Opere di

Mariagrazia Distefano

Con questo racconto è risultata 1^ classificata – Sezione narrativa alla V edizione Premio di Scrittura creativa Lella Razza 2009


Il muro della diversità

Il tappeto giallo-arancio del soggior-
 no sembrava un prato al tramonto 
 fiorito di palloncini colorati che, al passare festante di Luca, si sollevavano appena. Matilde finì di gonfiare l’ultimo palloncino, quello su cui poi avrebbe disegnato un allegro faccino e scritto “Buon compleanno Luca”.
Sfinita, lasciò cadere supino l’esile corpo sul tappeto. Un tonfo: Luca, con la graziosa goffaggine che lo caratterizzava, le cavalcò lo sterno bloccandola a terra, mentre i palloncini si sparpagliavano in tutta la stanza come coriandoli. Da quando Luca aveva cominciato a camminare tutte le volte che Matilde, per qualche motivo, si trovava piegata o inginocchiata, lui le saltava addosso, poi lei trasformando la voce in quella stridula di una strega, con finto fare cattivo, lo mordicchiava dappertutto.
La scritta AUGURI, allestita da Matilde, dominava fiera l’angolo del soggiorno, appesa tra la porta e la finestra dalla quale penetrava un tiepido sole primaverile.
Un timido alito di vento portò dentro un delicato odore di zagara e con esso l’allegro e insistente canto pomeridiano degli uccelli.
La tenda arancione pallido, confezionata mesi prima con un taglio di stoffa comprato al mercato, si mosse con discrezione, quasi non volesse interrompere quel gioco simbiotico tra madre e figlio, ma il suo delicato spostarsi fu sufficiente a destare l’attenzione di Matilde la quale, mentre si rotolava insieme al figlioletto, guardò furtiva l’orologio ed esclamò:
«Le cinque… è tardi campione! Andiamo a vestirci» e tendendogli le mani lasciò che lui l’aiutasse a rimettersi in piedi.
Non c’era tempo per il bagnetto cui era abituato Luca, e Luca di abitudini ne aveva fin troppe. Appena si discostava da quelli che erano veri e propri rituali, crollava il mondo delle sue sicurezze. Ma non quel giorno, quel giorno era la sua festa, la sua prima vera festa, i compagnetti, infatti, dimenticavano sempre di invitarlo, Matilde, però non aveva dimenticato nessuno, tutti avevano ricevuto l’invito sul quale compariva data, ora e luogo della festa.
Quattro erano gli anni che oggi Luca festeggiava e da quattro anni inesorabile il vuoto circondava Matilde. La folla di finte amicizie che le ruotava intorno, vestì presto l’abito della commiserazione, altrettanto presto se ne spogliò dissolvendosi nel nulla.
La sua vita aggrovigliatasi come un vortice, prima l’ha inghiottita, poi l’ha scaraventata fuori in un mondo fatto di estremo, folle amore per quel bambino che la vita stessa le aveva regalato.
In bagno Matilde aiutò Luca a indossare i jeans e la maglietta di Dragon Ball che lo stesso Luca aveva scelto in un negozio in centro. Anche in quell’occasione su di loro gli occhi delle clienti non riuscirono ad andare oltre il semplice apparire, offuscati dai loro pregiudizi, dal loro impaurirsi o semplicemente dal loro disagio provato dinanzi a quello che è definita “diversità”.
La commessa, invece, una ragazza sulla ventina dagli occhi ridenti color cioccolata, si avvicinò a loro chiedendo:
«Posso esservi utile?» e incrociando lo sguardo di Luca, ricambiò divertita la linguaccia sgangherata che lui le faceva.
«Sì, grazie. Ci servirebbe qualcosa da fargli indossare il giorno del suo compleanno» disse Matilde, mentre accarezzava i capelli lisci e sottili di Luca.
«Sa, signora, anche mio fratello è…» e senza definirlo, come se il farlo potesse pungerle la lingua, continuò dicendo «…come lui. Come la capisco!»
Amaro destino esser compresi solo da chi ci assomiglia!
Poi, poggiando sul bancone due completi deliziosi, propose:
«Questi due potrebbero andare» e Luca con una fermezza mai mostrata prima, disse:
«Questo!» indicando quello che adesso Matilde finiva di fargli indossare.
Intanto, in soggiorno, un tavolo ricoperto da una tovaglia con ricchi ricami, unica eredità di famiglia, aspettava di essere oggetto di attrattiva per grandi e piccini, con le sue ciotole piene di salate e croccanti patatine di varie forme e gusti. L’odore del prosciutto e del formaggio, ospitati dentro morbidissimi minuscoli panini, stuzzicava sempre più l’appetito di Luca che aveva il divieto di toccare qualsiasi cosa prima che fossero arrivati gli invitati. Le bibite, tutte in frigo, erano in attesa di essere tirate fuori fresche, frizzanti, gradevoli al palato.
Matilde guardò ancora una volta l’orologio:
«Quasi le sei e ancora non si vede nessuno…» pensò, mentre sul divano si faceva più vicina a Luca e, assecondando l’ormai noto istinto di proteggerlo, lo strinse forte a sé. Ancora una volta soli. Ancora una volta l’uno accanto all’altra guardavano il solito episodio di Dragon Ball.
Luca scivolò piano verso Matilde affondandole il volto sul fianco sinistro: la prolungata attesa cominciava a stancarlo.
«Gattino mio, la mamma ti vuole tanto bene, sai?» gli disse Matilde, mentre delicatamente gli segnava con le dita della mano l’ovale del volto, lo stesso che per molti era oggetto di scandalo.
Seguì lentamente il contorno delle piccole labbra, poi del naso anch’esso piccolo e leggermente schiacciato, per arrivare poi alla linea orientaleggiante degli occhi.
Ancora uno sguardo all’orologio: le 18:15, l’ora in cui Luca era venuto al mondo. Matilde ripensò per un attimo al momento in cui per la prima volta i suoi occhi avevano incrociato quelli di suo figlio.
Lei sapeva, sapeva già che sarebbero stati come quelli di tanti altri bambini definiti sfortunati o, peggio ancora, mai nati, rei impotenti di una colpa non riconosciuta. Sapeva che sarebbe stata dura, ma non sapeva quanto.
Poteva solo immaginare il dolore, ma ignorava quanto esso potesse trafiggerla tutte le volte che, passando tra la gente, la sua pelle avrebbe percepito, come una brezza pungente, frasi di finto pietismo partorite da menti che non osavano emettere alcun grido. La tentazione di arrendersi le orbitava intorno senza tregua, ma lei tutte le volte sceglieva la strada a essa diametralmente opposta.
Per difendersi è stata costretta a indurire se stessa, a farne del suo cuore una roccia, e a giurare di non versare mai alcuna lacrima, ignorandone il suo alto potere benefico e liberatorio.
Lì, sul divano, accanto a suo figlio, i ricordi le bruciavano la mente, le gridavano “libertà!”, libertà dalla lunga prigionia in cui lei li aveva relegati per non soffrire, per sopportare, per guardare oltre. Prepotente, però uno scottava più degli altri: in un gelido pomeriggio di dicembre, seduto al bar, Giorgio, racchiuso nel suo giubbotto imbottito, mescolava cinicamente il suo caffè. Senza mai alzare lo sguardo, le diceva:
«Se lo tieni, perdi me…»
“Se lo tieni, perdi me ”: l’effetto incisivo procurato era quello di una corda di violino che, anziché vibrarle dentro serene melodie, le conficcava, come allora, innumerevoli aghi di dolore.
“Se lo tieni, perdi me”: significò perdere la quotidianità, la protezione di cui Matilde si era sempre nutrita, l’alibi di restare uguale nel logorio del tempo, senza possibilità alcuna di crescita e di responsabilità, ma non significò perdere l’amore, l’amore non poteva essere quello, l’amore non era quello.
Il vuoto che l’aveva circondata pian piano lo fece diventare spazio, spazio per i pianti, i sorrisi, le paure di suo figlio, per i suoi abbracci, per le opportunità mancate, per le difficoltà che lui, come ogni altro bimbo Down, avrebbe incontrato nel corso della sua vita.
Quando Matilde guardò per la prima volta bere suo figlio dai suoi seni, giurò a se stessa che sarebbe stata per lui valido sostegno, vivida fonte di stimoli e tenerezza e che avrebbe cercato di abbattere il muro della diversità che di sicuro li avrebbe tenuti lontani dalla quotidianità della gente comune.
Più Matilde, però martellava più i calcinacci le sbattevano in faccia procurandole sanguinose ferite all’anima. Non solo, gli stessi calcinacci attratti da un inespugnabile campo magnetico ritornavano al loro posto irrobustendo e innalzando ancor più quel muro. Così Matilde quel giorno doveva ammettere il proprio fallimento. Non ce l’aveva fatta, il muro non era stato abbattuto, infatti, alle 18:40 ancora il citofono taceva e, ormai sconfitta, Matilde guardava rammaricata Luca scomodamente addormentato sul divano.
Si alzò con pesante lentezza, si avviò verso la finestra e senza fare rumore la serrò, lasciando fuori l’aria ormai fine e fredda e con essa il mondo che continuava a respirarla.
Poi si voltò verso il tavolo, mangiò una patatina ingoiando con essa una grande amarezza e, mentre riportava la ciotola in cucina, suonò il citofono:
«Sì, chi è?» chiese Matilde scettica.
«Matilde, sono Marta, abbiamo fatto un po’ tardi, la festa è finita?» chiese con voce metallica la mamma di Chiara, una compagnetta di Luca.
«No, salite pure. Ultimo piano» rispose Matilde, la quale riagganciando il citofono si avviò in tutta fretta all’ingresso.
Un cigolio, accompagnato da un sordo fischio, annunciò il funzionamento dell’ascensore. Mentre Matilde osservava le robuste corde che avrebbero portato su le attese ospiti, pensò di nuovo a quel muro: non era stato abbattuto, era stato appena scalfito, ma era pur un inizio.
Piccoli colpi insistenti richiedono più tempo, è vero, ma anch’essi possono avere l’effetto di una forte martellata e i calcinacci in faccia non fanno poi così male se curati a dovere.
Matilde chiacchierò con Marta, mentre Chiara giocava con Luca a rincorrere i palloncini. Ci misero un po’ a smaltire chiacchiere e patatine. Poi a tarda sera Matilde mise a letto Luca ormai stremato.
«Mamma, grazie» le sussurrò, in un linguaggio che solo lei poteva comprendere, poi giratosi su un fianco, cadde in un sonno profondo.
Matilde spense la luce e uscì dalla stanza, si avviò lungo il corridoio, entrò in soggiorno, si guardò intorno: la festa era stata fatta.
Poi, finalmente, pianse.


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