Opere di

Marina Ivanovna Cvetaeva

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Poesie tratte da “Poesie” – Ed. Feltrinelli 2009
(traduzione a cura di Pietro Zveteremich)

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Ai miei versi scritti così presto,
che nemmeno sapevo d’esser poeta,
scaturiti come zampilli di fontana,
come scintille dai razzi.

Irrompenti come piccoli demoni
nel sacrario dove stanno sogno e incenso,
ai miei versi di giovinezza e di morte,
versi che nessuno ha mai letto!

Sparsi fra la polvere dei magazzini,
dove nessuno mai li prese né li prenderà,
per i miei versi, come per i pregiati vini,
verrà pure il loro turno.

Koktebel, maggio 1913

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Oggi sono un ospite celeste
nel tuo paese.
Io ho visto l’insonnia del bosco
e il sonno dei campi.

Chissà dove nella notte, zoccoli
scalzano l’erba.
Ha tratto un pesante sospiro
una vacca nella stalla sonnolenta.

Racconterò a te con tristezza,
con tutta tenerezza,
dell’oca guardiana
e delle oche che dormivano.

Le mani affondavano nel pelame canino.
Il cane era – canuto.
Poi, verso le sei,
cominciò l’alba.

20 luglio 1916

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Come pupilla, nera; come pupilla, succhiante
la luce – ti amo, perspicace notte.

Dammi voce per cantarti, o progenitrice
delle canzoni, nella cui mano è la briglia dei quattro venti.

Chiamando te, te glorificando, io sono soltanto
una conchiglia dove ancora non s’è taciuto l’oceano.

Notte! Ho già scrutato a sazietà nelle pupille umane.
Inceneriscimi, nero sole – notte!

9 agosto 1916

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La spensieratezza è un caro peccato,
caro compagno di strada e nemico mio caro!
Tu negli occhi m’hai spruzzato il riso
e la mazurca mi hai spruzzato nelle vene.
Poiché mi hai insegnato a non serbare l’anello,
con chiunque la vita mi sposasse.
A cominciare alla ventura – dalla fine,
e a finire – ancor prima di cominciare.
A essere come uno stelo, ed essere come l’acciaio.
Nella vita, in cui così poco possiamo,
a curare la tristezza con la cioccolata
e a ridere in faccia ai passanti.

1918

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Ti ho versato nel bicchiere
una manciata di capelli bruciati,
perché tu non mangi, non canti,
non beva, non dorma.
Perché la giovinezza non ti sia gioia,
perché lo zucchero non ti sia dolce.
Perché tu non te la intenda nel buio della notte
con la giovane moglie.
Come i capelli tuoi d’oro
sono divenuti cenere grigia,
così gli anni miei giovani
diventeranno bianco inverno.
Perché tu diventi cieco-sordo,
perché ti dissecchi come il muschio,
perché ti dilegui come un sospiro.

3 novembre 1918

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La mia strada non passa vicino alla-tua casa.
La mia strada non passa vicino alla-casa di nessuno.

E tuttavia io smarrisco il cammino
(specialmente di primavera!)
e tuttavia mi struggo per la gente
come fa il cane sotto la luna.

Ospite dappertutto gradita,
non lascio dormire nessuno!
E con il nonno gioco agli ossi,
e con il nipote – canto.

Di me non s’ingelosiscono le mogli:
io sono una voce e uno sguardo.
E a me nessun innamorato
ha mai costruito un palazzo.

Le vostre generosità non richieste
mi fanno ridere, mercanti!
Da me stessa mi erigo per la notte
e ponti e palazzi.

(Ma ciò che dico – non ascoltarlo!
È tutto un inganno di donna!)
Da sola al mattino demolisco
la mia creazione.

Le magioni – come covoni di paglia – niente!
La mia strada non passa vicino alla tua-casa.

27 aprile 1920

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Alla mia povera fragilità
guardi senza sprecar parole.

Tu sei di pietra, ma io canto.
Tu sei un monumento, ma io volo.

Io so che il più tenero maggio
all’occhio dell’Eternità è nulla.

Ma io sono un uccello e non incolparmi
se una facile legge m’è imposta.

16 maggio 1920

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Dal ciclo «Cumuli di neve»

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Ampio letto per tutti i miei fiumi –
uomo estraneo
passante, nelle mani del quale – come dentro la neve,
con tutto l’ardore delle palpebre

colpevoli; al quale vado dietro e dietro,
verso il fragore dei carri che vengono incontro.
Amante che forse non c’è nemmeno,
(si consuma un sospiro – e non c’è più!)

estraneo uomo;
caro uomo,
giaciglio-uomo
per sempre-uomo!

Ignoto! – Con strutto di serpe, senza candele,
cuocere il pane nuziale.
Verso il tradimento! Nell’alveo delle separazioni, non degli incontri
ha da correre il mio fiume.

– All’appuntamento! – Ma se il mio discorso è oscuro –
giù dalle spalle una casa di pietra!
Sopra il fossato delle separazioni, il tubare degli incontri
del mio fiume il discorso…

Spazio-uomo:
di nessun dove-uomo,
attraverso il pavimento – un uomo,
un uomo che passa.

12 febbraio 1922

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Il poeta
(Dal ciclo «Dopo la Russia»)

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1

Il poeta – da lontano conduce il discorso.
Il poeta – lontano conduce il discorso.

Per pianeti, per segni… per botti
di indirette parabole… Fra il sì e il no
lui – persino volando giù dal campanile –
rimedia un appiglio… Poiché il cammino delle comete

è il cammino dei poeti. I dispersi anelli
della causalità, ecco il suo legame! Con la fronte in alto
disperatevi! Le eclissi dei poeti
non sono previste dal calendario.

Lui è quello che imbroglia le carte,
che inganna sul peso e sul conto;
lui è quello che domanda dal banco
chi demolisce Kant,

chi c’è nella bara di pietra della Pastiglia –
com’è l’albero nella sua bellezza…
Quello le cui tracce si dileguano sempre,
quel treno a cui tutti
arrivano tardi…

Poiché il cammino delle comete
è il cammino dei poeti: bruciando e non scaldando,
strappando e non coltivando – esplosione e scasso –
il tuo sentiero, crinieruto, storto,
non è previsto dal calendario.

8 aprile 1923

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Sogno

Mi sono interrata, obliata – ed ecco: come da una scala mille –
piedi alta senza ringhiere.
Con la rapacità d’un giudice istruttore e d’uno sbirro
tutti i miei segreti – il sogno ha dissotterrato.

I vulcani – parevano con certezza estinti –
non prestate fede alle morti delle passioni!
Con occhio vigile – come un giudice istruttore nella cella
– Morfeo percorre i cuori in lungo e in largo.

Voi! Miseria mentale al collettivo1
Voi che non precipitate dai tetti!
Sapeste come, giacendo sui piumini,
ci si trasfigura e ci si libra!

Si crolla! Come un guscio che s’incrina
è l’alcova2, con il suo carico di mariti e di mogli.
Con occhio vigile – come un aviatore su una nemica località
addormentata – sopra l’anima il sogno.

Corpo che tutte le sue porte ha sbarrato –
invano! Già i nuclei cantano lungo le vene.
Con la precisione d’uno sbirro e d’un chirurgo
tutte le mie ferite il sogno ha rovistato!

Disseccata! Neanche una fessura sotto la cupola,
dove potermi occultare ai profetici occhi
miei propri. Come un confessore venale
tutti i miei segreti – il sogno ha sconvolto!

24 novembre 1924

1 Scriveva la Cvetaeva: «C’è una particolare razza di sogni, direi: il massimo di vita consentita nel sogno… Del sogno – solamente gli occhi chiusi…» (luglio 1921). E ancora: «Il mio sonno non è riposo, ma azione, rappresentazione, di cui io sono spettatrice e attrice…» (1924)

2 Invece di «alcova» nel testo delle Izbr. proizv. si ha «vita».

✒ ✑ ✒

Alla vita

Non prenderai il mio colorito –
forte come le piene dei fiumi.
Tu sei il cacciatore, ma io non mi darò;
tu sei l’inseguimento, ma io sono la corsa.

Non prenderai la mia anima viva!
Così nel pieno galoppo delle cacce –
si china – e una vena
morde il cavallo
arabo.

25 dicembre 1924

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Dal «Poema della scala3»

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Le cose dei poveri. Forse la stuoia
è una cosa? Ed è una cosa – quest’asse?
Le cose dei poveri – pelle e ossa,
tutta carne, soltanto angoscia.

Dove le hanno prese? All’aspetto – da lontano,
dal profondo. Non affaticare l’occhio.
Le cose dei poveri – come dal costato:
l’ha ritagliate dal torace.

Lo scaffale? Un caso. L’attaccapanni? Un caso.
Un caso pure – questo fantasma
di poltrona. Cose? No, sterpi e rami secchi –
tutto un bosco d’ottobre per intero.

Timida mobilia della miseria!
Quanto vale tutta insieme? Un niente!
Da tempo cosa – palesemente in cielo!
Guardare te – fa male.

Da te, come dalle piaghe, è difficile
la vista peccaminosa distogliere.
Sedia viennese – ma che c’entra Vienna –
Chi? Quando? – terribile cosa.

Dalla migliore di tutte – qui disonorata
sarebbe – la casa? Macchè! – la soffitta
vostra. Soltanto qui è divenuta cosa
la cosa. Per voi un sopracciglio insorto a punto”?” –

sì, questo. Davanti al cencio importuno, vedovile,
che cosa? – il sopracciglio in su! (come un occhialino –
il sopracciglio!) È bravo a interrogare col sopracciglio
l’occhio. Certe volte anche l’occhio è un – oggetto.

Così, certe volte, è vuoto esso ed è arido –
l’occhio femminile, meraviglioso, grande,
tanto che – paragonate! – sembra spirito –
la tinozza , il catino col turchinetto – anima.

Alla pari col catino e col setaccio.
Sì – al re! Sì – in tribunale!

Ognuno, qui chiamato poeta,
quest’occhio ha conosciuto su di sé!

Della miseria – timida masserizie!
Ogni coltello – conosciuto di persona.
Come una creatura – che aspetta il mattino,
con qualcosa qui – con tutto fuori della finestra –

quella vuota, quella che dà – sui sobborghi –
quelli – hai letto la cronaca dei furti?
Cose della pulizia e dell’onore
segno di riconoscimento: non le accettano come bagaglio.

Perché è debole nelle giunture,
perché va in pezzi sotto gli occhi,
perché su cento carri
non si potrebbe trasportare…

in lacrime –

perché non è un tavolo, ma marito,
figlio. Non un armadio, ma il nostro
armadio.
Perché i cuori e le anime
non si danno al deposito bagagli.

Le cose dei poveri – più scipite e più secche:
più scipite del tiglio, più secche dei ceppi.
Le cose dei poveri – semplicemente – anime,
e per questo bruciano così facile.

luglio 1926

3 Scritto fra il gennaio e il luglio 1926, il poema è ispirato ai diseredati della grande città, Parigi, dove la Cvetaeva si era da poco stabilita. Le numerose e ampie variante trovate fra i manoscritti lasciano pensare che il poema avrebbe dovuto avere più ricco svolgimento di quello dato nel testo definitivo. In particolare, al motivo della scala, che è testimone e parte attiva nella vita del casamento di poveri, si aggiunge e trova sviluppo il tema della delle «cose» che si rivoltano e bruciano in un incendio, significando la fine di un sistema di vita.

✒ ✑ ✒

Il tavolo

1

Fedele mio tavolo di scrittura!
Grazie per essere andato
con me per tutte le strade.
Per avermi difeso – come una cicatrice.

Mio mulo da soma e da scrittura!
Grazie per non aver piegato le zampe
sono il carico, il fardello delle lacrime –
grazie per aver portato e portato.

Severissimo specchio di giustizia4
Grazie per questo, che ti sei messo
(alle tentazioni del mondo argine)
di traverso a tutte le gioie,

a tutte le bassezze – diniego!
Contrappeso di quercia
al leone dell’odio, all’elefante
dell’offesa – a tutto, a tutto.

Mio legno da vivo-mortale!
Grazie per questo, che sei venuto crescendo
con me, a misura dei lavori
da tavolino – ti sei ingrandito, dilatato,

a tal punto esteso – per larghezze
tali, che spalancata la bocca,
afferratami al bordo del tavolo…
mi allagavo come una spiaggia!

Inchiodatami a te con la prima luce –
grazie per questo, che dietro di me
ti scatenavi! Su tutti i percorsi
mi raggiungevi, come uno scià –

la fuggitiva.

«Indietro, alla sedia!»
Grazie per questo, che tutelavi
e costringevi. Ai non eterni beni
mi strappavi, come un mago –
la sonnambula.
Tavolo mio che le cicatrici
delle battaglie hai allineato in colonne
brucianti: purpureo delle vene!
Delle mie imprese colonna!

Colonna dello Stilita, otturatore delle labbra –
tu per me eri – trono, spazio –
colui per me sei stato che per il mare di folle
ebraiche fu l’ardente pilastro!

Sia dunque tu benedetto –
dalla fronte, dal gomito, dalla curva dei ginocchi
sperimentato – orlo del tavolo
come una sega penetrato nel petto!

luglio 1933

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4 Lo specchio che simboleggiava la giustizia nei tribunali della vecchia Russia.

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2

Trentesimo anniversario5
d’una unione – più sicura dell’amore.
Io le tue rughe conosco
come anche tu – le mie.

Delle quali – non sei tu – l’amore?
Tu che quinterno su quinterno hai divorato,
e hai insegnato che non c’è – un domani,
che solamente l’oggi – esiste.

E i soldi e le lettere della posta,
tavolo, hai gettato nella corrente!
E ripetevi che d’ogni riga
l’oggi – è l’ultimo termine.

Che minacciavi che col conto dei cucchiai
non si rende merito al Creatore,
che domani mi deporranno –
stupida che sono – sopra di te!

15 luglio 1933 – 30 ottobre 1935

5 Trentesimo anniversario dell’attività poetica della Cvetaeva che, come essa stessa ricorda nel racconto autobiografico “La casa del vecchio Pimen”, cominciò a scrivere versi ancora ragazza.

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3

Fedele mio tavolo di scrittura!
Grazie per questo, che il tronco
avendomi dato per diventare – tavolo,
sei tuttavia rimasto – vivo tronco!

Con il giovane gioco del fogliame
sul sopracciglio, con la viva corteccia,
con le lacrime di resina viva,
con radici sino in fondo alla terra!

17 luglio 1933

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Da «Versi per la Cecoslovacchia»

Da «Settembre6»

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1

C’è sulla carta – un posto:
guardaci – sangue al viso!
Si batte nel supplizio della croce
ogni villaggio.

L’ha diviso – come una scure –
il palo di confine.
C’è sul corpo del mondo
una piaga: tutto divorerà.

Dalla porta di casa – ai maestosi
mondi – ai nidi delle aquile –
per migliaia di quadrati
irrevocabili chilometri –

una piaga.
E adesso giace in riposo
il cèco: è sepolto vivo.
C’è nel petto dei popoli
una ferita: un nostro è ucciso!

Solo quel paese è detto
fraterno – pioggia dagli occhi!
Festeggia l’affare, tu, grasso!
Benissimo, è andata.

Grasso, onora Giuda!
Noi invece – che abbiamo un cuore:
c’è sulla carta un posto
vuoto: il nostro onore.

23 novembre 1938

6 Fu scritto a Parigi. Il ciclo rievoca i fatti del settembre 1938, quando la regione dei Sudati fu tolta alla Cecoslovacchia in seguito al patto di Monaco.

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Motivo biblico7

Nel buio si accosta di soppiatto alla città
l’astuto nemico.
Ma la sentinella sui merli della torre
il suo passo ha udito.

Afferra la tromba,
suona a squarciagola.
La notte si sveglia.
Tutti i cittadini – fuori
dal letto! Non si alza solo il morto nella bara.

E la spada
parla
tutta la notte.

Mischie in ogni casa,
davanti a ogni porta.

Per la madre, per la moglie!
Per la patria, per il popolo!

Per il diritto e per la libertà – sanguinosa battaglia.
Dio lo sa – moriremo o vinceremo.
Ma il suo dovere ha fatto la sentinella,
e il paese si inchina davanti a lei.

A chi non dormiva – onore!
A chi ha dato la notizia
che i ladri erano in casa –
onore a quella scolta!

Ma eterna rampogna,
ma eterna vergogna,
maledizione a colui –
che nella sua ora dormiva

e il suo paese ritrova
nel fuoco e nel fumo!

Mosca 1941

7 La poesia è un rifacimento in russo (non mera traduzione) d’una composizione del poeta yiddish Yishaq Peretz.

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