Opere di

Marguerite Yourcenar

Testi tratti da «MEMORIE DI ADRIANO», Giulio Einaudi, Torino, 1963


Animula vagula, blandula,
Hospes comesque corporis,
Quae nunc abibis in loca
Pallidula, rigida, nudula,
Nec, ut soles, dabis iocos…

P. Aelius, Hadrianus, Imp.


Mio caro Marco,

Sono andato stamattina dal mio medico, Ermogene, recentemente rientrato in Villa da un lungo viaggio in Asia. Bisognava che mi visitasse a digiuno ed eravamo d’accordo per incontrarci di primo mattino. Ho deposto mantello e tunica; mi sono adagiato sul letto. Ti risparmio particolari che sarebbero altrettanto sgradevoli per te quanto lo sono per me, e la descrizione del corpo d’un uomo che s’inoltra negli anni ed è vicino a morire di un’idropisia del cuore. Diciamo solo che ho tossito, respirato, trattenuto il fiato, secondo le indicazioni di Ermogene, allarmato suo malgrado per la rapidità dei progressi del male, pronto ad attribuire la colpa al giovane Giolla, che m’ha curato in sua assenza. È difficile rimanere imperatore in presenza di un medico; difficile anche conservare la propria essenza umana: l’occhio del medico non vede in me che un aggregato di umori, povero amalgama di linfa e di sangue. E per la prima volta, stamane, m‘è venuto in mente che il mio corpo, compagno fedele, amico sicuro e a me noto più dell’anima, è solo un mostro subdolo che finirà per divorare il padrone. Basta… Il mio corpo mi è caro; mi ha servito bene, e in tutti i modi, e non starò a lesinargli le cure necessarie. Ma, ormai, non conto più, come sostiene ancora Ermogene, sulle virtù prodigiose delle piante, sulla dosatura precisa di quei sali minerali che s‘è recato a procurarsi in oriente. È un uomo fine; eppure, m’ha propinato formule vaghe di conforto, troppo ovvie per poterci credere; sa bene quanto detesto questo genere d’imposture, ma non si esercita impunemente più di trent’anni la medicina. Perdono a questo mio fedele il suo tentativo di nascondermi la morte. Ermogene è dotto; è persino saggio; la sua probità è di gran lunga superiore a quella d’un qualunque medico di corte. Avrò in sorte d’essere il più curato dei malati. Ma nessuno può oltrepassare i limiti prescritti dalla natura; le gambe gonfie non mi sostengono più nelle lunghe cerimonie di Roma; mi sento soffocare; e ho sessant’anni.
Non mi fraintendere: non sono ancora così a mal partito da cedere alle immaginazioni della paura, assurde quasi quanto quelle della speranza, e certamente assai più penose. Se occorresse ingannarmi, preferirei che lo si facesse ispirandomi fiducia; non ci rimetterei più che tanto, e ne soffrirei meno. Non è detto che quel termine così vicino debba essere imminente; vado ancora a letto, ogni sera, con la speranza di rivedere il mattino. Nell’ambito di quei limiti invalicabili di cui t’ho fatto cenno poc’anzi, posso difendere la mia posizione palmo a palmo, e persino riconquistare qualche pollice di terreno perduto. Ciò nonpertanto, sono giunto a quell’età in cui la vita è, per ogni uomo, una sconfitta accettata. Dire che ho i giorni contati non significa nulla; è stato sempre così; è così per noi tutti. Ma l’incertezza del luogo, del tempo, e del modo, che ci impedisce di distinguere chiaramente quel fine verso il quale procediamo senza tregua, diminuisce per me col progredire della mia malattia mortale. Chiunque può morire da un momento all’altro, ma chi è malato sa che tra dieci anni non ci sarà più. Il mio margine d’incertezza non si estende più su anni, ma su mesi. Le probabilità che io finisca per una pugnalata al cuore o per una caduta da cavallo diventano quanto mai remote; la peste pare improbabile; la lebbra e il cancro sembrano definitivamente da escludere. Non corro più il rischio di cadere ai confini, colpito da un’ascia caledonia o trafitto da una freccia partica; le tempeste non hanno saputo profittare delle occasioni loro offerte, e sembra avesse ragione quel mago a predirmi che non sarei annegato. Morirò a Tivoli, o a Roma, tutt’al più a Napoli, e una crisi di asfissia sbrigherà la bisogna. Sarà la decima crisi a portarmi via, o la centesima? Il problema è tutto qui. Come il viaggiatore che naviga tra le isole dell’Arcipelago vede levarsi a sera i vapori luminosi, e scopre a poco a poco la linea della costa, così io comincio a scorgere il profilo della mia morte.
Vi sono già zone della mia vita simili alle sale spoglie d’un palazzo troppo vasto, che un proprietario immiserito rinuncia ad occupare per intero. Se non ci fosse altri che io a disturbarli, mentre ruminano e giocano, i caprioli sui monti d’Etruria potrebbero vivere tranquilli. Con la Diana delle foreste, ho avuto sempre i rapporti mutevoli e appassionati d’un uomo con l’oggetto amato: adolescente, la caccia al cinghiale m’ha offerto le prime occasioni di conoscere l’autorità e il pericolo; mi ci dedicavo con passione; i miei eccessi in questo esercizio mi attirarono le rampogne di Traiano. La spartizione della preda in una radura della Spagna è stata la mia prima esperienza della morte, del coraggio, della pietà per le creature, e del piacere tragico di vederle soffrire. Da uomo fatto la caccia mi rilassava da tante lotte segrete contro avversari di volta in volta troppo sottili ottusi, troppo deboli o troppo forti per me; è una lotta pari tra l’intelligenza umana e l’astuzia delle fiere e sembrava stranamente pulita in paragone con gli agguati degli uomini. Imperatore, le cacce in Etruria mi sono servite per giudicare il coraggio o le capacità dei miei alti funzionari: ivi ho scartato o prescelto più d’un uomo di Stato. Più tardi, in Bitinia, in Cappadocia, le grandi battute di caccia mi fornirono un pretesto di feste, di trionfi autunnali nei boschi dell’Asia. Ma il compagno delle mie ultime cacce è morto giovane, e il desiderio di questi piaceri violenti è molto scemato in me dopo la sua dipartita. Pure, persino qui a Tivoli, basta l’improvviso sbuffare d’un cervo sotto le fronde perché trasalisca in me un istinto più antico di tutti gli altri, grazie al quale mi sento gattopardo quanto imperatore. Chissà, forse sono stato così parco di sangue umano perché ho versato quello delle fiere: benché talvolta, segretamente, le preferissi agli uomini. La loro immagine, comunque, mi torna alla memoria più spesso, e m‘è difficile non abbandonarmi ogni sera a interminabili racconti di caccia che mettono a dura prova la pazienza dei miei convitati. Certo, il ricordo del giorno della mia adozione mi è dolce, ma quello dei leoni uccisi in Mauretania lo vale.
Rinunciare al cavallo è un sacrificio ancora più penoso per me: una belva non è che un avversario, ma il cavallo era un amico. Se mi fosse lasciata la scelta della mia condizione, avrei optato per quella di Centauro. Tra Boristene e me i rapporti erano d’una precisione matematica: obbediva a me come al suo cervello, non come al padrone. Ho mai ottenuto altrettanto da un uomo? Un’autorità così totale comporta, come qualsiasi latra, il rischio d’un errore per chi la esercita, ma il piacere di tentare l’impossibile in fatto di salti all’ostacolo era troppo grande per rimpiangere la lussazione d’una spalla o la frattura d’una costola. Il mio cavallo surrogava i mille concetti inerenti al titolo, alla funzione, al nome, che complicano le amicizie umane, con la sola conoscenza del mio peso esatto. I miei slanci erano per metà suoi; conosceva con precisione, e forse meglio di me, il momento in cui la mia volontà divergeva dalle mie forze. Ma ora non infliggo più al successore di Boristene il peso d’un malato dai muscoli infiacchiti, troppo debole per issarsi in groppa da solo. In questo momento, il mio aiutante di campo, Celere, lo sta addestrando sulla strada di Preneste; tutte le mie esperienze di velocità mi consentono di condividere il piacere del cavaliere e quello dell’animale, di valutare le sensazioni d’un uomo lanciato a briglia sciolta in una giornata di sole e di vento; quando Celere balza da cavallo, io riprendo contatto col suolo insieme a lui. Lo stesso accade col nuoto: io vi ho rinunciato, ma partecipo ancora alla delizia del nuotatore carezzato dall’acqua. Correre, perfino sul più breve dei percorsi, oggi mi sarebbe impossibile quanto lo sarebbe a una statua massiccia, a un Cesare di pietra, ma ricordo le mie corse di fanciullo sulle arse colline della Spagna, il gioco che si fa con se stesso allorché, trafelati sino ai limiti della resistenza, si sa che il cuore saldo, i polmoni intatti ristabiliranno l’equilibrio; e provo, con il più oscuro tra gli atleti che si allenano alla corsa di fondo nello stadio, un’intesa che l’intelletto da solo non saprebbe darmi. Così, da ciascuna delle arti che praticai a suo tempo traggo una conoscenza che mi compensa in parte dei piaceri perduti. Ho creduto, e nei miei momenti migliori lo credo ancora, che in tal modo potrei partecipare all’esistenza di tutti; e questa simpatia potrebb’essere uno degli aspetti meno revocabili dell’immortalità. Ho avuto momenti in cui questa comprensione si è sforzata di superare l’umano, si è rivolta dal nuotatore all’onda. Ma, poiché in questo campo non c‘è nulla di preciso a rendermi edotto, entro nella sfera delle metamorfosi, delle chimere.
Mangiar troppo, è un vizio romano, ma io sono stato sobrio con voluttà. Ermogene non ha dovuto modificar nulla del mio regime, se non forse frenare l’impazienza che m’ha sempre fatto divorare ovunque, a qualsiasi ora, un cibo qualsiasi, come per troncare d’un colpo le esigenze della fame. Un uomo ricco, che non ha mai conosciuto altre privazioni che quelle volontarie, o non ne ha sperimentate se non a titolo provvisorio, come uno degli incidenti più o meno eccitanti della guerra e dei viaggi, dimostrerebbe cattivo gusto se si vantasse di non satollarsi. Impinzarsi i giorni di festa è stata sempre l’ambizione, la gioia, e l’orgoglio naturale dei poveri. Mi piaceva l’aroma delle carni arrostite, il rumore delle marmitte raschiate, nelle festività militari, e che i banchetti al campo (o ciò che al campo costituiva un banchetto) fossero ciò che dovrebbero essere sempre, un compenso rozzo e festoso alle privazioni dei giorni di lavoro; tolleravo discretamente l’odor di fritto nelle pubbliche piazze al tempo dei Saturnali. Ma i conviti di Roma m’ispiravano ripugnanza e tedio tanto che se alle volte – durante un’esplorazione o una spedizione militare – ho visto la morte vicina, per farmi coraggio mi son detto che almeno sarei liberato dei pranzi. Non mi farai l’ingiuria di prendermi per un rinunciatario qualsiasi: un’operazione che si verifica due o tre volte al giorno, e serve ad alimentare la vita, merita certamente le nostre cure. Mangiare un frutto significa far entrare in noi una cosa viva, bella, come noi nutrita e favorita dalla terra; significa consumare un sacrificio nel quale preferiamo noi stessi alla materia inanimata. Non ho mai affondato i denti nella pagnotta delle caserme senza meravigliarmi che quella miscela rozza e pesante sapesse mutarsi in sangue, in calore, fors’anche in coraggio. Ah, perché il mio spirito, nei suoi giorni migliori, non possiede che una parte dei poteri d’assimilazione di un corpo?
A Roma, durante i lunghi pranzi ufficiali, mi è accaduto di pensare alle origini relativamente recenti del nostro lusso; a questo popolo di coloni parsimoniosi e di soldati frugali, satolli d’aglio e di orzo, improvvisamente immersi dalla conquista nelle delizie della cucina asiatica che ingozza manicaretti con la voracità rustica dei contadini. I nostri Romani si rimpinzano di cacciagione, s’inondano di salse, e s’intossicano di spezie. Un apicio va fiero della successione di portate, di quella serie di vivande piccanti o dolci, grevi o delicate, che compongono l’armonica disposizione dei suoi banchetti; e passi ancora se ciascuno di tali cibi fosse servito separatamente, assimilato a digiuno, sapientemente assaporato da un buongustaio dalle papille intatte. Ma serviti così, giornalmente, alla rinfusa, in mezzo a una profusione banale, essi formano nel palato e nello stomaco di chi mangia una confusione detestabile, nella quale odori, sapori, sostanze perdono il loro rispettivo valore, la loro squisita identità. Un tempo quel povero Lucio si dilettava a prepararmi qualche piatto raro; i suoi pasticci di fagiano, dove prosciutto e spezie vanno sapientemente dosati, erano il risultato di un’arte, esattamente come quella del musico o del pittore; eppure, rimpiangevo la carne pura e semplice del bel volatile.
In Grecia se ne intendono di più: quel vino che sa di resina, quel pane al sesamo, quei pesci girati sulla griglia in riva al mare, anneriti irregolarmente dal fuoco, insaporiti qua e là da un granello di sabbia che scricchiola sotto i denti si limitavano a placare l’appetito, senza sovraccaricare di complicazioni il più elementare dei piaceri. Ho assaporato, in qualche bettola di Egina o al Falero, cibi così freschi che restavano divinamente puliti a onta delle mani sudice dello sguattero che mi serviva; così sobri ma al tempo stesso così sostanziosi che pareva contenessero, nella forma più condensata possibile, un’essenza di immortalità. Anche la carne, arrostita la sera dopo la caccia, conteneva questa qualità direi quasi di sacramento, ci riportava indietro, alle origini selvagge delle razze; così il vino ci inizia ai misteri vulcanici del suolo, ai suoi misteriosi tesori: bere una coppa di vino di Samo, a mezzogiorno, col sole alto, o piuttosto sorseggiarlo una sera d’inverno, quando si è in quello stato di fatica che consente di sentirlo immediatamente colare caldo nella cavità del diaframma, e diffondersi nelle vene ardente e sicuro, sono sensazioni quasi sacre, persino troppo violente, per la mente umana. Non le ritrovo altrettanto genuine quando esco dalle cantine numerate di Roma, e mi spazientisce la pedanteria dei conoscitori di vigneti. Così, con un gesto ancor più devoto, bere l’acqua nel cavo delle mani o direttamente alla sorgente, fa sì che penetri in noi il sale più segreto della terra, e la pioggia del cielo. Ma, oggi, anche l’acqua è una voluttà che un malato come me deve concedersi con misura. Non importa: anche nell’agonia, mescolata all’amaro delle ultime pozioni, mi sforzerò di sentire sulle labbra la freschezza insapore.
Nelle scuole di filosofia, dove è di prammatica provare una volta per tutte ogni regola di condotta, ho sperimentato per breve tempo il regime vegetariano e, più tardi, in Asia, ho visto i ginnosofisti indiani, volgere il capo alla vista degli agnelli fumanti e dei quarti di gazzella serviti sotto la tenda di Osroe. Ma quest’astinenza, nella quale si compiace la tua austerità giovanile, esige attenzioni complicate, più della golosità: trattandosi di una funzione che si svolge quasi sempre in pubblico, il più delle volte sotto il segno della pompa o dell’amicizia, finirebbe per distinguerci troppo dagli altri. Preferisco nutrirmi tutta la vita di oche ingrassate e di galline faraone anziché farmi accusare dai commensali, a ogni pasto, di un’ostentazione di ascetismo. Già mi è stato tutt’altro che facile, con l’aiuto di poche frutta secche, o di una coppa sorseggiata lentamente, nascondere agli invitati che i manicaretti creati dai miei cuochi erano destinati a essi più che a me, e che la mia curiosità per quelle vivande cessava assai prima della loro. Un principe, in questo campo, non ha la libertà di un filosofo, non può concedersi troppe singolarità tutte insieme, e gli dèi sanno se quelle per le quali mi distinguevo non erano già troppo numerose, a onta della mia illusione che molte di esse passassero inosservate. Quanto agli scrupoli religiosi dei ginnosofisti e la ripugnanza che provano alla vista della carne sanguinolenta, mi colpirebbero di più se non venisse fatto di chiedere a me stesso in che cosa la sofferenza dell’erba falciata differisca essenzialmente da quella di un montone sgozzato, e se l’orrore che proviamo nel vedere trucidare un animale non dipenda soprattutto dal fatto che la nostra sensibilità appartiene al medesimo regno. Pure, in certi momenti della vita, a esempio nei periodi di digiuno rituale, o durante le iniziazioni religiose, ho apprezzato i vantaggi, nonché i pericoli, per lo spirito, delle diverse forme d’astinenza, persino dell’inedita volontaria, di quegli stati prossimi alla vertigine, durante i quali il corpo, in parte libero dal suo peso, entra in un mondo che non è fatto per lui, che gli offre in anticipo un’immagine della gelida levità della morte. In altri momenti, queste esperienze mi hanno consentito di bloccarmi con l’idea del suicidio progressivo, la morte per inedita, che fu quella di qualche filosofo; una specie di orgia alla rovescia, nella quale si perviene grado a grado all’esaurimento della sostanza vitale. Ma aderire totalmente a un sistema non mi sarebbe piaciuto mai, né avrei mai voluto che uno scrupolo mi privasse del diritto di saziarmi di carne d’ogni specie, se per caso ne avessi avuto voglia, o se quel nutrimento fosse stato il solo a mia disposizione.
I cinici e i moralisti si trovano d’accordo nel collocare le voluttà dell’amore tra i piaceri cosiddetti volgari, tra quello del mangiare e quello del bere, pur dichiarandole meno indispensabili, poiché, ci assicurano, se ne può fare a meno. Dal moralista mi aspetto di tutto: ma mi stupisce che s’inganni il cinico. Ammettiamo che gli uni come gli altri abbiano paura dei loro demoni – sia che resistano sia che cedano a essi – e che cerchino con ogni mezzo di avvilire il piacere per cercar di sottrargli la potenza quasi terribile alla quale soccombono, il mistero dal quale si sentono travolti. Accetterò di assimilare l’amore alle gioie puramente fisiche (ammettendo che ve ne siano) quando avrò visto un ghiottone anelare di piacere innanzi alla sua pietanza favorita come un innamorato sulla spalla dell’essere amato. Di tutti i nostri giochi, questo è il solo che rischi di sconvolgere l’anima, il solo altresì nel quale ci si deve abbandonare al delirio dei sensi. Non è necessario per un beone abdicare all’uso della ragione, ma l’innamorato che conservi la sua non obbedisce fino in fondo al suo demone. In qualsiasi altro caso, l’astinenza o la sregolatezza non impegnano che l’individuo; salvo il caso dio Diogene, le cui privazioni, il cui lucido pessimismo si definiscono da sé, ogni atto sensuale ci pone in presenza dell’Altro, ci coinvolge nelle esigenze e nelle servitù della scelta. Non ne conosco altre ove l’uomo sia spinto a risolversi da motivi più elementari e ineluttabili, ove l’oggetto della scelta venga valutato con maggiore esattezza per il peso di piaceri che offre, ove chi ama il vero abbia maggiori possibilità di giudicare la creatura umana nella sua nudità. Stupisco nel veder formarsi di nuovo ogni volta – nonostante un abbandono che tanto eguaglia quello della morte, un’umiltà più assoluta di quella della sconfitta e della preghiera – quel complesso di dinieghi, di responsabilità, di promesse: povere confessioni, fragili menzogne, compromessi appassionati tra i nostri piaceri e quelli dell’Altro, legami che sembra impossibile infrangere e che pure si sciolgono così rapidamente. Questo gioco misterioso che va dall’amore di un corpo all’amore d’un essere umano, m‘è sembrato tanto bello da consacrarvi tutta una parte della mia vita. Le parole ingannano: la parola piacere, infatti, nasconde realtà contraddittorie, implica al tempo stesso i concetti di calore, di dolcezza, d’intimità dei corpi, e quelli di violenza, d’agonia, di grida. La piccola frase oscena di Poseidonio – che t’ho visto ricopiare sul tuo quaderno di scuola con una diligenza da primo della classe – a proposito dell’attrito di due piccole parti di carne, non definisce il fenomeno dell’amore, così come la corda toccata dal dito non rende conto del miracolo infinito dei suoni. Più ancora che alla voluttà, essa reca ingiuria alla carne, a questo strumento di muscoli, di sangue, di epidermide, a questa rossa nube di cui l’anima è la luce viva dei campi.
Confesso che la ragione si smarrisce di fronte al prodigio dell’amore, questa strana ossessione che fa sì che questa stessa carne, della quale ci curiamo tanto poco quando costituisce il nostro corpo, preoccupandoci unicamente di lavarla, di nutrirla, e – fin dov‘è possibile – d’impedirle che soffra, possa ispirarci una così travolgente sete di carezze sol perché è animata da una individualità diversa dalla nostra, e perché è dotata più o meno di certi attributi di bellezza sui quali, del resto, anche i giudici migliori son discorsi. Di fronte all’amore, la logica umana è impotente, come in presenza delle rivelazioni dei Misteri: non s‘è ingannata la tradizione popolare, che ha sempre ravvisato nell’amore una forma di iniziazione, uno dei punti ove il segreto e il sacro s’incontrarono. E per un altro aspetto ancora, l’espressione sensuale si può paragonare ai Misteri, in quanto il primo contatto appare al non iniziato un rito più o meno pauroso, violentemente diverso dalle funzioni consuete del sonno, del bere e del mangiare, oggetto di scherno, di vergogna o di terrore. L’amore, non altrimenti della danza delle Menadi e del delirante furore dei Coribanti, ci trascina in un universo insolito, ove in altri momenti è vietato avventurarci, e dove cessiamo di orientarci non appena l’ardore si spegne e il piacere si placa. Avvinto al corpo amato come un crocifisso alla sua croce, ho appreso sulla vita segreti che ormai si dileguano nei ricordi, per opera di quella stessa legge che impone al convalescente guarito di dimenticare le verità misteriose del suo male; al prigioniero, una volta libero, di obliare al tortura, e la trionfantore la gloria, quando l’ebbrezza del trionfo è svanita.
A volte, ho sognato di elaborare un sistema di conoscenza umana basato sull’erotica: una teoria del contatto, nella quale il mistero e la dignità altrui consisterebbero appunto nell’offrire al nostro Io questo punto di riferimento d’un mondo diverso. In questa filosofia, la voluttà rappresenterebbe una forma più completa, ma più caratterizzata altresì dei contatti con l’Altro, una tecnica in più messa al servizio della conoscenza del non Io. Anche nei rapporti più alieni dai sensi, l’emozione sorge o si attua proprio nel contatto: la mano ripugnante di quella vecchia che mi sottopone una supplica, la fronte madida di mio padre nei suoi ultimi istanti, la piaga detersa di un ferito, persino i rapporti più intellettuali o più anodini si istituiscono attraverso questo sistema di segnali del corpo: il lampo d’intesa che illumina lo sguardo del tribuno al quale si spieghi una manovra prima della battaglia, il saluto impersonale d’un subalterno che al nostro passaggio s’immobilizza in un atteggiamento di obbedienza, lo sguardo amichevole d’uno schiavo che ringrazi per avermi portato un vassoio, l’occhiata da intenditore d’un vecchio amico davanti al dono d’un cammeo greco. Con la maggior parte degli esseri umani, i più lievi, i più superficiali di questi contatti bastano, o persino superano l’attesa; ma se essi si ripetono, si moltiplicano attorno a un unico essere sino ad avvolgerlo interamente; se ogni particella d’un corpo umano si impregna per noi di tanti significati conturbanti quante sono le fattezze del suo volto; se un essere solo, anziché ispirarci tutt’al più irritazione, piacere o noia, ci insegue come una musica e ci tormenta come un problema, se trascorre dagli estremi confini al centro del nostro universo, e infine ci diviene più indispensabile che noi stessi, ecco verificarsi il prodigio sorprendente, nel quale ravviso ben più uno sconfinamento dello spirito nella carne che un mero divertimento di quest’ultima.
Opinioni come queste sull’amore possono indurre a una carriera di seduttore. Se non l’ho seguita, senza dubbio dipende dal fatto che mi son dedicato a cose diverse, se non migliori. Una carriera del genere, in mancanza d’estro, richiede una serie di attenzioni, persino di stratagemmi, per i quali non mi sentivo portato. Tendere insidie sempre eguali, percorrere la solita strada, che si limita a perpetui approcci, e alla quale la conquista segna il traguardo, son cose che mi hanno tediato. La tecnica del vero seduttore esige, nel passaggio da un soggetto a un altro, una disinvoltura, un’indifferenza che io non provo e che, comunque perdevo prima di abbandonarle intenzionalmente: non ho mai compreso come si possa essere sazio di un essere umano. La molteplicità delle conquiste contrasta con il desiderio di esumare esattamente le ricchezze che ogni nuovo amore ci reca, di osservarlo mentre si trasforma; fors’anche, mentre invecchia.
Un tempo, ho creduto che un certo gusto per la bellezza avrebbe surrogato per me la virtù, e avrebbe saputo immunizzarmi dalle tentazioni troppo volgari. M’ingannavo. Chi ama il bello finisce per trovarne ovunque, come un filone d’oro che scorre anche nella ganga più ignobile, e quando ha tra le mani questi mirabili frammenti, anche se insudiciati e imperfetti, prova il piacere raro dell’intenditore che è il solo a collezionare ceramiche ritenute comuni. Per un uomo di gusto, poi, l’ostacolo più grave consiste nel fatto di occupare una posizione preminente, che implica ineluttabilmente il rischio dell’adulazione e della menzogna. Il pensiero che in mia presenza qualcuno snaturi, sia pure di un’ombra, l’esser suo, piò giungere a farmelo compiangere, disprezzare, odiare persino. Ho sofferto di questi inconvenienti della mia fortuna come un povero di quelli della sua miseria. Ancora un passo, e avrei accettato la finzione che consiste nel pretendere di sedurre, quando si sa bene che ci si impone: ma di qui si comincia a esser nauseati, o forse imbecilli. Si finirebbe per preferire agli accorgimenti leggeri della seduzione le verità brutali della dissolutezza se anche qui non regnasse la menzogna. Sono pronto ad ammettere per principio che la prostituzione non sia che un’arte, alla stessa stregua del massaggio e della pettinatura, ma mi riesce già difficile andare di buon grado dal barbiere o dal massaggiatore. Non ci sono al mondo persone più volgari dei nostri complici. L’occhiata obliqua dell’oste che mi riserva il vino migliore, e per conseguenza ne priva qualcun altro, bastava già, nei giorni della mia giovinezza, a ispirarmi un profondo disgusto per gli svaghi di Roma. Non mi piace che un individuo ritenga di conoscer già il mio desiderio, prevederlo, adattarsi meccanicamente a quella che suppone la mia scelta: l’immagine bassa e deforme di me stesso, che mi offre in quei momenti quell’individuo, mi farebbe preferire i tristi effetti dell’ascetismo. Se la leggenda non ha esagerato gli eccessi di Nerone e le ricerche sapienti di Tiberio, quei voraci consumatori di piaceri dovevano avere sensi molto inerti per andar cercando apparati così complicati, e uno straordinario disprezzo degli uomini per tollerare che si ridesse o si abusasse di loro fino a quel punto. E tuttavia, se ho quasi rinunciato a queste forme troppo meccaniche del piacere, o almeno non mi sono spinto molto avanti, lo devo più alla mia buona sorte che a una virtù che non sa resistere a nulla. Potrei ricadervi, ora che invecchiato, come in una sregolatezza qualunque, o nel tedio. La malattia, la morte ormai imminente, mi salveranno forse dalla ripetizione monotona degli stessi gesti; e come il compitare stentato d’una lezione imparata a memoria.
Di tutti i piaceri che lentamente mi abbandonano, uno dei più preziosi, e più comuni al tempo stesso, è il sonno. Chi dorme poco o male, sostenuto da molti guanciali, ha tutto l’agio per meditare su questa voluttà particolare. Ammetto che il sonno perfetto è quasi necessariamente un’appendice dell’amore: come un riposo riverberato, riflesso in due corpi. Ma qui m’interessa quel particolare mistero del sonno, goduto per sé stesso, quel tuffo inevitabile nel quale l’uomo, ignudo, solo, inerme, s’avventura ogni sera in un oceano, nel quale ogni cosa muta – i colori, la densità delle cose, persino il ritmo del respiro, un oceano nel quale ci vengono incontro i morti. Nel sonno, una cosa ci rassicura, ed è il fatto di uscirne, e di uscirne immutati, dato che una proibizione bizzarra c’impedisce di riportare con noi il residuo esatto dei nostri sogni. Ci rassicura altresì il fatto che il sonno ci guarisce dalla stanchezza; ma ce ne guarisce temporaneamente, e mediante il procedimento più radicale riuscendo a fare che non siamo più. Qui, come in altre cose, il piacere e l’arte consistono nell’abbandonarsi deliberatamente a quest’incoscienza felice, nell’accettare di essere più deboli, più pesanti, più leggeri, più vaghi dell’esser nostro. Tornerò in seguito sulla popolazione prodigiosa dei sogni: preferisco parlare di certe esperienze di sonno puro, di puro risveglio, che confinano con la morte e la risurrezione. Cerco di riafferrare la sensazione precisa di certi sonni fulminei dell’adolescenza, quando si piombava addormentati sui libri, ancora vestiti, e dalla matematica o dal diritto si era trasportati d’un tratto entro un sonno duro e compatto, denso di energie potenziali, tanto che vi si assaporava, per così dire, il senso puro dell’essere attraverso le palpebre chiuse. Evoco i sonni repentini sulla nuda terra, nella foresta, dopo estenuanti battute di caccia: mi destava l’abbaiare dei cani, o le loro zampe ritte sul mio petto. Era un’eclissi così totale che, ogni volta, avrei potuto ridestarmi diverso, e mi sorprendevo – mi dolevo, a volte – della disposizione rigorosa che mi riconduceva da così lontano nell’angusta particella di umanità che è la mia. In che cosa consistono le caratteristiche alle quali teniamo di più, se contano così poco per chi dorme, e se per un istante, prima di rientrare di malavoglia nel mio guscio di Adriano, giungevo ad assaporare quasi coscientemente quell’uomo vuoto di sé, quell’esistenza senza passato?
D’altro canto, anche la malattia e l’età hanno i loro aspetti straordinari, e ricevono dal sonno altri favori, sotto altre forme: circa un anno fa, dopo una giornata particolarmente estenuante, a Roma, ho avuto uno di quei riposi in cui la spossatezza ha operato gli stessi miracoli, o meglio, altri miracoli, che le riserve inesauste d’altri tempi. Vado raramente in città, ormai; e, quando ci vado, cerco di sbrigare più cose che posso. Avevo avuto una giornata sgradevole, densa: una seduta in Senato, una in tribunale, e una discussione interminabile con uno dei questori; e infine, una cerimonia religiosa che non fu possibile abbreviare, sotto la pioggia. Avevo predisposto io stesso, una dopo l’altra, queste attività differenti, per lasciare il minor tempo possibile, negli intervalli, agli importuni e agli adulatori. Tornai a cavallo: fu una delle ultime volte. Rientrai in Villa depresso, accasciato, infreddolito come si può esserlo solo quando il sangue sembra fermare il suo corso, e non agisce più nelle arterie. Celere e Cabria si prodigavano intorno a me, ma le premure possono stancare, anche se sincere. Mi chiusi in camera, ingoiai poche cucchiaiate di brodo caldo, che preparai da me, non per sospetto – tutt’altro – come si immagina, ma perché così mi concedo il lusso d’esser solo. Mi misi a letto; il sonno pareva tanto lontano quanto la salute, la giovinezza, il vigore. Mi addormentai.
La clessidra mi provò che avevo dormito appena un’ora; un breve momento di abbandono totale, all’età mia, equivale ai sonni che in altri tempi duravano quanto impiegano gli astri a compiere per metà il loro percorso. Il tempo ormai si misura per me in unità molto più brevi. Ma era bastata un’ora sola per compiere l’umile e sorprendente prodigio: il calore del sangue mi riscaldava le mani; il cuore, i polmoni avevano ripreso a operare, quasi di buona lena; la vita come una fonte non molto copiosa, ma sicura. In così breve lasso di tempo, il sonno m’aveva fatto ricuperare il dispendio dovuto all’attività, con la stessa imparzialità con la quale avrebbe riparato gli eccessi del vizio. La divinità di questo grande donatore di ristoro consiste nell’operare i suoi benefici su chi dorme senza tener conto della sua persona, come l’acqua ricca di poteri terapeutici non si dà alcuna pena di sapere chi beve alla sorgente.
Ma ci occupiamo tanto poco di un fenomeno che assorbe almeno un terzo dell’esistenza di ognuno di noi perché è necessaria una certa dose di modestia per apprezzarne i doni: Caio Caligola e Aristide di giusto si equivalgono nel sonno. Io depongo i miei vani e pomposi privilegi, non mi distinguo più dal guardiano negro che dorme di traverso davanti alla mia porta. Che cos‘è l’insonnia se non la maniaca ostinazione della nostra mente a fabbricare pensieri, ragionamenti, sillogismi e definizioni tutte sue, il rifiuto di abdicare di fronte alla divina incoscienza degli occhi chiusi o della saggia follia dei sonni? L’uomo che non dorme – da qualche mese a questa parte ho fin troppe occasioni di constatarlo su me stesso – si rifiuta più o meno consapevolmente di affidarsi all’onda delle cose. Fratello della morte… S’ingannava, Isocrate, e la sua frase non è altro che l’iperbole d’un retore. Comincio a conoscerla, la morte: essa cela altri segreti, ben più estranei alla nostra attuale condizione di uomini. E tuttavia, questi misteri di assenza, di oblio parziale sono così intricati e profondi che avvertiamo distintamente la sorgente chiara e quella oscura confluire chissà dove. Non mi è mai piaciuto guardare le persone che amavo mentre dormivano: si riposavano di me, lo so bene; mi sfuggivano, anche. E non c‘è uomo che non provi vergogna del proprio viso, guasto dal sonno. Quante volte levandomi alle prime ore del mattino per studiare o per leggere, ho riordinato con le mie mani quei guanciali spiegazzati, quelle coperte in disordine, testimonianze quasi turpi dei nostri incontri con il nulla, prove che ogni notte non siamo già più...

... Come ai miei tempi migliori, mi credono dio; continuano a darmi quest’attributo nello stesso momento in cui offrono al cielo i sacrifici affinché l’Augusta Salute si ristabilisca. T’ho già detto per quali motivi questa credenza, così benefica, non mi appare insensata. Una vecchia cieca è arrivata qui, a piedi dalla Pannonia; aveva intrapreso questo viaggio immenso per chiedermi di toccare con le dita le sue pupille spente; ha ricuperato la vista sotto le mie mani, come il suo fervore s’aspettava in anticipo; la sua fede nell’imperatore-dio spiega questo miracolo. Altri prodigi si son verificati; ci son malati che affermano d’avermi visto nei loro sogni, come i pellegrini di Epidauro vedono in sogno Esculapio; pretendono d’essersi destati guariti, o, quanto meno, sollevati. Non sorrido del contrasto tra i miei poteri taumaturgici e il mio male; accetto con gravità questi nuovi privilegi. Quella vecchia cieca che dal fondo d’una provincia barbara s’incammina alla volta dell’imperatore è divenuta per me quel ch’era stato in altri tempi lo schiavo di Tarragona: il simbolo delle popolazioni dell’impero che ho governate e servite. La loro immensa fiducia mi compensa di vent’anni di fatiche che in fondo non mi sono dispiaciute. Recentemente, Flegone m’ha letto l’opera d’un ebreo d’Alessandria che mi attribuisce anche lui poteri più che umani; ho accolto senza sarcasmi questa descrizione d’un principe dai capelli grigi che è stato visto andare e venire su tutte le strade della terra, scendere fra i tesori delle miniere, ridestare le forze generatrici del suolo, stabilire prosperità e pace in ogni luogo; dell’iniziato che ha ripristinato i luoghi santi di tutte le razze, dell’esperto d’arti magiche, del veggente che ha collocato un fanciullo in cielo. Quell’ebreo nel suo fervore mi avrà compreso meglio che non tanti senatori e proconsoli; questo avversario conciliato completa Arriano; mi stupisce che, agli occhi di alcuni, a lungo andare io sia divenuto quello che sempre ho sperato di essere, e che questo risultato sia fatto di tanto poco. La vecchiaia, la morte imminente ormai aggiungono la loro maestà al mio prestigio; gli uomini fanno largo religiosamente al mio passaggio; non mi paragonano più come un tempo al Giove calmo e radioso, bensì al Marte Gradivo, dio delle lunghe campagne militari e della disciplina austera, al grave Numa ispirato dagli dèi; negli ultimi tempi, questo volto pallido e disfatto, questi occhi assorti, questo gran corpo irrigidito da uno sforzo di volontà ricorda loro Plutone, il dio delle ombre. Solo pochi intimi, pochi amici cari e provati sfuggono al contagio terribile del rispetto. Il giovane giurista Frontone, quel magistrato d’avvenire che sarà senza dubbio uno dei buoni servitori del tuo regno, è venuto a discutere con me un indirizzo da presentare al Senato: gli tremava la voce; ho letto nei suoi occhi quella stessa reverenza mista a un sacro timore. Le gioie pacate degli affetti umani non sono più per me: mi adorano tutti; mi venerano troppo per volermi bene.
Mi è toccata una sorte analoga a quella di certi giardinieri: tutto quel che ho cercato di piantare nella immaginazione umana vi ha preso radice. Il culto di Antinoo sembrava la più folle delle mie iniziative, lo straripare d’un dolore che non riguardava che me. Ma la nostra epoca è avida di dèi; preferisce i più ardenti, i più tristi, quelli che mescolano al vino della vita un miele amaro d’oltretomba. A Delfi, il giovinetto è divenuto l’Ermes guardiano della soglia, padrone dei passaggi oscuri che conducono alle ombre. Elusi, il luogo ove l’età e la sua qualità di straniero gli avevano impedito un giorno d’essere iniziato al mio fianco, ne fa il Bacco giovinetto dei Misteri, principe delle regioni confinanti tra i sensi e l’anima. L’Arcadia ancestrale lo associa a Pan e a Diana, divinità dei boschi; i contadini di Tivoli l’assimilano al dolce Aristeo, re delle api. In Asia, i devoti ritrovano in lui i loro teneri dèi infranti dall’autunno o divorati dall’estate. Al margine dei paesi barbari, il compagno delle mie cacce e dei miei viaggi ha preso l’aspetto del cavaliere Trace, del misterioso viandante che cavalca nelle boscaglie al chiaro di luna, e porta via le anime nelle pieghe del suo mantello. Tutto ciò poteva ancora essere null’altro che un’escrescenza del culto ufficiale, adulazione da parte dei popoli, servilismo di sacerdoti avidi di sussidi. Ma la figura del giovinetto mi sfugge; essa cede alle aspirazioni dei cuori semplici: mediante una di quelle reintegrazioni inerenti alla natura delle cose, l’efebo malinconico e soave è divenuto, per la pietà popolare, il sostegno dei deboli e dei miseri, il consolatore dei fanciulli morti. Il volto inciso sulle monete di Bitinia, il profilo del giovinetto quindicenne, dai riccioli al vento, dal sorriso ingenuo e stupefatto che ha conservato per così poco tempo, pende a guisa d’amuleto al collo dei neonati; in qualche cimitero di campagna, lo s’inchioda sulle piccole tombe. Un tempo, quando pensavo alla mia fine, come un pilota, noncurante di sé, trema però per i passeggeri e il carico della nave, mi dicevo amaramente che quel ricordo sarebbe affondato con me; mi sembrava così che quel giovane essere imbalsamato con tanta cura nel fondo della mia memoria dovesse perire una seconda volta. Questo timore, pur tanto giusto, s‘è in parte placato: ho compensato come ho potuto quella morte precoce; per qualche secolo almeno sussisterà un’immagine, un riflesso, un’eco fievole di lui. Non si può far molto di più, in materia d’immortalità.
Ho rivisto Fido Aquila, governatore di Antinopoli, in viaggio per la sua nuova sede di Sarmizegetusa. M’ha descritto i riti annuali celebrati in riva al Nilo in onore del dio morto, i pellegrini convenuti a migliaia dalle regioni del Nord e del Sud, le offerte di birra e di grano, le preci; allo scadere di ogni triennio, ad Antinopoli si svolgono giochi anniversari, così come ad Alessandria, a Mantinea e nella mia diletta Atene. Tali feste triennali si rinnoveranno l’autunno prossimo, ma non conto di durare fino a questo nono ritorno del mese di Athyr. A maggior ragione è importante stabilire in anticipo ogni particolare di queste solennità. L’oracolo del defunto agisce nella stanza segreta del tempio che è stato riedificato a mia cura; giornalmente, i sacerdoti distribuiscono centinaia di risposte già pronte alle domande poste dalla speranza o dall’angoscia umana. Mi è stato rimproverato di averne composte più d’una anch’io. Non intendevo con questo mancar di rispetto al mio dio, né di compassione per la moglie di quel soldato che chiede se il marito tornerà vivo da un presidio in Palestina, o per quell’inferno assetato di conforto, né per quel mercante le cui navi beccheggiano sui flutti del Mar Rosso, né per quella coppia che vorrebbe un figlio. Tutt’al più, così facendo, ho prolungato le parti del logografo, le sciarade in versi alle quali, talvolta, giocavamo insieme. E allo stesso modo, qualcuno s‘è meravigliato che qui, alla Villa, intorno a questa cappella di Canopo nella quale il suo culto si celebra alla maniera egiziana, io abbia lasciato costruire i padiglioni di piacere di quel quartiere d’Alessandria che porta questo nome, con gli svaghi e le distrazioni che offro ai miei ospiti ed ai quali m‘è accaduto di prender parte. Egli s’era avvezzato a queste cose; e non ci si chiude per anni in un pensiero unico senza farvi rientrare, a poco a poco, tutte le abitudini d’una esistenza.
Ho fatto tutto quello che raccomandano: ho atteso. A volte, ho pregato. Audivi voces divinas… La sciocca Giulia Balbilla credeva d’udire, all’alba, la voce misteriosa di Memnone: io ho ascoltato i fruscii della notte. Ho eseguito le unzioni di miele e di olio di rose che attirano le ombre; ho disposto la coppa di latte, la manciata di sale, la goccia di sangue, ciò che alimentava la loro esistenza, prima. Mi sono disteso sul pavimento di marmo del piccolo santuario; attraverso le fessure della parete, s’insinuava il chiarore degli astri, posava qua e là scintillii inquietanti, pallidi fuochi. Ho ricordato gli ordini sussurrati dai sacerdoti all’orecchio del morto, l’itinerario inciso sulla tomba: <> A volte, a lunghi intervalli, ho creduto d’avvertire il lieve tocco di qualcuno che s’avvicina, leggero come il contatto delle ciglia, tiepido come un palmo. <> Non saprò mai se questo calore, se questa dolcezza emanavano solo da l più profondo dell’essere mio, prove estreme d’un uomo in lotta contro la solitudine e il freddo della notte. Ma la domanda, che ancora si pone in presenza dei nostri amori viventi, oggi non m’interessa più: poco m’importa se i fantasmi da me evocati vengano dai limbi della mia memoria o da quelli d’un altro mondo. La mia anima, se pure ne posseggo una, è fatta della stessa sostanza degli spettri; questo corpo dalle mani gonfie, dalle unghie livide, questa triste carne già per metà in dissoluzione, quest’otre di mali, di ambizioni e di sogni, non è molto più solido né più consistente d’un’ombra. Non mi distinguo dai morti se non per la facoltà di soffocare qualche momento ancora; in un certo senso, la loro esistenza mi sembra più certa della mia. Antinoo e Plotina sono reali almeno quanto me.
La meditazione della morte non insegna a morire; non rende l’esodo più facile, ma non è questo quel ch’io cerco. Piccola figura imbronciata e volontaria, il tuo sacrificio non ha arricchito la mia vita, ma la mia morte. Il suo approssimarsi ristabilisce tra noi due una sorta d’intima complicità: i vivi che mi circondano, i servi devoti, importuni a volte, non sapranno mai sino a qual punto il mondo non c’interessa più. Penso con disgusto ai tetri simboli delle tombe egizie: l’arido scarabeo, la rigida mummia, la rana dei parti eterni. A dar retta ai sacerdoti, t’ho lasciato in quel luogo ove gli elementi d’un essere si lacerano come un abito logoro che si strappa, in quel sinistro crocevia tra ciò che esiste eternamente, ciò che fu, e ciò che sarà. Può darsi che in fin dei conti essi abbiano ragione, che la morte sia fatta della stessa materia fluttuante e informe della vita. Ma tutte le teorie sull’immortalità m’ispirano diffidenza: il sistema delle retribuzioni e delle pene lascia freddo un giudice consapevole della difficoltà d’un giudizio. D’altra parte, mi accade altresì di trovar troppo banale la soluzione opposta, il puro nulla, il vuoto ove risuona la risata d’Epicuro. Osservo la mia fine: questa serie di esperimenti compiuti su me stesso prosegue il lungo studio iniziato nella clinica di Satiro. Fino a ora, sono mutamenti esteriori, quanto quelli che il tempo e le intemperie fanno subire a un monumento di cui non alterano né la materia, né la plastica: a volte, attraverso le crepe, mi sembra di scorgere e toccare le fondamenta indistruttibili, il tufo eterno. Sono quel che ero: muoio senza mutarmi. A prima vista, l’adusto fanciullo dei giardini di Spagna, l’ufficiale ambizioso che rientra nella tenda scrollandosi dalle spalle i fiocchi di neve, sembrano tanto cancellati quanto lo sarò io dopo che sarò passato attraverso il rogo; ma essi son qui; io ne sono inseparabile. L’uomo che ha urlato sul petto d’un morto continua a gemere in un angolo di me stesso, a onta della calma più e meno che umana alla quale partecipo già; il viaggiatore racchiuso nel corpo del malato orami sedentario per sempre s’interessa alla morte perché essa rappresenta una partenza. Quella forza ch’io fui sembra capace ancora di animare parecchie altre vite, di sollevare dei mondi. Se, per miracolo, qualche secolo venisse aggiunto ai pochi giorni che mi restano, rifarei le stesse cose, persino gli stessi errori, frequenterei gli stessi Olimpi e i medesimi Inferi. Una constatazione simile è un argomento eccellente in favore dell’utilità della morte, ma nello stesso tempo m’ispira dubbi sulla totale efficacia di essa.
In certi periodi della mia vita, ho preso nota dei sogni; ne discutevo il significato con i sacerdoti, i filosofi, gli astrologhi. La facoltà di sognare, attenuata da anni ormai, mi è stata ridata in questi mesi d’agonia; gl’incidenti dello stato di veglia ci appaiono almeno reali, a volte meno importuni dei sogni. Se questo mondo larvale e spettrale, dove si miete l’informe e l’assurdo ancor più largamente che sulla terra, ci offre un’idea delle condizioni dell’anima separata dal corpo, senza dubbio trascorrerò l’eternità a rimpiangere il controllo squisito dei sensi e l’adattamento prospettico della ragione umana. E, tuttavia, non è privo di debolezza questo immergersi nelle regioni vaghe dei sogni; ivi, possiedo per un istante segreti che subito mi sfuggono; mi disseto a sorgenti. L’altro giorno, mi trovavo nell’oasi di Ammone, la sera della caccia alle belve. Ero felice: tutto si è svolto come ai bei tempi della mia forza; il leone ferito è caduto, poi s‘è rialzato; mi sono avventato per finirlo. Ma, questa volta, il mio cavallo, impennatosi, m’ha gettato a terra; l’orribile massa sanguinante mi è precipitata addosso; le sue zanne m’hanno lacerato il petto; sono tornato in me, nella mia camera di Tivoli, invocando aiuto. Ancor più di recente, ho rivisto mio padre, eppure ci penso ben poco; giaceva nel suo letto di malato, in una stanza della nostra casa d’Italica, che ho lasciata subito dopo la sua morte. Aveva sul tavolo una fiala piena d’una pozione sedativa, e l’ho supplicato di darmela. Mi sono destato senza che avesse avuto il tempo di rispondermi. Mi fa meraviglia che la maggior parte degli uomini abbia tanta paura degli spettri, mentre si acconsente così facilmente a parlare con i morti, in sogno.
Anche i presagi si moltiplicano: ormai, tutto sembra un’intimazione, un segno. Ho lasciato cadere e infrangersi una preziosa pietra, incastonata in un anello, sulla quale un artigiano greco aveva inciso il mio profilo. Gli auguri scrollano gravemente il capo; io rimpiango semplicemente quel capolavoro. Mi capita di parlare di me stesso al passato: in Senato, discutendo avvenimenti posteriori alla morte di Lucio, mi si è inceppata la lingua e varie volte mi son trovato a parlare di quelle circostanze come se avessero avuto luogo dopo la mia morte. Pochi mesi fa, il giorno del mio anniversario, mentre mi portavano in lettiga su per le scale del Campidoglio, mi son trovato faccia a faccia con un uomo in gramaglie che piangeva: ho visto il mio vecchio Cabria cambiar colore. In quell’epoca, uscivo ancora; continuavo a esercitare le mie funzioni di Pontefice Massimo, di Fratello Arvale, a celebrare io stesso quei riti antichi della religione romana che finisco per preferire alla maggior parte dei culti stranieri. In piedi davanti all’altare, m’apprestavo ad accendere la fiamma; offrivo agli dèi un sacrificio per Antonino. Improvvisamente, il lembo della toga che mi copriva la fronte scivolò e mi ricadde sulla spalla, lasciandomi a testa scoperta; passavo così dal rango di sacrificatore a quello di vittima. E, a dire il vero, è proprio la mia volta.
La mia pazienza dà i suoi frutti: soffro meno; la vita torna a sembrarmi quasi dolce. Non mi bisticcio più con i medici; i loro sciocchi rimedi m’hanno ucciso; ma la loro presunzione, la loro pedanteria ipocrita è opera nostra; mentirebbero meno se noi non avessimo paura di soffrire. Mi mancano le forze per gli attacchi di furore d’altri tempi: so bene, da fonte certa, che Platorio Nepote, che mi è stato molto caro, ha abusato della mia fiducia; ma non ho tentato di sbugiardarlo; non l’ho punito. L’avvenire del mondo non mi angustia più; non m’affatico più per calcolare angosciosamente la durata, più o meno lunga, della pace romana; m’affido agli dèi. Non già ch’io abbia acquisito una maggior fiducia nella loro giustizia, che non è la nostra, o una maggior fede nella saggezza umana; è vero il contrario. La vita è atroce; lo sappiamo. Ma proprio perché aspetto tanto poco dalla condizione umana, i periodi di felicità, i progressi, anche parziali, gli sforzi di ripresa e di continuità mi sembrano altrettanti prodigi che compensano quasi la massa immensa dei mali, degli insuccessi, dell’incuria e degli errori. Sopravverranno le catastrofi e le rovine; trionferà il caos, ma di tanto in tanto verrà anche l’ordine. La pace s’instaurerà di nuovo tra le guerre; le parole umanità, libertà, giustizia ritroveranno qua e là il senso che noi abbiamo tentato d’infondervi. Non tutti i nostri libri periranno; si restaureranno le nostre statue infrante; altre cupole, altri frontoni sorgeranno dai nostri frontoni, dalle nostre cupole; vi saranno uomini che penseranno, lavoreranno e sentiranno come noi: oso contare su questi continuatori che seguiranno, a intervalli irregolari, lungo i secoli, su questa immortalità intermittente. Se i barbari s’impadroniranno mai dell’impero del mondo, saranno costretti ad adottare molti dei nostri metodi; e finiranno per rassomigliarci. Cabria si preoccupa di vedere un giorno il pastoforo di Mitra o il vescovo di Cristo prendere dimora a Roma e rimpiazzarvi il Pontefice Massimo. Se per disgrazia questo giorno venisse, il mio successore lungo i crinali vaticani avrà cessato d’essere il capo d’una cerchia d’affiliati o d’una banda di settari per divenire a sua volta una delle espressioni universali dell’autorità. Erediterà i nostri palazzi, i nostri archivi; differirà da noi meno di quel che si potrebbe credere. Accetto con calma le vicessitudini di Roma eterna;
Le medicine non mi soccorrono più; aumenta l’enfiagione delle mie gambe; e sonnecchio seduto più che disteso. Uno dei vantaggi della morte sarà d’esser disteso ancora, in un letto. Ormai, tocca a me consolare Antonino. Gli ricordo che da tempo, ormai, la morte mi appare la soluzione più elegante dei miei problemi; come sempre, i miei voti finiscono per realizzarsi, ma in modo più lento, più indiretto di quel che potessi mai credere. Mi rallegro che il male m’abbia lasciato la lucidità sino all’ultimo; di non aver dovuto subire la prova dell’estrema vecchiezza, di non esser destinato a conoscere quell’indurimento, quella rigidità, quell’inerzia, quella atroce assenza di desideri. Se i miei calcoli son giusti, mia madre è morta pressapoco all’età alla quale io son giunto; la mia vita è già stata d’una metà più lunga di quella di mio padre, morto a quarant’anni. Tutto è pronto: l’aquila incaricata di recare agli dèi l’anima dell’imperatore è tenuta in riserva per la cerimonia funebre; il mio mausoleo, sulla sommità del quale vengono piantati in questo momento i cipressi destinati a formare contro il cielo una piramide nera, sarà terminato pressappoco in tempo per deporvi le mie ceneri ancor tiepide. Ho pregato Antonino che in seguito vi faccia trasportare Sabina; ho trascurato di farle decretare onori divini alla sua morte, e in fin dei conti le son dovuti; non è male riparare a questa negligenza. E vorrei che i resti di Elio Cesare fossero collocati al mio fianco.
M’hanno portato a Baia; con questo caldo di luglio, il tragitto è stato penoso, ma in riva al mare respiro meglio. L’onda manda sulla riva il suo mormorio, fruscio di seta e carezza; godo ancora le lunghe sere rosate. Ma ormai non reggo più queste tavolette che per occupare le mie mani, che si muovono, mio malgrado. Ho mandato a chiamare Antonino; un corriere lanciato a tutta corsa è partito per Roma. Rimbombano gli zoccoli di Boristene, galoppa il Cavaliere Trace… Il piccolo gruppo degl’intimi si stringe al mio capezzale. Cabria mi fa pena. Le lacrime mal si addicono alle rughe dei vecchi. Il bel volto di Celere è, come sempre, singolarmente calmo; è intento a curarmi senza lasciare trapelar nulla che potrebbe contribuire all’ansia o alla stanchezza d’un malato. Ma Diotimo singhiozza, la testa affondata nei guanciali. Ho assicurato il suo avvenire; non ama l’Italia; potrà realizzare il suo sogno di far ritorno a Gadara e aprirvi con un amico una scuola d’eloquenza; con la mia morte, non ha nulla da perdere. E, tuttavia, l’esile spalla si agita convulsamente sotto le pieghe della tunica; sento sotto le dita queste lacrime deliziose. Fino all’ultimo istante, Adriano sarà stato amato d’amore umano.
Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più... Cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti…


AL DIVINO ADRIANO AUGUSTO

Figlio di Traiano vincitore dei parti
nipote di Nerva
pontefice massimo
rivestito per la XXII volta
della potestà tribunicia
tre volte console due volte trionfatore
padre della patria
e alla sua divina consorte
Sabina
Antonino loro figlio

A Lucio Elio Cesare
figlio del divino Adriano
due volte console

Marguerite Yourcenar


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