniamo a casa.
Ricordo che l’attesa fu interminabile. Finché un giorno di agosto arriva un telegramma indirizzato a me. Diceva che il 17 del mese sarei dovuto essere a Milano, in via Turati (sede ufficiale della A.C. Milan), accompagnato da un genitore o da persona maggiorenne che ne avrebbe fatto le veci, perché c’erano da firmare alcuni documenti di responsabilità. A Milano mi accompagna zio Piero, fratello di mia madre. Per arrivarci prendiamo un taxi. Ricordo che arriviamo con circa dieci-quindici minuti di ritardo. Come entriamo nella sede del Milan ci ricevono due persone che ci spiegano tutta la situazione, dopo di che, accettate da entrambi le clausole del contratto, firmiamo. Passate circa due ore saluto mio zio che se ne torna a casa con il taxi che ci aveva accompagnato.
Io rimango lì, in una sala d’attesa. Poco dopo arriva una persona, lo riconosco: era Pierino Prati, giovane emergente che aveva già alcune presenze in serie A. Cominciamo a parlare; mi racconta tutta la trafila che aveva fatto fin lì, dalle giovanili del Milan, fino alle soglie della prima squadra. Mi dà dei consigli; mi dice di tenere duro perché la vita a Milanello non è poi così bella come un ragazzo può immaginare, ma rigida e monotona; e che, in questo, l’aveva aiutato molto la sua famiglia che spesso andava a trovarlo, stando con lui tutto il giorno. E se questo era consentito – l’avere visite – non lo era uscire, infatti non si poteva andar fuori, né di giorno, né di sera. Liberi avevamo solo due giorni la settimana, ed erano stabiliti, ogni volta, in base al giorno che giocavamo la partita: il sabato pomeriggio o la domenica mattina.
Mi chiama un dirigente e mi dice di andare con lui in ospedale per sostenere la visita medica e le varie analisi. Dalla visita risulto idoneo, ma occorre aspettare gli esiti degli esami per avere l’esito definitivo. Per questo bisognava attendere fino al giorno dopo. Ormai, avevo già percorso metà cammino per arrivare a firmare il tanto desiderato cartellino che mi avrebbe vincolato a questa società.
La sera mi portano a dormire in un albergo vicino a via Turati dicendomi che la mattina dopo sarebbero venuti a riprendermi. Infatti, verso le 9,30 arrivano e, dopo aver appreso dei risultati positivi delle analisi, mi portano a Milanello con un taxi, dove firmo i tanti sospirati documenti.
Subito dopo mi presentano al mister che, con stupore, scopro essere Cesare Maldini, padre di Paolo, attuale calciatore del Milan.
Cesare Maldini aveva cessato l’attività l’anno prima e gli avevano affidato una delle società giovanili. Ci parlo immediatamente; mi illustra il programma di allenamenti che avremmo dovuto svolgere; mi dice che saremmo stati diciotto elementi, nella rosa, e che da lì a tre giorni sarebbero arrivati anche gli altri che mancavano.
Difatti, dopo tre giorni dal mio arrivo, si aggregano anche quelli che mancavano. Ricordo che i ragazzi provenivano sia dal sud che dal nord. Altri, come me, dal centro Italia. Della Toscana c’era un ragazzo di Pistoia, uno di Altopascio e uno di Arezzo, ma di Firenze non c’era nessuno.
Ci viene consegnato tutto l’occorrente per gli allenamenti: tute, scarpe, maglie. Tutto a volontà. Ci portano negli spogliatoi e, a ciascuno di noi viene assegnato un armadietto privato. Ricordo anche che c’erano un sacco di custodi, come tanti erano gli addetti al ristorante, al bar e alle pulizie. Tantissimi lo erano alla cura dei campi da gioco che, in tutto, erano cinque. Ovviamente tutti dipendenti dell’Associazione Calcio Milan. Vi faccio presente che lì stavano tutte le squadre del Milan, dagli allievi alla prima squadra, per un totale di circa 900-100 unità, tra calciatori e addetti ai lavori.
Inizia, così, la preparazione, ma io già nutrivo dentro di me un malessere: il presentimento che non sarei durato molto a quel tipo di vita. Infatti, di lì a poco, chiedo al mister un colloquio; lo metto al corrente che la mia situazione psicologica è cambiata. Di fatto non provavo più quella sensazione di felicità che avevo all’inizio. Capisce che la mia famiglia, il mio paese, i miei svaghi mi mancano. Per questo mi dice di tenere duro, e di valutare il problema con calma, prima di prendere una decisione, perché una volta uscito i dirigenti avrebbero rescisso il contratto, ed io non avrei più potuto far parte del gruppo.
Da lì a poco la mia decisione è irremovibile: decido di tornare a casa. Riparlo con il mister, poi con i dirigenti; dopo di che riconsegno tutto il materiale assegnatomi, saluto e vengo via.
Così il contratto viene rescisso e torno a giocare a Montevarchi, fra lo stupore degli appassionati di calcio di Incisa, che avevano seguito con particolare interesse la mia avventura.
Ma ci sto poco a Montevarchi. Di lì a breve mi contatta l’AC Prato, società militante in serie C. Suoi rappresentanti vengono a parlare con me, mi illustrano la situazione e non mi chiedono neanche di fare un provino perché già mi conoscono. Ci penso un attimo ed accetto, perché Prato è a circa cinquanta minuti di treno da casa mia. Così nuovamente mi trovo a passare le visite mediche per iniziare una nuova avventura calcistica.
Qui termina il racconto della mia seconda strada, definita come la strada dell’illusione. Ho parlato molto di calcio, ma raccontandomi in tutta sincerità, facendo emergere anche le mie debolezze. Sia ben chiaro, sono un essere umano anch’io!

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