"Anime col rasoio" libro di Marco Redde



Un libro abbandonato alla fermata dell’autobus. Un oggetto senza vita che attira l’attenzione di Marco, soffermatosi a leggere le prime pagine raccogliendo la sfida lanciata.
La sua vita monotona, tra lavoro e una famiglia quasi inesistente sarà sconvolta da ciò che la lettura lo costringerà ad affrontare.


Non esiste castigo peggiore di quello che noi stessi ci infliggiamo.
“Anime col rasoio” è la storia di un uomo che non ama né se stesso né il prossimo. Trova l’umanità ingombrante ed è convinto che l’apocalisse ci sia già stata e di essersela persa, come molte altre cose della vita. La storia si snoda tra un presente ricco di autolesionismo, dissoluzione, allucinazione e perdità della speranza e flashback di un passato vissuto nel ricco isolamento della prosperosa campagna vicentina degli anni 80”, quando ancora nessuno si sognava di chiamarla Nord-Est. Una pubertà incendiaria trascorsa cadendo senza mettere le mani avanti assieme ad un ristretto gruppo di amici con i quali condividere terribili segreti, sogni, ma soprattutto incubi. Una “primavera di ferro” conclusasi con una terribile disgrazia che tornerà a segnare la vita di Marco, questo il nome del protagonista e della sua famiglia di estranei. Un lavoro come creativo in una nota agenzia pubblicitaria, vestiti firmati, una bella auto, una giovane amante, due figli ed una moglie che potrebbero essere dei perfetti sconosciuti se non fosse per il fatto che vivono sotto il suo stesso tetto, un medico compiacente, ma soprattutto un’affilata prerogativa abbinata ad una spiccata vena autolesionista. La scoperta di un libro abbandontao alla fermata del tram darà inizio ad un’avventura surreale. Un manuale di vita scritto da uno scrittore inesistente con un titolo che non si trova in nessuna libreria. All’interno del libro si nasconde un numero di telefono che porterà ad una strana figura femminile. Una sfida che Marco raccoglierà e non vincerà. Sangue, sesso, pastiglie, alcool e bugie non serviranno certo a rimandare l’inevitabile e per nulla intima apocalisse.
Se l’amore non esiste e la speranza nella fine di tutto è l’unica cosa che rimane, la vita si riduce ad un impietoso taglia e cuci nel tentativo di adattare l’anima al mondo ed il corpo all’anima.
Dovendo appioppare un’etichetta direi che il genere di questo romanzo è una via di mezzo tra il noir, l’esistenziale e lo psicotico con un briciolo di fantascienza, ma non così fanta, il tutto condito con del sano umorismo nero e tanto buon vecchio sadismo.


Anime col rasoio
di Mirko Righetto


Introduzione

La frase suonava esattamente così «La mia vita sta a me come un elefante sta ad una cabina telefonica e questo fottuto pachiderma finirà con l’ammazzarmi».
Quella particolare equazione era frutto di mesi di studio e sperimentazione ed ora sentivo che in essa erano contenute tutte le parole ed i concetti necessari allo scopo.
Tutto ebbe inizio con quel libro dimenticato sulla panchina alla fermata del 29. Lo osservai a lungo prima di decidermi a prenderlo. Ci giravo attorno cercando di indovinare se appartenesse o meno ad una delle persone che in quel momento ciondolavano sospese nell’attesa, individui tra loro lontani anni luce eppure ognuno plausibile proprietario di quel libro.
Si intitolava “Ogni cosa al suo posto” ed era uno di quei metodi scritti da persone che sembrano avere la soluzione ad ogni problema e sono ansiose di elargirla all’intero genere umano in cambio di un tozzo di pane.
“Quali cose?” e “In che posto?”. L’immagine in copertina con quelle scatole cinesi viste in prospettiva disambigua rendeva ancor più indecifrabile l’argomento trattato e considerando una figuraccia il naturale ed elementare chiedere ai presenti a chi appartenesse, adottai una tattica di aggiramento dell’ostacolo, tecnica alla quale sono da sempre avvezzo. Mi avvicinai alla panchina con studiata indifferenza e mi accomodai proprio sopra il libricino con la delicatezza di una chioccia sul suo uovo e quando il 29 giunse alla fermata, attesi che le porte si aprissero e raccoltolo da sotto il sedere, mi infilai nell’autobus lesto come una lepre in un campo di grano.
Spingendo e calpestando donne, vecchi e bambini mi accaparrai un posto accanto al finestrino. Volevo essere sicuro che nessuno mi avesse visto prenderlo, in caso contrario lo avrei gettato dall’altra parte dell’autobus in modo da risultate pulito ad un’eventuale perquisizione. Stavo maledicendo il 29 che non accennava a ripartire, quando una ragazza bionda spuntò da dietro il manifesto pubblicitario di “Intimissimi” che occupava interamente la schiena della banchina d’attesa. Indossava una mini gonna nera e teneva le mani premute nelle tasche di un giubbino in jeans corto in vita, come volesse rintanarvisi con tutto il corpo. Con fare furtivo andò a sedersi proprio dove prima stava il libro e prese a fissarmi con insistenza. Il suo viso pesantemente truccato era irrigidito in un’espressione terribilmente seria. Era lei la padrona del volume, senza ombra di dubbio. Distolsi lo sguardo e tenni il maltolto in mano finché le porte non si furono richiuse, quindi lo infilai nella tasca interna della giacca.
“E se fosse una trappola? Una di quelle assurde candid camera? E se questo libro fosse un segnale prestabilito, un qualche nuovo metodo utilizzato da spacciatori, terroristi o delinquenti per scambiarsi merci e messaggi?”. Iniziai a guardarmi attorno preoccupato ed improvvisamente tutto mi sembrò possibile, persino morire a causa di quel libro.
Fermata dopo fermata, il contenuto dell’autobus si rinnovava senza sosta come l’acqua in un acquario e dopo un po’ dimenticai la ragazza col giubbino in jeans, delinquenti, terroristi e spacciatori ed iniziai la lettura.
Esistono libri innocui, libri inutili e libri pericolosi e quel manuale sull’autocontrollo non era affatto innocuo e non esistono manuali inutili, finanche lo scopo fosse illustrare un metodo per piegare le camice al buio, un manuale è l’unico genere di libro che non può essere classificato come inutile: innocuo o pericoloso si, ma inutile mai. L’autore, tra le altre cose, sosteneva che ognuno di noi dovrebbe elaborare una propria personalissima formula che, recitata nel momento critico, fosse in grado di rimettere magicamente le cose a posto. La sua foto che occupava l’intera quarta di copertina, mostrava un uomo di mezza età dall’aspetto molto curato il cui sorriso non lasciava dubbi: con lui aveva funzionato. C’era da chiedersi se avesse funzionato anche con chi aveva abbandonato quel libro alla fermata dell’autobus.
Sono passati due mesi da quel dì e da allora l’ho letto e riletto almeno due volte la settimana e me lo porto sempre appresso come una bibbia ad avvalorare la mia nuova fede.
Ad essere sincero non credo esistano soluzioni ai problemi, bensì formule, passaggi che rimandano ad altri problemi, ma vado ugualmente fiero di quella frase. È farina del mio sacco e nove volte su dieci il solo sussurrare quelle parole, mi dona la rassicurante sensazione che si prova nel percorrere la strada di casa.
Non passa giorno senza che io mi chieda cosa ci faccio a questo mondo ed in particolare in questa città: incollato come una figurina dell’album calciatori Panini, quello che non c’è verso di completare. Gli angoli sollevati ed i bordi logori, sempre sul punto di staccarsi, ma con in più l’avvilente certezza che ciò non accadrà mai. L’impietosa verità dice che io sono, a tutti gli effetti, un membro del club dei “Condannati a restare”. Quelli che non hanno mai le scarpe adatte, quelli che Londra è troppo vicina e Sidney troppo lontana, quelli che l’infinito è un errore di programmazione al quale qualcuno porrà presto rimedio, quelli che è meglio non pensarci, quelli che curioso è crudele, quelli che non farebbero male ad una mosca e son maestri nell’ammazzarsi dentro, in silenzio. Quelli intrappolati qui, tra soffitto e pavimento.
Ho subito più traumi io nei primi tredici anni della mia vita che l’intero genere umano dalla cacciata dal paradiso ai giorni nostri. Oggi, a quarant’anni compiuti, sono come un indiano che ha perso quella tribù che non ha mai avuto. Se vi dicessi che passo le notti a guardare mio figlio dormire, cosa direste? Che dovrei prendere dei sonniferi? O magari che nascondo tendenze pedopornoincestuose? Io credo sia una vera fortuna non aver subito traumi, si vive in un mondo dove tutti camminano su due gambe, le auto vanno su quattro ruote ed i prati sono verdi.

Marco Redde di professione “creativo” presso un’agenzia di pubblicità, si rammaricava del fatto che da un po’ di tempo tutto gli andasse stretto, proprio come avrebbe fatto scoprendo che il suo vestito preferito, quello nero con gli spacchetti laterali e la fodera della giacca col disegno cachemire, non gli stava più ed ogni volta che il desiderio di mollare tutto e tutti e fuggire lontano faceva capolino nella sua mente, si chiedeva «Dove?» e volgendo lo sguardo a terra ripeteva «La mia vita sta a…». E subito i suoi occhi la smettevano di schizzare qua e là, come topi alla ricerca di un buco dove infilarsi e scomparire.
Marco Redde sposato con due figli, vestiva sobrio ed elegante al tempo stesso e non avrebbe mai indossato una tuta da ginnastica al di fuori di una palestra. Portava pantaloni a tubo senza pences e senza tasche dietro, giacche con tre bottoni, camicie slim, cravatte in tinta unita col nodo stretto e cintura abbinata alle scarpe di cuoio che scricchiolavano nei corridoi dello studio e scoppiettavano sul ghiaino nel breve vialetto di casa.
Marco Redde, capelli castani, occhi color nocciola e sguardo intenso, fisico asciutto mascella prominente e cilia folte, una laurea in scienze della comunicazione, non parlava con sua moglie da almeno un mese e sapeva fare e celare molte cose come la mano di un prestigiatore e sognava di conoscere il trucco per indovinare se qualcuno avrebbe aperto quella porta senza per questo dovervi bussare, fingendo di non sapere che non avrebbe comunque avuto il coraggio di varcarne la soglia.
In passato, quand’era ancora un ragazzino, aveva vinto alcune gare di nuoto e perfino un torneo di scacchi, era un buon attaccante ma non giocava a calcio da anni, il suo brevetto di volo era scaduto e sapeva disegnare molto bene, malgrado non trovasse mai il tempo per farlo. Così tante cose aveva iniziate e mai terminate e sempre vi tornava col pensiero ripercorrendole come ponti che non portano sull’altra sponda, ma ti piantano lì, a metà strada tra te ed il resto del mondo.
Marco Redde sono io e non credo di essere il solo.


Capitolo I

C’è un momento,
quando m’invento di scrivere,
in cui la paura mi prende alla gola.
Sono letteralmente terrorizzato.
Poco dopo ringrazio dio;
alla terza parola ho salva la vita.

Secondo la mitologia dell’antico Egitto il sole è l’occhio del dio “Ra” mandato a sterminare tutti gli uomini dopo che questi si erano ribellati al potere della divinità, ma che ubriacatosi rinunciò a compiere il massacro del genere umano e quindi salì sul dorso di Nut, il cielo, e lì rimase.
Il sole mi odia, viste le innumerevoli scottature riportate nel corso degli anni e il sentimento è reciproco se penso che prima o poi ci esploderà in faccia riducendo tutto in cenere. L’unica cosa buona che il sole fa per me è l’ombra. Se andare in paradiso significa essere ammessi al cospetto della luce per l’eternità, non vedo quale sia la differenza dal bruciare all’inferno. Forse il dolore, ma sempre di sottomissione si tratta.
Io amo Marte. Provo per il pianeta rosso un’inspiegabile nostalgia. Per dirla tutta non mi sono mai sentito un terrestre, non un discendente dal ceppo di Adamo ed Eva almeno. Non poter respirare sott’acqua, non saper volare e non essere muniti né di scudi protettivi come le tartarughe, né di zanne e artigli come anche il più minuscolo cagnolino d’appartamento, sono una prova del fatto che gli esseri umani provengono da un pianeta dove non esistono distese d’acqua come laghi, fiumi e mari e la gravità è minore, tanto da permetterci di effettuare enormi balzi e saltar giù dalle montagne senza danno subire. Su Marte vivono vermi, creature senza unghie o denti, pungiglioni o chele. Il pianeta rosso è come era la terra milioni di anni, o come sarà un giorno non troppo lontano. Se i pianeti avessero un carattere il sole sarebbe un tipo con un ego enorme, un duro dal cuore gentile, forte e sicuro di sé, protettivo come un vero leader e allo stesso tempo implacabile come un tiranno. Marte un tipo sfuggente, affascinante e misterioso con quel suo starsene sempre in disparte come un lupo solitario, un caro parente che non vedi da anni e così la luna l’ho sempre vista come una vicina di casa, una vecchia zitella petulante, un entità senza misteri che va presa per quel che è.
Il calore del sole mi ricorda l’insopportabile sensazione della sabbia appiccicata sulla pelle durante gli interminabili pomeriggi di luglio che mia madre mi costringeva a passare sulle spiagge arroventate della riviera romagnola, unto di creme protettive che puntualmente venivano meno al loro scopo. «Stai al sole che ti fa bene! Cosa ci vieni a fare in spiaggia se stai sempre sotto l’ombrellone?» cinguettava distesa sul lettino come una lucertola sul marciapiedi «Appunto…». Io passavo il tempo ruotando attorno all’ombrellone come la lancetta di un orologio per seguirne l’ombra e completando giochi di parole scritte sulla sabbia con un bastoncino e chiudendomi nella toilette per fumare di nascosto. Quel sole non avrebbe mai illuminato i canyon della mia anima. Le grida da gabbiani isterici dei bambini alle prese con un granchio moribondo intrappolato nel bagnasciuga, non mi distoglievano dal mio supplizio più silenzioso di una bistecca sulla piastra.
Ricordo che un’estate, una delle due sorelle di mia madre ci accompagnò in vacanza rimanendo nostra ospite almeno due mesi su tre. Ufficialmente per aiutare mamma nelle faccende e tenerle compagnia, ufficiosamente per garantire che la giovane sorella non si trastullasse con qualche playboy da spiaggia.
Zia Carla era una donna dalla pelle nivea e immacolata ed il corpo longilineo e ben fatto. La lucentezza del suo viso era attenuata da un filo di trucco lieve come il color pastello. Me la ricordo patinata come l’immagine di un’attrice degli anni “50. Le sue pose tragicamente delicate mi ricordavano le statue di marmo bianco che avevo visto al museo durante una gita scolastica. I suoi vestiti sobri ed eleganti che le fasciavano il vitino da vespa e il suo modo di fare, sensuale e riservato al tempo stesso mi piacevano a tal punto che avrei voluto fosse lei la mia mamma. Sembrava sempre sul punto di piangere ma poi il suo volto si illuminava di un sorriso ammiccante che rivelava una dentatura perfetta di un bianco splendente che mai avresti detto servisse a macerare del volgare cibo. Mi fissava immobile come una fotografia ed il suo sguardo sembrava dirmi «Lo so, non ti preoccupare» e ciò mi faceva sentire stranamente straordinario. A lei non piacevano i bambini, le piacevo io. In lei albergava la rassegnazione d’aver commesso un errore che prima o poi avrebbe pagato molto caro. Soffriva di svariati ed indefinibili disturbi ed ogni cosa, perfino un soffio di vento, o la spinta di un passante distratto sembravano poterla far precipitare da quel filo su cui camminava in precario equilibrio. La sua vitalità era come la fiamma di una candela che avrebbe finito col consumarla. Si era sposata molto giovane, come tutti allora. Lui era un burocrate che lavorava in banca e che la sepellì lentamente sotto metri di sensi di colpa per non aver avuto figli. Lo zio Nino era alto e canuto, un uomo nato vecchio dal carattere astioso e pignolo, fanatico di tutto e geloso di ogni cosa. Sapeva dirti da quante lettere fosse formata ogni parola dell’alfabeto, ma parlava poco e rideva troppo. Sfidava noi ragazzini in quel irritante gioco delle lettere e si vedeva che provava piacere a vincere contro i più deboli. Zia Carla morì di cancro quando avevo 11 anni e lo fece come ogni altra cosa nella sua vita; evitando accuratamente di attirare l’attenzione.
In tre mesi di mare, mio padre passava con noi tre o quattro fine settimana. Con noi. Nel senso che occupava lo stesso villino per una notte e si sdraiava al sole accanto a quello stesso ombrellone al quale io mi aggrappavo. Non esiste foto che ci ritragga tutti assieme. Leggeva il giornale per ore, poi si alzava improvvisamente come si fosse ricordato un impegno ed entrava in acqua. Nuotava fino agli scogli con bracciate forti e sicure e tornava a sedere sullo sdraio senza proferire parola. Le rare volte in cui apriva bocca lo faceva per mangiare o per ricordarmi quanto gli costasse farmi fare più di novanta giorni di mare all’anno. Le sue parole erano come le frecce di Ercole. Avrei preferito mi pestasse a morte, ma forse a suo giudizio non meritavo nemmeno quello. Arrivava il sabato mattina bianco come il latte e ripartiva la domenica sera e la sua pelle era rossa, fosforescente, cotta dal sole, ma lui non sentiva nulla. Era come se indossasse una corazza. Lo stesso accadeva quando beveva il brodo bollente, mentre io dovevo farmelo passare da un piatto ad un altro almeno dieci volte per riuscire e sfiorarlo con le labbra. La sua era un impermeabilità assoluta ed impenetrabile.
È Giugno. Un’afosa nebbiolina stile videogioco di vecchia generazione, sovrasta la città puzzolente per la troppa umanità che ci respira e caga dentro.
Uscendo dall’ufficio per la pausa pranzo, mi lascio alle spalle per l’ennesima volta la massima di Tolstoj che recita “Non è importante il posto che occupiamo, ma la direzione in cui stiamo andando”. I caratteri in plastica dorata alti almeno venti centimetri, sembrano fiorire dalla parete sopra la reception. Le centraliniste probabilmente non hanno mai letto quella frase e le stagiste che percorrono chilometri tra fotocopiatrice, distributori di caffé e scrivanie, direbbero che quelle parole sono state scritte da qualcuno che non ci si è mai trovato sotto.
Se la vita fosse un Cd, sul display a cristalli liquidi apparirebbe il numero dei brani e tu sapresti sempre a che punto sei ed ogni momento sarebbe in qualità digitale, ma non è così. Tutt’al più la vita è come una musicassetta, popolata di fruscii e frammezzata di silenzi e per molti di noi il nastro s’inceppa molto prima dell’ultima canzone.
Il lato “A” contiene la musica più orecchiabile. Il brano portante, quello che di solito da il titolo all’album, solitamente è il secondo, o terzo, poi altre tre o quattro canzonette ed è tempo di girare la cassetta. Più o meno trentacinque minuti per parte e l’ultimo pezzo del lato “B” di solito è quello meno commerciale e che i più non apprezzano.
Io ho appena girato la cassetta e la prima canzone non mi piace affatto.
Ne ho dovuti fare di aggiustamenti di rotta dai tempi in cui riscuotevo consensi per la mia esuberante creatività. Allora la sregolatezza applicata come regola fissa, nutriva e si nutriva a sua volta di idee sempre più azzardate ed originali, malgrado nel 90% dei casi non portassero a nulla; ero un cane che tenta di mangiarsi la coda, sebbene con estrema e caparbia soddisfazione.
Giusto un anno fa uscivo dall’enorme sala conferenze con le pareti in vetro e le sedie imbottite e rivestite ognuna di colore diverso, dove il direttore del personale della “CreaPublyCom”, “C.P.C.” per gli addetti ai lavori, mi aveva dato il benvenuto nella scuderia. Quella che sarebbe stata la mia segretaria personale mi informò con molto tatto che il mio abbigliamento doveva essere rivisto da capo a piedi. Avrei dovuto immaginarlo vedendola tacchettare verso di me costretta in un tailleur color crema lungo fino al ginocchio quando fuori il termometro misurava 39 gradi. Capelli raccolti in uno stretto chignon, sguardo freddo e fisso dietro occhiali da vista con montatura stile Arisa. Le parole le uscivano di bocca rapide, come se fuggissero. Io indossavo la maglietta che avevo creato appositamente per la ditta di mio padre. Il logo color bianco e arancio si ripeteva lungo le maniche dalla spalla fin giù al polsino e sul davanti un fumetto raccontava in cinque vignette dal tono comico, di cosa si occupava l’azienda. Per molti l’aver lasciato l’azienda di famiglia era stata una follia, per altri un atto di coraggio. A mio modo di vedere l’unica differenza è che ora allo sconosciuto a cui faccio capo devo dare del “lei”, a mio padre potevo dare del tu.
«Salve. Io sono Daria, la sua segretaria personale» porgendomi una manina flaccida e morta che io temetti di spappolare con la mia stretta «Mi segua le mostro il suo ufficio» mi fece strada a piccoli e rapidi passi «Io mi occuperò di filtrare le telefonate in arrivo e comporre i numeri in uscita, se lei lo desidera, consegne da parte di corrieri e simili, ricordarle appuntamenti, anche personali, prenotare per lei ristoranti, aerei, treni, taxi e quant’altro…» continuò senza voltarsi «tutto ciò che di solito fanno le segretarie, insomma…» stringendosi nelle spalle con una risatina stridula «Quanti anni ha?» chiesi «ventinove» rispose secca, come si aspettasse la domanda. Percorremmo un lungo corridoio tappezzato d’uffici con enormi finestre che davano sulla strada otto piani più in basso, dietro ogni porta persone che gesticolavano al telefono o assorbite dallo schermo di un Pc, quindi una zona schedari, locali tecnici e servizi, sala fotocopie, zona cucina, altra sala riunioni in vetro ma molto più piccola dell’altra, girammo a destra prima delle porte scorrevoli che davano su una piccola sala d’attesa dove le ragazze della reception ridacchiavano coprendosi la bocca con la mano e due ascensori suonavano mentre le porte si aprivano lentamente. Altri due o tre chilometri di corridoio ci portarono al cuore della compagnia, ovvero la “CreativeZone” scritto in caratteri neri su sfondo rosso. «Troverà la sua tessera personale nel primo cassetto della sua scrivania» mi informò Daria con voce incolore sventolando la sua sopra le spalle. Il led verde lampeggiò tre volte e le porte si aprirono con uno sbuffo. La filodiffusione mandava musica ambient a volume appena udibile e un odore di limone e disinfettante usciva dalle bocchette dell’aria condizionata. La moquette scura soffice e spessa attutiva il rumore dei passi ed ogni altro suono. Gli uffici si diradarono facendosi più ampi, in uno notai un uomo sulla trentina che parlava da solo gesticolando e quando, un altro si accese una sigaretta ed io la sentii bruciare. “Perché ho smesso di fumare?” mi domandai. Un omino azzurro distingueva la toilette degli uomini da quella delle donne e nel mezzo, una porta con su scritto “Uscita d’emergenza – Scale lato Sud” con un omino bianco che si precipitava giù per una scala sospesa nel nulla color verde. Una sala d’attesa con tavolini in vetro stracolmi di merchandising, distributore di caffé, bibite e tramezzini preconfezionati, porta depliants girevoli, poltroncine e Tv con CNN a volume zero. «Eccoci qua!» esclamò con enfasi arrestandosi di fronte ad una porta dalla quale era stata rimossa una targhetta che con ogni probabilità portava il nome del mio predecessore. Mi lanciò un’occhiata carica di diffidente curiosità ed impugnata la maniglia in alluminio satinato, aprì la porta con rispettosa delicatezza, lentamente come fosse l’ingresso di un luogo sacro. «Prego» sussurrò lasciandomi il passo. Un cinque metri per quattro arredato in stile new age, acciaio, plastica colorata e vetro. Scrivania in plastica massiccia con dietro una parete di finestre, un divano e due poltrone, anche questi in finta pelle rossa, tavolino in vetro con al centro un grosso vaso da fiori in vetro colorato. Sulla destra una libreria in acciaio con ripiani in plexiglass stipata di vocabolari e dizionari, book fotografici, elenchi telefonici.

[continua]



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