Satireggiando - Satire di costume e malcostume

di

Marco Raja


Marco Raja - Satireggiando - Satire di costume e malcostume
Collana "La Magnolia" - I libri di Umorismo e Satira
15x21 - pp. 314 - Euro 14,00
ISBN 978-88-6587-0594

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In copertina e all’interno illustrazioni di Carlo Lazzaretti


Prefazione

Satira è una voce derivante dal latino classico “satura” e si riferisce a un componimento in prosa o in poesia, oppure misto, forse da “lanx satura” e significa “piatto ricolmo di svariate primizie” e anche di macedonia di frutta, poi, per estensione figurata dell’immagine, assume il significato di opera che ridicolizza i vizi, i comportamenti, le abitudini, le idee altrui. Secondo alcuni è proveniente da voce di origine etrusca “satur”. Secondo altri invece da un più antico “saturos”, da una radice “sat”, ampiamente attestata in area indoeuropea, da cui anche “satis”, da dove deriva il nostro avverbio “abbastanza” e il nostro verbo “saziare”.
Gli studiosi pensano a una funzione religiosa, a base di cibi saporosi, quale offerta alle due divinità femminili delle messi, la greca Demetra corrispondente alla romana Cerere, ritualità accompagnate da sapide e gaie battute verbali, talvolta dissacranti, unite a canti e a musiche.
L’ellenismo ci dona una produzione di satira umoristica e polemistica soprattutto in campo filosofico.
Passata dalla Grecia alla romanità e dilatatasi alla forma letteraria, pur conservando la sua antica origine, la satira ha cultori e seguaci quali: Ennio, Lucilio, Nevio, per poi manifestarsi nella satira discorsiva e parlata di Giovenale, Marziale, Orazio, Persio, Quintiliano.
Nel Medioevo la satira si presenta nei “misteri buffi”, nelle “composizioni carnevalesche”, nella forma etico-religiosa contro il potere, servendosi dell’allegoria e della rappresentazione favolistica che ricorre agli animali come simboli di vizi e virtù degli uomini.
Nel Rinascimento si incontrano le satire di Ludovico Ariosto, dal raffinato e misurato fervore.
Quelle di Pietro Aretino spregiudicate, dissacranti, talvolta oscene. Di Merlin Cocai (Teofilo Folengo), dal lessico bizzarro, piacevole, parodistico, miscelato al dialetto e a neologismi latineggianti, tanto da influire sull’opera dello scrittore francese Francois Rabelais che mitiga l’amarezza del vivere con un umorismo nitido e conciliante. Del Ruzante o Ruzzante (Angelo Beolco), dalla scrittura rusticana comico-farsesca in chiave giullaresca e parodistica, capace persino di affrontare il dibattito platonico sulla natura dell’amore.
Nel Settecento, con l’illuminismo, la satira aggredisce certi miti e pregiudizi figli dell’ignoranza.
Carlo Gozzi, da raffinato moralista, satireggia il costume civile. Vittorio Alfieri si pone contro i tempi meschini e servili. Giuseppe Parini fustiga la vita fastosa e oziosa della nobiltà.
Nell’Ottocento la satira diventa radicale nell’opera di Giacomo Leopardi, ove si alternano moti aggressivi a tonalità fiabesche e funerei scherzi dal sapore macabro e crudele. In Giuseppe Giusti, invece, prevale l’intonazione critica, frizzante, gioiosa, che mira al riacquisto della concretezza e del buon senso. La satira ottocentesca si arricchisce di una letteratura dialettale come a Milano con Carlo Porta e a Roma con Giuseppe Gioacchino Belli.
Nel Novecento sono i giornali e le riviste a tenere viva la satira, soprattutto politica e sociale, sia in lingua, sia in vernacolo, con Trilussa (Carlo Alberto Salustri), Giovanni Guareschi, Dario Fo e altri.

Caro e benevolo lettore, vista la confusa e irriguardosa situazione della società odierna, parlare un linguaggio serioso è pernicioso, soprattutto per i più sensibili alle assurdità serviteci ogni giorno sul vassoio del cattivo gusto dai mass media; è consigliabile riderci sopra con un po’ di ottimismo ristoratore. L’ottimista è colui che non crede al peggio che verrà. Al massimo crede nel meno peggio probabile. L’ottimista è, quasi sempre, un umorista rettificato sull’arguto, ma può anche essere un pessimista spiritoso. Egli possiede l’ironia, dono agrodolce regalatoci dalla vita amara.
Ecco perché ho deciso di rivolgermi ai volenterosi che volessero leggere questo mio scanzonato “Satireggiando” su quella enigmatica e contraddittoria creatura definita dalla scienza “Homo sapiens sapiens” ma che di sapienza dimostra di averne poca in corpo.
Lo scrittore inglese Jonathan Swift ci fa sapere che: “La satira è una sorta di specchio, dove gli osservatori in genere vedono le facce di tutti tranne le loro”. Penso che nessuno possa dargli torto.
Quale modesto cultore dell’umorismo satirico sono convinto che si vedano i difetti altrui e non quelli propri, poiché giudicare sé stessi è arduo, quasi impossibile. C’è sempre la egoistica e faziosa autodifesa a disposizione. Sono anche persuaso che l’ironia, per quanto mordace, pungente e caustica essa possa apparire, in ogni occasione ha tentato di mettere in mostra la verità scherzandoci sopra.
Le cose dette con ilarità sono sempre più genuine ed efficaci di quelle esposte seriosamente, quasi sempre intrise dall’ipocrisia del tornaconto.
La satira, da sempre, esamina tutti i mali, le contraddizioni, i convenzionalismi, le ipocrisie, i vizi, le malefatte, colpendo i costumi e i malcostumi imperanti nella utopica speranza di emendarli.
La satira è la saggezza vestita da pagliaccio sapiente, che prova amarezza quando la gente non vuole capire nulla del vivere comune. Essa attacca sempre il potere mettendolo a nudo davanti a tutti. E il potere denudato ne soffre disagio per dover esporre in pubblico le sue vergogne.
Essa è la spada che trafigge senza uccidere. Provoca il mugugno in qualcuno e la risata in qualcun altro, poiché costruisce demolendo, deridendo la demolizione.
La satira, come tante altre parole, si presta a essere anagrammata in modo da formare un’altra parola con diverso significato. Il risultato è, nel nostro caso, sorprendente poiché l’anagramma che ne risulta, udite, udite pazienti lettori, è “risata”. Una parola che si adatta molto alla società odierna che sembra aver perso irreversibilmente il ben dell’intelletto.
La satira, per quanto possa essere mordace e feroce, non ha mai divorato nessuna persona, semmai può tentare di farla digerire tramite l’effervescenza digestiva dell’umorismo con le sue frizzanti bollicine. Riesce persino a farci passare la sbornia, somministrataci dai mass media molesti e indigesti. La satira, non a caso, è un sostantivo femminile che onora in pieno, con acume, la sua femminea scaltrezza. Nella sua paradossale bizzarria acquista efficacia e il massimo valore quando tratta le cose serie.
La satira può talvolta esagerare le dosi delle battute ma ne risveglia molte di più da accumulare in magazzino in attesa di utilizzo. Essa se non ricorre al paradosso è come un fucile senza carica addosso. È questa sua potenzialità esplosiva che evidenzia la verità ridendo, che altro non è se non la più schietta, efficace realtà non contestabile di ogni giorno.
Lo scienziato e scrittore tedesco Georg Christoph Lichtenberg a proposito della introduzione che precede un libro dice: “La prefazione di un libro potrebbe essere definita il parafulmine”. Spero che questa prefazione a “Satireggiando” sia garanzia contro le folgori provenienti dai cieli della critica nei miei confronti, in quanto la bonomia della tolleranza verso la satira è quasi sempre ovunque presente.
Il satirico è un altruista, un umorista malinconico, diventato tale per troppe ilarità donate agli altri.
Egli ha un modo di vedere e di analizzare il mondo donando il balsamo del sorriso, poiché se uno non sorride mai, non vive mai. Il sorriso è un linguaggio universale perché tutti sorridono allo stesso modo. Esso è il propellente che sprigiona in noi e fuori di noi la luminosa energia della serenità. È una benefica tranquillità spirituale impressa nell’anima e ascesa, per saggia bonarietà, al volto.
Sono sempre più convinto che il sorriso sia la firma di Dio posta sotto la Sua Creazione. Sotto la Sua Misericordia. Sotto il Suo Mistero. Il sorriso è una taumaturgica forza capace di migliorarci dentro.
Questa raccolta di caserecce satire del mio “io”, in tensione con la società odierna inquinata di ogni sorta di iniquità, facendo parlare persone, animali, cose e accadimenti con voce umana, vuole bollare col marchio del rifiuto i vizi e le ipocrisie che ci invadono, con i tossici del malcostume, contaminandoci la mente e l’anima.

L’Autore


Satireggiando - Satire di costume e malcostume


A tutti coloro che della satira ne gustano
l’arguto effervescente sapore.


All’amico e scrittore Sergio Pizzuti sempre sollecito con generosa dedizione, virtù a lui connaturale, devo riconoscente gratitudine per avere fraternamente collaborato attraverso preziosi consigli alla pubblicazione di questo mio libro.
Con stima, simpatia e affettuosa amicizia.

L’autore


Proemio

Fare un libro è meno che niente

Sagace e sapiente
disse un poeta
assai convincente.
– Il fare un libro
è meno che niente
se il libro fatto
non rifà la gente –.
Nel dire questo,
con mille ragioni,
fece capire
che i libri, non tali,
da mettere in sesto,
sono quintali,
non c’è che dire,
sono milioni.
Sono assai pochi,
quelli immortali,
gli altri sono rochi,
di voci geniali.
Pur questo eloquio,
di mia fattura,
è broscia totale,
è vero sproloquio,
alquanto stantio,
è orrenda bruttura,
ha poco sale,
scarso è il suo brio.
Diciamoci il vero,
ha corto il respiro,
val meno di zero.
Del mondo bislacco,
dei libri fasulli,
è sol presa in giro,
è mite attacco,
ai gasati citrulli,
un loquace staffile,
ma è privo di bile.


Ogni scherzo vale

Prendere per i fondelli,
questi, codesti e quelli,
senza cattiveria,
non è poi tutto male.
Quando la cosa seria,
finisce in carnevale,
allor, per la miseria,
ogni scherzo vale.


La morte della satira

Sol se nella satira,
c’è il paradosso,
si riesce a mordere,
la carne e l’osso.
Se non si abbonda,
di buoni fendenti,
presto si spegne,
stiamoci attenti.
Può presto crepare,
d’apoplessia,
un bel funerale
e un “così sia”.


Capitolo 1

Fratelli d’Italia

Sino dall’antica Roma il politico e storico Cornelio Tacito nella sua “Storie” scrisse “L’Italia e Roma capo del mondo, nomi mai oscuri, benché talvolta s’addombrino”.
Da secoli la nostra bella ma seviziata Italia è nel mirino di personaggi illustri e fra i primi i poeti che ne denunciano le sorti in cui la nostra Patria è destinata a soffrire insieme ai suoi abitanti.
È noto il VI canto dantesco del Purgatorio in cui il sommo poeta dice: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave senza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello”.
Fanno da contro canto al poeta fiorentino in molti altri.
Primo fra tutti Giacomo Leopardi nei “Canti” con la nota poesia “All’Italia” dice: “O patria mia, vedo le mura e gli archi/ e le colonne e i simulacri e l’erme / torri degli avi nostri, / ma la gloria non vedo, / non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi / i nostri padri antichi. Or fatta inerme, / nuda la fronte e nudo il petto mostri. / Oimé quante ferite, /che livor, che sangue! Oh qual ti veggio,/formosissima donna! Io chiedo al cielo / e al mondo: dite, dite; / chi la ridusse a tale? E questo è peggio, / che di catene ha carche ambe le braccia; / sì che sparte le chiome e senza velo / siede in terra negletta e sconsolata, / nascondendo la faccia / tra le ginocchia e piange. / Piangi, che ben hai donde, Italia mia, / le genti a vincer nata / e nella fausta sorte e nella ria”. E prosegue al lungo la sua lamentazione.
Il poeta e commediografo seicentesco Carlo Maggi ci fa sapere. “Italia, Italia mia, questo è il mio duolo; / allor siamo giunti a disperar salute, / quando pensa ciascun di campar solo.”Il poeta risorgimentale Giovanni Berchet, nel suo “Il romito del Cenisio” scrive: “Come il mar su cui si posa, / sono immensi i guai d’Italia, / inesausto il suo dolor”. Il frizzante Giuseppe Giusti in “Lo Stivale” ci fa sapere: “Io non son di solita vacchetta, / né sono uno stival da contadino; / e se paio tagliato con l’accetta, / chi lavorò non era ciabattino: / mi fece a doppia suola e alla scudiera, / per servir da bosco e da riviera.” Il poeta siciliano Mario Rapisardi nel “Frammento” ne carica la dose domandando agli italiani: “Conosci tu il paese dei floridi aranceti / che ha su cento abitanti settanta analfabeti? / Il paese poetico, dall’aure profumate, / che riceve le rondini a fucilate?”
L’inno “Fratelli d’Italia” fu composto nel 1847 dal poeta e patriota Goffredo Mameli su musica del maestro Michele Novaro e solamente nel 1946 divenne “Inno Nazionale”. Lo scrittore e patriota Carlo Cattaneo nel 1850 a Lugano, con una quartina titolata “Controcanzone ai Fratelli d’Italia” parafrasa ironizzando l’inno scrivendo: “Che dite? L’Italia non anco s’è desta. / Convulsa sonnambula / scrollava la testa.”
In questo spirito scherzoso (ma non troppo), ho composto questo nuovo “Italico Inno”, apparentemente mordace ma in fondo speranzoso del meglio che verrà a farci visita. Se verrà!
La situazione socio-politica-partitica-asfittica, in parecchie occasioni, sta raggiungendo vertici inaccettabili. È cosa paradossale ove ogni scherzo vale e valendo assai bisogna tenerne conto per non incorrere in ulteriori guai.
L’Italica “Torre di Babele” minaccia di crollarci addosso con le sue macerie e i suoi polveroni che possono travolgerci e soffocarci. Dizioni e contraddizioni, già al mattino, ci gettano addosso il “caso” giornaliero che poi si fa notturno, gremito di incubi malevoli.
Penso pochi abbiano notato che il sostantivo “caso” è l’anagramma di “caos” che, a sua volta, nel linguaggio moderno, non troppo sopraffino, significa “casino”.
La voglia di approcci intelligenti, sereni, onesti, di coloro che abbiamo votato, sembrano dispersi nei banchi delle nebbie autunnali, banchi peraltro, privi di cattedre di luce illuminante, ove docenti non annebbiati potrebbero insegnare ad acquisire il buon senso comune, oggi diventato senso vietato. E i docenti più qualificati sono gli italiani che “eletti” non sono. Mentre gli “eletti” sono esseri di pregio saliti al potere grazie all’errore di un voto a loro regalato.
Di seguito, eccoti indulgente lettore, per lo spasso tuo e di altri, l’inno “Fratelli d’Italia”, caro a quasi tutti i penisolani, riveduto e adattato alla quasi perenne poco edificante situazione del Paese.
Si tratta di una revisione aggiornata tutt’altro che dissacrante, vista la dissacrazione già in atto compiuta dal malcostume dilagante senza scusante.
Sono abituato a ricorrere alla assonanza delle parole, perché più orecchiabili e istruttive, a oltranza, ove la circostanza duole.


Fratelli d’Italia

Fratelli d’Italia,
l’Italia è in tempesta,
questo è il principio
di un’era funesta.
Penosa la storia,
parte da Roma,
eterna e mai doma
che più non si può.

Stringiamoci forte!
Nefasta è la sorte;
speriamo di no.

Nel nostro Paese
si ruba e si magna,
stroncare bisogna,
la losca cuccagna.
Son troppe, son tante,
tasse e gabelle,
raggiungon le stelle
finire dovrà.

Stringiamoci forte!
Nefasta è la sorte;
speriamo di no.

Noi siamo delusi,
calpesti e ingannati,
perché come popolo
siam stati fregati.
Munti noi siamo,
il fisco ci spreme
mettiamoci insieme,
a dire di no.

Stringiamoci forte!
Nefasta è la sorte;
speriamo di no.

Con mafia e camorra,
da sempre il potere
manovra e complotta
e vuol possedere.
Nella Nazione,
protetti e serviti,
i falsi pentiti
regnano ognor.

Stringiamoci forte!
Nefasta è la sorte;
speriamo di no.

Fra i magistrati – per la miseria -,
vi sono indagati,
è cosa seria.
Mettiamoci uniti,
gli iniqui cacciamo,
sbattiamo in galera
i lesti di mano.

Stringiamoci forte!
Nefasta è la sorte;
speriamo di no.

La Patria s’inquina,
d’Europa il giardino,
sembra infestato
da fosco destino.
L’aria s’infetta,
l’acqua ammalata
e pure la selva
viene bruciata.

Stringiamoci forte!
Nefasta è la sorte;
speriamo di no.

Dall’Alpe a Sicilia,
facciamo barriera,
fermiamo le stragi,
del sabato sera.
Ai giovan d’Italia,
con legge belluina,
la droga assassina,
si vuole donar.

Stringiamoci forte!
Nefasta è la sorte;
speriamo di no.

Poi c’è chi vuole
dividerci in razze,
l’Italia è già in coma,
son cose pazze.
Stivale in frantumi
vuol dire spezzato,
così pugnalato,
risorger non può.

Stringiamoci forte!
Nefasta è la sorte;
speriamo di no.

In questo bordello
la gente è smarrita
l’Italia che affoga,
perde la vita.
L’italica stirpe,
nulla vuol fare,
tira a campare,
così non si può.

Stringiamoci forte!
Nefasta è la sorte;
speriamo di no.

Uniamoci tutti,
l’unione dei cuori
rivelan al popolo
antichi valori.
Facciamo gli onesti,
gli untori cacciamo,
agire dobbiamo,
volendo si può.

Stringiamoci forte!
Nefasta è la sorte;
speriamo di no.

Volendo si riesce
ricucir lo Stivale,
facciamolo tutti,
l’azione assai vale.
L’Italia vogliamo
ricolma d’amore,
fratelli veraci,
nel tricolore.

Stringiamoci forte!
Nefasta è la sorte;
speriamo di no.

.



L’Italica sventura

L’Italia è Stivale
a lunga coscia,
traverso e sbilenco,
in mezzo al mare
può affondare.
Il nord produce
il centro consuma,
il sud si sveglia
con brutti sogni,
è pien di bisogni.
Tomaia lisa,
tacco scollato,
suola bucata,
c’è malandare,
nel nostro calzare.
Mafia e camorra,
gaglioffi e corrotti
fan da padroni,
il Bel Paese
ne fa le spese.
È caos totale,
nefasto alquanto,
ordin ci vuole,
è cosa seria,
per la miseria.
Un calzolaio
assai provetto,
rimetta in sesto,
lesto, perbacco,
tomaia, suola, tacco.
Talvolta giova
visitar la storia,
s’aggiustan le cose,
gli umani torti,
con modi forti.
C’è la galera,
essa risana
la piaga infetta,
della canaglia
che appesta l’Italia.
I nostri padri,
sapienti e saggi,
assassini e ladri
mettevano dentro
per tutta la vita
ed era finita.


Lo Stato umiliato

Scrisse un giornale:
– Purtroppo in Italia
la coscienza statale,
sfugge in totale. –
Per ricercarla
in mezzo alla gente,
ci vuole niente,
è cosa geniale
porre una taglia
sull’intero Stivale.
Quando il progetto
fu attuato,
il premio offerto
giacque negletto,
fu mai ritirato.
Si fece deserto
in tutto lo Stato,
ancor più umiliato.


L’Italia e il tricolore

Su questa amata Italia,
squassata e stanca,
malata di squallore,
sventola bandiera bianca.
Sugli spalti del dolore,
s’ammaina il tricolore.


Epigrafe per l’Italia

Qui giace atrocemente pugnalata
la bella Italia morta dissanguata,
spirò per colpi a Lei vibrati,
da orde di politici e magistrati.
In questo luogo sacro e pio,
sia rivolta una preghiera a Dio,
che l’accolga con affabile sorriso,
fra la schiera dei martiri in Paradiso.


Povera Italia

Povera Italia, sei messa male,
biscazzieri e turpi sensali,
ti han messo le corna e tolte le ali.
Povera Italia, terra ubertosa,
sacral territorio,
ridotto a spettrale mortorio.
Povera Italia, ti hanno tradita,
pure la lingua, tanto amata,
di barbarismi ti hanno inquinata.
Povera Italia, cara sorella,
donna virtuosa, nobil matrona,
ti hanno umiliata a vera battona.
Povera Italia, ci hanno ridotti,
le losche tue bande,
soltanto in mutande.
Povera Italia, in questo bordello,
ti han segregata,
la tua luce è tramontata.
Povera Italia, patria d’ingegni,
ti hanno violata, umiliata, calpesta,
l’italica stirpe più non si desta.



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