Un giorno ci sarà il sole

di

Maria Paola Graziani


Maria Paola Graziani - Un giorno ci sarà il sole
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 389 - Euro 16,00
ISBN 978-88-6587-3250

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In copertina fotografia dell’autrice


Prefazione

Vi sono momenti in cui vorremmo fermare il tempo o, quanto meno, fissarlo per sempre con la scrittura per fare in modo che non vadano persi i momenti meravigliosi, così come i ricordi di esperienze vissute che hanno contrassegnato il nostro cammino.
A volte, sono i racconti di un padre che fa partecipe la figlia delle vicende della sua vita: è il caso di questo libro dal titolo profetico, che si fa annuncio luminoso, auspicio che “un giorno ci sarà il sole”.
Si capisce subito che Maria Paola Graziani ha scritto il “suo” libro con amore ed è l’amore di una figlia per il padre, figura che si tramuta in “esempio di vita”: il riconoscimento letterario dell’orgoglio d’appartenenza ad una famiglia.
Ad un certo punto, da parte sua, scatta il desiderio di scrivere e narrare tutto ciò che aveva ascoltato dal padre nei numerosi pomeriggi trascorsi insieme ed ecco che, meravigliosamente, prende vita questo libro che possiamo definire, senza dubbio, un “gesto d’amore”.
Il romanzo memoriale, logicamente, è incentrato sulla figura del padre Vittorio, sulla storia della sua famiglia e sulle connesse vicende esistenziali, ma è anche un formidabile frammento di alcuni periodi storici e politici, soprattutto l’avvento del regime fascista con la Guerra d’Africa e poi l’entrata in guerra dell’Italia, che ha segnato la vita del nostro Paese.
Le stesse vite dei protagonisti verranno coinvolte in questi incalzanti eventi drammatici che incideranno, più o meno, sui loro destini.
La narrazione sarà un viaggio a ritroso nel tempo, con varie rappresentazioni e multiformi protagonisti, legati ad una visione che non assume mai i toni nostalgici, ma rappresenta un diario storico sulla vita che segue il suo corso: emerge la consapevolezza che la speranza d’un domani migliore non deve venire meno, che non bisogna arrendersi, ma lottare, fino alla fine, per raggiungere la sospirata meta.
Maria Paola Graziani vuole “fermare i ricordi” che sono la sostanza stessa di ciò che siamo ora, nel presente, e, in definitiva, si immerge nella narrazione, con anima e corpo, per far rivivere le figure di donne e uomini che sono state la linfa vitale di un’avventura umana.
Tutto ciò che leggerete fa parte di quel desiderio di ripercorrere gli avvenimenti che sono le “radici della sua storia”, del suo “essere”, della sua appartenenza ad una famiglia, come scrive l’Autrice nella presentazione a questo libro, che nasce e rimane un “romanzo familiare di sentimenti”, nonostante le travagliate vicende che vengono ricordate e rivissute.
I ricordi sono un tesoro da custodire e preservare dalle ingiurie del tempo ed il recupero memoriale ci aiuta a comprendere meglio la realtà in cui viviamo: e troverete molte pagine che confermeranno questa idea.
La storia inizia quando, durante la festa della “Sfoglieria”, nell’agosto del 1934, Anna Lineri conosce Benito Cassini. Siamo nel paese di Popolano, piccola frazione del comune di Marradi, “uno degli ultimi paesi nella provincia di Firenze verso la Romagna”.
Anna era una ragazza intelligente e molto bella, dolce e sensibile. Benito era “piccolo” ma con un fisico solido, lavorava come muratore, era un uomo generoso e simpatico ma irascibile: erano stati i suoi occhi verdi ad incantare Anna. Si erano innamorati e avevano deciso di sposarsi ma, Benito voleva offrire una vita migliore e aveva deciso di andare a lavorare in Eritrea con una ditta di costruzioni e questo nonostante il fatto che Anna fosse incinta: logicamente, dopo il lungo protrarsi del suo ritorno, lei s’era convinta fosse una fuga, un modo per sottrarsi alle sue responsabilità e doveri di padre, insomma, un atto di “vigliaccheria” che aveva lasciato in dono solo un anello come pegno d’amore per il ritorno.
Purtroppo, nell’ottobre del 1935, inizia la guerra in Eritrea e Benito non può tornare a causa del conflitto e, quindi, decidono di sposarsi per procura anche perché, a breve, nascerà Vittorio.
A causa di invidie, dopo qualche tempo, Anna sarà perfino accusata da Benito di tenere per sé buona parte dei soldi che lui le spedisce, ma sarà il destino a porre il sigillo e lei si troverà da sola a dover pensare al piccolo Vittorio.
Con l’inizio della seconda guerra mondiale la situazione si fa sempre più drammatica, tra privazioni e povertà, quindi, lei decide di andare a Firenze per cercare un lavoro e, dopo qualche tempo, conoscerà l’avvocato Augusto Tonini, uomo “timido e ritroso”, ma bravo e generoso: in poco tempo si innamorano.
Il figlio Vittorio, che è rimasto a Popolano, come un bravo ragazzo, inizia a lavorare nella sartoria del buon Giacomo, ma Anna ama suo figlio con tutto il cuore, vuole averlo vicino anche a Firenze e riesce a trovargli un lavoro dal sarto di fiducia del suo amato Augusto.
Da questo momento il racconto sarà costellato da varie vicissitudini, ma lascio al lettore scoprire come la vita può fare male, eppure, molte volte può anche sorprendere, illuminare l’anima e scaldare il cuore.
È inutile dire che il bravo Vittorio troverà l’amore della sua vita e constaterà che era vero ciò che diceva sempre sua nonna Isolina: “vedrai che un giorno ci sarà il sole”.
La scrittura di Maria Paola Graziani ha il tono colloquiale e amorevole come quando si racconta un pezzo della propria vita e si capisce che c’è grande attenzione anche ai particolari, ai minimi dettagli, che hanno sempre più importanza, al contrario di ciò che si crede.
La sua volontà di far rivivere, in modo genuino e limpido, alcune vicende e struggenti ricordi si miscela con la magia dell’amore e dei sentimenti autentici: a ben vedere, in tutta la narrazione, è l’amore che riesce a “salvare”, e, poco importa che, poi, in alcuni casi, il destino non sia favorevole.
Ciò che conta è credere nell’ideale dell’amore.
Con le sue parole avvolgenti, Maria Paola Graziani coinvolge nella narrazione familiare e dimostra come la vita sia, sovente, cosparsa da un numero cospicuo di ostacoli, ma, con volontà, forza d’animo e coraggio, dobbiamo superarli e continuare a vivere, fino a trovare la “serena felicità”.
Il libro diventa la “vita” stessa, prima vissuta e, poi, scritta: Maria Paola Graziani ci mette il tocco della sua magia.

Massimo Barile


Un giorno ci sarà il sole


«La scrittura per me è un tentativo disperato di preservare la memoria. I ricordi, nel tempo, strappano dentro di noi l’abito della nostra personalità, e rischiamo di rimanere laceri, scoperti. Così scrivere mi consente di rimanere integra e di non perdere pezzi lungo il cammino».

(Isabel Allende)


A Stefano Mancini, il mio raggio di sole
A Benedetta e Giovanni Marchi, i miei tesori


Introduzione

Spesso, in questi ultimi anni, mi sono ritrovata a pensare, con affetto e nostalgia, alle tante ore passate con il mio babbo che mi raccontava gli episodi della sua vita. Trascorrevamo così pomeriggi interi: lui a raccontare, a volte lo stesso fatto più di una volta, sempre però con la stessa partecipazione e accoramento di chi ha vissuto delle vicende rimaste indelebili; io ad ascoltare e a bere quella marea di storie, che mi sembravano favole accadute a chissà chi, in un posto e in un tempo lontano, non certo al mio babbo che era lì con me a parlare, tanto mi sembravano a volte incredibili. Ogni tanto, quando per qualche motivo si interrompeva il racconto, io commentavo così il mio interesse: “Babbo, bisognerebbe scrivere un romanzo su quello che mi racconti.” La mia frase, buttata là per dare rilievo a quello di cui mio padre mi parlava con tanta passione e che era stata la sua vita, rimaneva sospesa nell’aria, senza aver mai trovato un’attuazione. Ed è rimasta sempre lì in sospeso, fino a quando, otto mesi fa, non mi è venuto il desiderio prorompente di mettere su carta quello che lui mi raccontava nei nostri pomeriggi insieme.
Purtroppo il babbo da undici anni non è più in vita e forse anche per evitare il rischio che, piano piano, i suoi ricordi passati a me nei suoi racconti, sbiadissero e svanissero, ho voluto fissarli e fermarli nelle pagine di un libro.
Ho scritto questo romanzo ispirandomi a tutto quello che mi ha narrato. La linea conduttrice della storia si basa proprio sulla sua vita, anche se ovviamente, non avendolo più vicino a raccontarmi maggiori dettagli e a ricordarmi certi particolari, ho dovuto mettere anche molta della mia fantasia nella sua costruzione e sviluppo. Per questo motivo, non essendo in grado di riportare i fatti per filo e per segno, non ho dato i nomi reali ai personaggi che ruotano intorno a Vittorio, ma ho usato nomi inventati. L’unico che si chiama con il suo nome vero è proprio il mio babbo, Vittorio. Infatti gli fu imposto questo nome per una scelta ben precisa, dettata da un particolare contesto storico che esisteva al momento della sua nascita, fatto che non potevo omettere nell’ambito della vicenda.
I luoghi dove è ambientata la storia sono quelli reali, che anch’io conosco e dove sono stata tante volte, anche se io li ho visti in epoche più recenti e non con le stesso fascino e caratteristiche dei tempi passati.
Il mio intento è stato quello di fermare i ricordi, che sono parte integrante di noi stessi, e ridare vita, attraverso le pagine di un libro, a persone che purtroppo non ci sono più e che sono state fondamentali per arrivare a quello che esiste attualmente, anelli di una catena di vite che ci porta fino ad oggi.
Anche se alcune persone di questa romanzo non le ho neppure conosciute, perché decedute prima della mia nascita, e ne ho sentito soltanto parlare dal babbo e dagli altri parenti, ne ho voluto raccontare le vicende perché sono state le radici della mia storia, del mio essere e della mia famiglia.
Oltre a ripensare ai racconti di mio padre per la stesura del libro mi sono avvalsa dell’aiuto di alcune persone che voglio apertamente ringraziare.
Prima fra tutti, ringrazio la signora Teresa Gentilini, amica fin dall’infanzia di mio babbo, che mi ha narrato fatti e aneddoti, spesso nuovi ed emozionanti anche per me, di cui neppure lui mi aveva mai parlato. Con la sua memoria fervida ed il suo coinvolgente modo di raccontare le storie, è stata un aiuto veramente prezioso.
Ringrazio i miei zii Pierluigi e Carlo Marchi, che nel 2009 hanno realizzato un opuscolo per ricordare e celebrare i 50 anni dalla morte del loro prozio don Pietro Poggiolini, il Priore di Popolano. Dalle pagine di questa loro opera, una raccolta di testimonianze sull’esistenza di un sacerdote che ha avuto un grande peso sulla vita della comunità a lui affidata dal 1933 al 1959 e che ha segnato profondamente e positivamente le persone che lo hanno conosciuto, ho tratto tante notizie preziose e rinfrescato numerosi ricordi di cui avevo sentito parlare soprattutto dalla nonna materna.
Ringrazio e rendo omaggio alla memoria del signor Loli Antonio, detto Arigo, un popolanese che, al compimento del suo novantesimo compleanno scrisse un libro intitolato “Un viaggio lungo novanta anni”; lo conservo gelosamente tra i libri più cari, un vero e proprio scrigno di memorie di vita vissuta, che mi ha aiutato a saperne di più su tanti aspetti della vita quotidiana di allora.
Naturalmente ringrazio la mia mamma e tutti gli altri parenti che, sia in questa occasione che nel tempo passato, hanno contribuito, con il rievocare vicende della loro vita di un tempo, a mantenere sempre vive in me la conoscenza e la consapevolezza delle mie origini.
L’omaggio più grande e sentito va infine a mio babbo, Vittorio, che oltre a farmi partecipe della sua vita passata, mi ha lasciato, con il suo esempio di vita, un grande insegnamento e principio, che vuol essere anche il succo di tutto il romanzo: è dalle cose piccole e semplici della vita quotidiana che si trae la forza per andare avanti e si può cogliere la vera essenza della felicità.


1.

Era un fresco pomeriggio di fine giugno. Il sole splendeva nel cielo terso, il vento soffiava leggero e muoveva dolcemente le verdi chiome degli alberi intorno alla casa. La guerra era finita da quasi un anno e la vita del paese stava tornando lentamente alla normalità.
Vittorio, nell’incoscienza dei suoi otto-nove anni, aveva vissuto il periodo del secondo conflitto mondiale, che non aveva risparmiato il suo paese e dintorni da violenti bombardamenti, come una folle avventura, in cui si era ritrovato a scappare da un rifugio all’altro, insieme agli “sfollati”, a pedalare per 4 km, da un podere fino alla casa del dottore, sotto il sibilo delle bombe che cadevano, a vedere, di notte, la campagna illuminata a giorno dal bagliore dei bengala. Ma soprattutto ricordava, con tanta nostalgia e simpatia, l’arrivo degli Inglesi che, in cambio dell’indicazione di dove trovare femminile compagnia, riempivano Vittorio di stecche di cioccolata.
La guerra aveva messo in ginocchio le famiglie che cercavano di riprendere le loro attività, ma la miseria era ancora una situazione dura da combattere quotidianamente e mettere insieme un pranzo ed una cena era spesso un’impresa ardua.
La famiglia di Vittorio non era esente da queste difficoltà.
In quel pomeriggio il bambino era in casa, seduto su uno sgabello davanti alla finestra della sua camera, a leggere un giornalino per ragazzi, vecchio di qualche anno, che gli aveva prestato il suo caro amico Cesare.
A Vittorio, nonostante la giovane età, piaceva molto leggere, e ogni tanto andava al piano di sotto della sua abitazione, dove si trovava la biblioteca ben fornita del signor Federico, che viveva proprio lì, nello stesso palazzo, con la sorella Lina, e che era ben felice di incoraggiare alla lettura quel giovinetto molto perspicace e molto più maturo della sua età.
Mentre voltava la pagina del giornalino, sentì in lontananza lo scampanellio del carrettino del gelato di Cecco, un uomo secco secco e pallido, che per due volte alla settimana partiva dal suo negozio di dolci nel paese vicino e percorreva, con il suo carrettino a pedali, la strada statale, toccando tutte le case e le frazioni che vi si trovavano, fino al bivio che portava verso il confine tra la provincia di Firenze e la provincia di Forlì.
All’udire quel suono amichevole e allegro, Vittorio si scosse dalla lettura e dalla sonnolenza del pomeriggio e si sporse dalla finestra per vedere dove si era fermato il carrettino di Cecco. Nello stesso tempo sentì risa e grida di ragazzi che si chiamavano mentre correvano a comprare il tanto desiderato gelato.
“Vittorio, Vittorio vieni, vieni a prendere il gelato!”
Il fanciullo salutò con la mano il suo amico Cesare e a sua volta gli gridò “Aspetta un attimo!” Poi con foga corse dalla nonna Isolina che si trovava in cucina, seduta accanto alla finestra, mentre stava rammendando dei calzettoni del nonno.
“Nonna, nonna posso andare a comprare il gelato che è arrivato Cecco?”
Chiese con veemenza e, senza aspettare risposta, aggiunse di seguito:
“Nonna, nonna mi dai 2 soldi?”
“Poverino!” disse la nonna “Non ce l’ho!” e continuò imperterrita il suo lavoro senza dire altro.
Vittorio, a quella risposta non ribatté e non insisté oltre, perché tanto sapeva che sarebbe stato inutile continuare a chiedere e protestare. Infatti i soldi non c’erano veramente e i pochi disponibili servivano per il pane quotidiano e non per una merenda golosa.
Il ragazzino si sedette rassegnato al tavolo della grande cucina, confortato dalla sicurezza che gli infondeva quell’ambiente della casa. Amava particolarmente il profumo di quelle pareti grigie che, nonostante il grande focolare fosse spento, erano impregnate del sentore della legna bruciata.
E poi era affascinato dall’immenso camino, in cui si poteva entrare dentro, come fosse una stanza nella stanza, e stare seduti ai suoi lati sulle panche di pietra. Sopra il focolare era sempre attaccato il grande paiolo di rame, che in quel momento era vuoto.
Sulla stufa a legna, appoggiata alla parete di fronte alla finestra, c’erano delle pentole piene d’acqua, usata come scorta per non andare continuamente al pozzo con le mezzine. Attaccati al bordo c’erano mestoli di varia forma e misura e diversi canovacci colorati.
Vicino alla stufa c’era la poltrona di nonno Giuseppe, dove si sedeva tutti i giorni al ritorno dal lavoro di muratore e riposava un po’ le membra stanche. Piegata sulla poltrona, rivestita di stoffa marrone scuro, c’era la coperta fatta ai ferri dalla nonna, formata da tanti riquadri colorati, cuciti insieme, ognuno di un tipo di lana e colore diversi.
Sulla parete di fronte al camino si trovava la capiente madia, dove la nonna faceva il pane quando c’era farina a disposizione. Purtroppo non era possibile comprare spesso la farina, ma nelle occasioni in cui veniva fatto e cotto il pane in casa, il profumo era veramente inebriante e per Vittorio era una vera festa.
Sulla parete accanto alla finestra era stata messa una credenza di legno scuro, con gli sportelli in basso e la vetrina nella parte alta, dove la nonna conservava gelosamente dei servizi di piatti e tazzine che aveva ricevuto in regalo da una signora presso cui era stata a servizio per qualche anno a Firenze.
Dall’altra parte della finestra c’era l’acquaio in pietra, ma senza cannella per l’acqua, perché ancora non era stata portata nelle case. Vi erano appoggiate le mezzine di rame per andare a fare la provvista di acqua al pozzo nella piazzetta di fronte.
Ecco, questa era la stanza della casa in cui Vittorio si sentiva bene e dove provava un senso di serenità e conforto.
Quello era il luogo dove alla fine della giornata si ritrovavano tutti i membri della sua famiglia, attorno al grande tavolo rettangolare che poteva arrivare ad ospitare, aggiungendo due assi, fino a dodici persone. Infatti una volta avevano fatto lì il pranzo del Battesimo del bambino di una parente del nonno.
Tutte le sere era presente oltre a Vittorio, al nonno Giuseppe e alla nonna Isolina, lo zio Angiolino. Poi, dopo cena, nelle serate d’inverno, venivano anche il signor Federico e la sorella Lina, la zia Alda con il marito Sandrino ed altre persone del paese amiche dei nonni e degli zii, e seduti tutti intorno al camino, facevano la “veglia.”
Non appena la temperatura diventava più mite, la veglia si spostava nella piazzetta sottostante, sulle panchine vicine al pozzo, di fronte alla “chiesina.”
Durante queste veglie si parlava di tutto e di più, anche se l’argomento principale era la vita del paese e i vari avvenimenti che coinvolgevano questa o quell’altra famiglia. Vittorio solo d’inverno partecipava alla veglia con gli adulti, anche se a volte era presente solo fisicamente, mentre la sua mente se ne andava per i fatti suoi e non prestava attenzione ai discorsi. Soltanto quando si parlava di spiriti, allora era ben attento ad ascoltare i racconti che si facevano sul fatto che, in dialetto romagnolo “os véd’ roba”, vale a dire letteralmente “si vede roba”, ovvero le persone vedevano, o credevano di vedere, strane manifestazioni che coinvolgevano animali, persone, oggetti, il cui verificarsi era ricondotto inevitabilmente al mistero e al mondo dell’aldilà. A sentire quelle storie, il fanciullo ne era affascinato ma allo stesso tempo provava una grande paura e inquietudine che poi gli impedivano di andare a letto da solo, aspettando il nonno, la nonna o gli zii per essere accompagnato fino alla sua camera, divisa dalla cucina da un lungo e largo corridoio.
Ad un tratto la nonna alzò la testa dal suo rammendo e disse al bambino che se ne stava seduto lì accanto un po’ mogio:
“Vedrai Vittorio, vedrai che un giorno ci sarà il sole!”
A sentire quella frase, che spesso la nonna ripeteva in varie occasioni all’interlocutore di turno oppure tra sé e sé , Vittorio non replicò e si chiese in silenzio, nell’ingenuità e nella spensieratezza della sua giovane età, cosa la nonna intendesse dire.
La nonna riprese il suo lavoro e lui se ne tornò sullo sgabello accanto alla finestra della sua camera; si mise a scrutare l’orizzonte, dove si vedeva il profilo nitido delle montagne dell’Appennino, spostando di tanto in tanto lo sguardo sulle case del suo paese.


2.

Vittorio amava intensamente il suo paese, Popolano, un piccola frazione del comune di Marradi. Le case si distendevano ai lati della strada statale, nell’ampia vallata del fiume Lamone, ma il cuore del paese era costituito dal borghetto di case intorno alla chiesa parrocchiale, situata in una posizione più alta rispetto alla strada principale. Infatti il campanile della chiesa si scorgeva fin dalle prime curve dopo Marradi e con la sua solidità si intonava perfettamente con le colline intorno che lasciavano presto il posto agli imponenti monti dell’Appennino. Popolano era uno degli ultimi paesi nella provincia di Firenze verso la Romagna e, nonostante ricadesse nella regione Toscana, la gente si considerava già romagnola e ne parlava abitualmente il dialetto.
Vittorio fin da piccolo aveva parlato il dialetto e poi la maestra Elsa, a scuola, gli aveva fatto conoscere meglio l’italiano, materia in cui era bravissimo tanto che, nonostante facesse la terza elementare, leggeva correntemente e vinceva sempre nelle gare di lettura con i compagni. Inoltre eseguiva dei bellissimi componimenti che la maestra premiava sempre con ottimi voti. La Signora Elsa, detta affettuosamente “la maestrina” per la sua corporatura minuta e la bassa statura, gli aveva anche insegnato che l’Italia era formata da regioni e che faceva parte dell’Europa e gli aveva fatto studiare le cartine sul sussidiario, ma per Vittorio solo Popolano era il suo mondo, altro posto non esisteva. Ogni tanto andava a Marradi, il paese vicino più grande, a fare la spesa al mercato con la nonna o gli zii o a trovare dei parenti, ma non lo considerava più di tanto. La sua vita era a Popolano, nelle sue stradelle, nella sua piazzetta, nel suo ponte, nel suo fiume, nei poderi intorno, nello spiazzo di fronte alla chiesa, nella canonica, dove partecipava al catechismo per ricevere il sacramento della Cresima prima e della Comunione poi, e dove faceva assiduamente il chierichetto con la tonaca troppo lunga che ogni tanto pestava rischiando di inciampare. I luoghi per giocare con gli amici erano tutti buoni, soprattutto nella stagione calda, mentre d’inverno la neve, che stazionava nel paese per diverso tempo, limitava molto le uscite, a causa anche di un abbigliamento non molto adeguato per stare all’aperto con le temperature rigide. Vittorio infatti possedeva solo un cappotto che ovviamente poteva indossare solo la domenica per andare alla Messa, mentre durante la settimana metteva solo dei maglioni sull’unico paio di pantaloni di stoffa più pesante e ai piedi calzava gli zoccoli di legno.
Sugli ampi prati intorno al paese si poteva vedere il ciclico lavoro dell’uomo nelle zolle di terra arata, nel tenero verde dell’erba, nel biondeggiare del grano, punteggiato dal rosso dei papaveri, nelle distese degli alberi da frutto che esplodevano di colore in primavera. E anche dove si saliva in collina, i riquadri della terra lavorata componevano un mosaico di tessere perfettamente combinate. Qua e là, sui prati e le colline, o in cima al monte, accanto ad un gruppo di cipressi o castagni, sorgevano i poderi che costellavano il panorama con il bianco delle solide case. Lì vivevano delle famiglie molto numerose, che vedevano la convivenza di varie generazioni, con il patriarca, i figli e le figlie con le rispettive mogli e mariti, i nipoti, insieme ai braccianti che vi si trasferivano per le lavorazioni. Erano delle vere e proprie comunità e, ora nell’uno, ora nell’altro podere venivano organizzate “veglie” speciali o feste, sia legate alla vita della famiglia, sia legate alle attività della terra, a cui partecipava tutto il paese. Anche Vittorio non mancava mai un’occasione, anche perché erano questi i momenti in cui si poteva mangiare in abbondanza, ogni bendiddio. Infatti nei poderi il cibo non mancava ed era quasi una gara a chi preparava più roba nelle varie feste. Di solito c’era pasta fatta in casa di ogni foggia, sia asciutta che in brodo, polli e conigli arrosto o in umido, con vassoi enormi di patate arrosto. Per non parlare dei dolci dagli ingredienti più svariati. Per Vittorio era una festa nel vero senso della parola vedere e mangiare tutte quelle pietanze e a volte, nella foga della fame e della golosità, finiva poi per sentirsi male per aver fatto indigestione. Le feste erano accompagnate da tanta allegria e si dimenticavano le difficoltà della vita quotidiana, dove c’era da affrontare il duro lavoro e fare tanti sacrifici. Non mancava mai qualcuno che suonava la fisarmonica per cantare insieme e lanciarsi in qualche valzer. Vittorio e gli altri ragazzi erano liberi di correre e giocare nell’aia con il sottofondo dell’allegra compagnia degli adulti.
Nel paese vi erano altre feste, fra sacro e profano, che allietavano lo spirito ed il palato.
Le più importanti e sentite erano la “Festa della Madonnina” l’8 di settembre. In quell’occasione Vittorio si incolonnava nella processione che partiva dalla “Chiesina” della piazzetta, all’imbrunire, e, insieme agli altri bambini, subito dietro al priore, teneva in mano il suo flambò di carta colorata che diffondeva la luce della candela dandole la sua stessa tenue tonalità di colore. La cosa difficile era tenere dritta la candela, rischiando altrimenti di incendiare il flambò, e questo per i ragazzini che si spingevano e si strattonavano l’un con l’altro, tra un’Ave Maria ed un Padre Nostro, diventava un’impresa ardua da superare. Oltretutto, se veniva bruciato il flambò si rischiava lo scappellotto del parente adulto che si trovava più vicino nella processione. Infatti, dopo i ragazzi del catechismo, seguivano le donne e, a chiudere la colonna di gente, c’erano gli uomini. A vederla da lontano la processione sembrava un lungo serpentone punteggiato di lumini colorati che si inerpicava sulle curve della stradina sterrata, costeggiata di cipressi, che portava al tempietto della “Madonnina.” Una volta arrivati, le persone si disponevano a semicerchio davanti alla colonnina di mattoni, dove era incastonata una immagine di ceramica della Madonna Addolorata, ed il priore, al centro, affiancato da altri sacerdoti della zona, impartiva la benedizione. Dopo, tutti tornavano nella piazzetta, dove alcune donne avevano preparato i tavoli con le teglie di ciambella e le damigiane di vino, per finire la serata in allegria.
Era festa grande anche il giorno di Ferragosto. Innanzitutto in quell’occasione Vittorio poteva andare alla Messa e mettere i pantaloni e la camicia più nuovi e soprattutto i sandali di cuoio, anziché gli zoccoli come tutti gli altri giorni. Poi a pranzo poteva mangiare finalmente la carne, agognata per tanto tempo, che poteva essere lo spezzatino con le patate o il pollo o il coniglio arrosto. Infine la sera, dopo la processione, che vedeva una marea di persone snodarsi per le vie del paese, dietro all’immagine dell’Assunta, portata a spalla da quattro uomini, nella bella piazza davanti alla chiesa parrocchiale, venivano distribuiti dolci di ogni tipo e vino in abbondanza, mentre la banda si esibiva nel suo repertorio completo. A Vittorio piaceva particolarmente la musica della banda perché gli metteva subito addosso, dalle prime note, una sensazione di allegria e di festa.

[continua]


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