dossier: Villa Argentina

di

Manuel Santini


Manuel Santini - dossier: Villa Argentina
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 190 - Euro 13,50
ISBN 978-88-6587-0952

Clicca qui per acquistare questo libro

Vai alla pagina degli eventi relativi a questo Autore


In copertina: fotografie dell’autore


Dopo decenni di abbandono, Villa Argentina, manifesto stile Liberty in pieno centro di Viareggio, ritrova il suo splendore nelle vesti di Centro Congressi. Una sera d’agosto una coppia di amanti che vi lavorano cercano la loro intimità in uno degli uffici dell’ex pensione ma i piani non seguono il solito percorso. Succede, infatti, qualcosa di inquietante che porterà Sergio Zoiatra, direttore delle indagini, a dover cercare una soluzione al caso più intrigante della propria carriera…


Questo romanzo è un prodotto di fantasia. Nomi di persone realmente esistenti o esistite e fatti realmente accaduti, sono casuali. Gli interni di Villa Argentina sono stati ricostruiti secondo pura immaginazione, tranne le descrizioni delle opere d’arte davvero contenute nell’edificio. La storia della Villa per quanta riguarda i primi proprietari e i relativi ampliamenti è reale. Ogni vicenda successiva al 1939 è stata inventata.


dossier: Villa Argentina


“Dubitare di tutto o credere in tutto
sono due soluzioni allo stesso modo convenienti
entrambe dispensano dalla necessità di riflettere”.

Jules-Henri Poincaré

“Ciò di cui abbiamo bisogno non è la volontà di credere,
bensì il desiderio di scoprire”.

Bertrand Russell

“La scienza non ha fatto progressi
che dopo aver eliminato Dio”.

Pierre-Joseph Proudhon


1. Dopo le scale a destra


1

I jeans erano abbandonati sullo schienale di una sedia. I calzini raggomitolati dentro le scarpe, una accanto all’altra. Bianche, sembravano l’unica fonte di luce di una scena di un vecchio film in bianco e nero. Così appariva quella stanza, illuminata solo da un debole fascio metallico che dalla strada vi entrava attraverso i fori di un’avvolgibile. Tutto era in penombra, i colori erano solo sfumature di grigio, come in una radiografia. Una camicia messa sopra i jeans, come se fosse indossata dalla sedia. Un paio di scarpe che luccicavano, col tacco. Una qua, una ai piedi della scrivania. Una maglietta a maniche corte piena di lustrini buttata sul pavimento. E poi la ragazza che si stava togliendo i jeans davanti al ragazzo, seduto su una poltrona di pelle con addosso solo degli slip neri. Lei ancheggiava mentre si toglieva i pantaloni, dava mostra delle sue curve ai fianchi e man mano che scopriva la sua pelle, la luce non illuminava più come di riflesso i jeans, ma il colore dorato della sua abbronzatura. Svelò agli occhi del ragazzo il suo intimo, minimo ed essenziale.
“Se dovessi dare un titolo a questo film… beh, non esiterei a chiamarlo __La sottile linea rossa__” disse lui con tono provocatorio.
“Cosa fai dell’ironia?” fece Silvia sorridendo.
Lei si mise di traverso sulla poltrona di pelle, sdraiata su di lui e con le gambe piegate in una “V” rovesciata. Gli mise il suo braccio destro attorno al collo e iniziò a baciarlo lentamente. La luce dai fori dell’avvolgibile sembrava volesse illuminare solamente quella porzione di stanza, come uno sguardo sull’incontro dinamico di due bocche. Lui le mise una mano sul fianco sinistro, quasi come per trattenerla. Era un contatto che era necessario stabilire da subito, secondo Guido. Poi lei dalle labbra scese a perlustrare il collo del ragazzo, il quale piegò la testa all’indietro appoggiando la nuca sulla spalliera della poltrona. Silvia smise la posizione assunta per mettere i piedi a terra. Un cordino sottile attorno alla sua caviglia. Da lì in poi fu una discesa fino a che il corpo del ragazzo non si disperdeva con la pelle della poltrona. Fu la ragazza a togliersi per prima l’intimo di dosso. Fatto cadere accanto alla poltrona. Il rosso di quel tanga fu percepito solo nell’istante in cui lei lo alzò in direzione della finestra per farlo vedere al ragazzo. Poi diventò di un colore indecifrabile una volta uscito dalla sua presa. La ragazza appoggiò le ginocchia sui bordi laterali della poltrona iniziando a fare la gatta, accarezzando il viso di lui con la sua pelle, fino a quando come in un bacio di diversa natura si unirono nuovamente le labbra senza che questa volta si potesse collegare il contatto alla parola bacio. La luce adesso illuminava un frammento di volto del ragazzo, che stava tenendo gli occhi chiusi, mentre le sue mani stavano strette sulla rotondità del sedere di Silvia che lentamente sembrava seguire le mosse di Guido. Non una parola tra i due in quei momenti, solo il respiro pesante di lei che sembrava gli stesse a cavallo sulla faccia. Lei ad un certo punto scese da quella sella fittizia, andando a prendere la sedia sulla quale poco prima il ragazzo aveva appoggiato i suoi vestiti. La mise davanti alla poltrona di pelle, dove il compagno stava ancora seduto e con gli occhi chiusi. Li aprì e le sorrise. Lei dopo essersi messa a sedere disse:
“Adesso come lo chiameresti questo film?”
Lui inarcò la bocca in un sorriso, portandosi poi il labbro inferiore tra le due arcate dentarie in un morso di eccitazione. Silvia aveva appena accavallato le gambe, appoggiò ad un manico della sedia il gomito facendo finta di fumare una sigaretta tenendola con indice e medio della mano destra.
“Non sei certo Sharon Stone, quindi non può essere Basic instinct… come potrei intitolarlo allora?... Fammi pensare…” fece lui con lo stesso modo provocatorio di sempre.
“Questa te la faccio pagare!” disse Silvia sorridendo.
“E in che modo, sentiamo un po’…”
Lei fece per avventarsi su di lui, ma Guido alzò di scatto le ginocchia e mise i piedi sulle spalle di lei, spingendola verso la sedia.
“Credi di fermarmi?” fece lei, afferrandogli le caviglie.
La ragazza si mise di nuovo a sedere lasciando la presa. Il ragazzo stava ancora ridendo, ma a lei quella situazione fece impazzire a tal punto che cercò un modo per tornare al punto di partenza, non voleva farla sfumare in poco tempo, voleva proprio gustarsela fino in fondo. E se lui avesse potuto leggerle il pensiero avrebbe di sicuro fatto in modo di continuare quel gioco. Lei accavallò di nuovo le gambe quando lui assunse uno sguardo più serio, il respiro da affannoso stava tornando regolare. Gli slip neri sembravano non riuscire a trattenere più tutto il suo entusiasmo. Lei a quel punto fece per avventarsi di nuovo sul ragazzo ma lui fu ancora pronto ad alzare le ginocchia portando un piede su una spalla e l’altro finì involontariamente sul viso. Ma sembrava che lui riuscisse a leggerle nel pensiero e forse era proprio quella sintonia ad averli uniti, nonostante la fede al dito che lui portava da un paio di anni. Era proprio ciò che voleva la ragazza. Non sapeva che lui avrebbe fatto tutto ciò che lei sognava senza doverglielo dire esplicitamente. Fu un brivido per entrambi quando lei afferrò la caviglia per iniziare a fargli un massaggio al piede usando la sua bocca.
“Amore… mi fai impazzire” fece lui accomodandosi meglio su quella poltrona di pelle.
“So che sapresti farmi impazzire anche tu…” disse lei in tono provocatorio divaricando le gambe.
Adesso anche lui aveva capito cosa avrebbe dovuto fare e dove avrebbe dovuto portare il piede. La ragazza ansimava ad ogni movimento dell’alluce.
Fu proprio Silvia a doversi alzare in quanto non conteneva più l’eccitazione. Si avvicinò a Guido e percepì la sua erezione.
“Nella tasca destra dei pantaloni” disse lui, anche questa volta come se avesse letto il pensiero della ragazza.
Silvia si muoveva ondeggiando il sedere davanti agli occhi del ragazzo, come se volesse stuzzicarlo ancor più di quanto era già riuscita a fare. Frugò nei jeans dove le aveva indicato Guido e tirò fuori un quadratino. Non si percepiva di che colore fosse. Lei scartò il profilattico ed avvolse l’erezione di Guido, non appena lui si sfilò gli slip. Un triangolino rosso cadde ai piedi della poltrona di pelle nera. Si poteva leggere facilmente la sillaba “ex” in bianco. Iniziò un dolce e lento amplesso.


2

Guido si stava rivestendo, Silvia era ancora nuda nella stanza mentre il fascio di luce del lampione al di là dell’avvolgibile le illuminava a intermittenza le gambe toniche e dorate, a seconda della sua posizione. Si avvicinò al ragazzo che si trovava al centro della stanza e gli dette un semplice bacio su una guancia. Lui sorrise.
“Perché hai detto quella frase?” le disse mantenendo lo sguardo sul nodo che stava facendo alle stringhe delle sue scarpe.
“Quale… quale frase?”
“Beh… prima, non ricordi?”
Silvia stette un attimo a pensare poi scosse la testa:
“Veramente mi ricordo solo una bella serata che vorrei non finisse più.”
“Davvero non ti ricordi cosa hai detto mentre…? Insomma, sai cosa stavamo facendo, c’eri anche tu mi pare…” chiese il ragazzo con un tono sarcastico.
“Certo che so cosa stavamo facendo, ma credo che tu abbia sentito delle voci provenire dalla strada, io non ho detto niente.”
“Mah… io sono sicuro che hai parlato, hai detto una cosa senza senso, infatti ti ho anche chiesto se stavi bene.”
“Guido, ti dico che non ho parlato, poi cosa avrei detto?”
“Dopo le scale a destra, testuali parole.”
I due si guardarono per un istante, poi lui tolse lo sguardo sugli splendidi occhi luccicanti di lei e disse:
“Via, sarà meglio disfarsi di prove compromettenti.”
Così prese il profilattico e il talloncino rosso, che lo aveva contenuto intatto fino a quella sera, e che aveva mantenuto la scritta “dur”, e uscì dalla stanza per recarsi verso il bagno, che si trovava due stanze dopo quella che usavano per i loro incontri.
C’era quasi un buio totale in quel corridoio, così Guido camminò passo dopo passo tastando con la mano sinistra la parete che aveva al proprio fianco per cercare di raggiungere la porta del bagno, sapendo che una volta trovata la prima maniglia gli bastava cercare la successiva. La trovò e la girò verso il basso, entrando nella toilette. Lì poteva accendere la luce, non c’erano finestre da cui dall’esterno si sarebbe potuta notare la presenza di qualcuno all’interno della villa. Da quando finirono il restauro, quell’edificio fu trasformato da pensione abbandonata da decenni a centro congressi e chiaramente all’una del mattino non poteva essere realistico che ci fossero ancora dei dipendenti in ufficio.
Guido gettò il profilattico all’interno del water e tirò lo sciacquone. Forse il rumore un po’ strano di quel sanitario o una falsa sensazione avvertita gli fece fare uno scossone, così si girò all’indietro guardando nella direzione del corridoio dal quale era venuto pochi istanti prima. Vide il pavimento offuscato grazie alla luce del bagno che riusciva ad arrivare fino all’inizio del corridoio. Gli sembrò di aver avvertito come un veloce camminare. Stette per un momento fermo a guardare verso il corridoio. La parete opposta era immersa nel buio, non riusciva nemmeno a scorgere il vetro del quadro appeso, raffigurante un disegno dell’edificio che risaliva agli anni Cinquanta.
“Sarà stato lo sciacquone” pensò il ragazzo, mentre stava per premere l’interruttore di quella stanza che avrebbe tolto l’unica fonte di luce in quel settore della villa.
Lo premette e uscì a tastoni dal bagno, ripercorrendo a ritroso il tragitto fatto pochi minuti prima. Aveva ancora nelle orecchie le parole dette da Silvia e non riusciva a spiegarsi come la ragazza poteva non ricordarle.
Dopo le scale a destra
Dopo le scale a destra
Non capiva il senso di quella frase, eppure Silvia aveva pronunciato con perfetta dizione tali parole. La cosa particolare che aveva notato il ragazzo era il modo in cui per quella frase la ragazza non avesse dato voce al suo dialetto. Le aveva dette pure, asettiche, senza un’intonazione particolare, come se ogni sillaba fosse stata appoggiata su uno stesso piano.
Adesso il ragazzo stava tastando con la mano destra la parete che aveva al suo fianco mentre i bastoncelli della sua retina iniziavano a permettergli di vedere nuovamente attraverso l’oscurità.
Passò davanti alla porta di un ufficio e poté scorgerne la maniglia placcata, così proseguì sapendo che il prossimo ingresso sarebbe stato il suo traguardo.
Accelerò il passo quando vide nettamente l’ingresso dell’ufficio del signor Del Carlo, dove lo stava aspettando la sua amante. Vi entrò e la luce del lampione di via Fratti, che fino a poco prima illuminava a malapena uno squarcio della stanza, sembrava riflettere sul pavimento rendendo ai suoi occhi un certo bagliore. Forse, così credette il ragazzo, erano i suoi occhi che abituati all’oscurità dovevano adattarsi alla nuova illuminazione, ma questo pensiero durò solamente un istante. Il fascio di luce che penetrava dai fori dell’avvolgibile entrava in diagonale, tagliando proprio a metà la poltrona di pelle nera su cui era seduta Silvia. Sembrava un Caravaggio. Era come se quella fosse la luce della morte.


3

Guido era inginocchiato a un lato di quella poltrona nera. Stava avvicinando la sua mano calda verso quella fredda della mano di Silvia. Era senza parole, non riuscì nemmeno ad emettere un grido soffocato a quella visione. Nel giro di pochi minuti si era spenta una vita, talmente all’improvviso e così inaspettatamente da non riuscire a crederci. Guido provò a sussurrare il nome della ragazza pur sapendo che non avrebbe ottenuto alcuna risposta. L’abbronzatura dorata di Silvia mascherava un po’ lo stato di cadavere in cui si trovava, anche se Guido non stette molto a notare delle macchie scure attorno al collo. Gli sembrava un enorme livido che mimava un mantello. Si guardò attorno per vedere se la stanza presentava particolari diversi rispetto al momento in cui l’aveva lasciata per andare in bagno, ma tutto era come prima, niente aveva mutato posizione, o per lo meno questo era quello che lui registrò nello stato di coscienza di quegli istanti.
La ragazza sembrava come abbandonata su quella poltrona di pelle nera, con la testa piegata verso la finestra e le braccia rilasciate e penzolanti all’esterno. Guido non toccò più il corpo della ragazza, sapendo che avrebbe potuto rovinare alcune prove se ci fossero state. Mantenne un atteggiamento abbastanza lucido, coscienzioso di ciò che aveva davanti agli occhi, così si diresse dal lato opposto della poltrona per vedere la faccia dell’amante. La luce del lampione da fuori ne illuminava proprio una metà tagliata in diagonale, abbastanza da far scorgere gli occhi socchiusi e qualcosa alla commessura della bocca. Guido strizzò gli occhi per cercare di capire cosa fosse quella sostanza, in quanto al momento la scambiò per saliva, ma vide del materiale anche sui capelli e perfino sul pavimento, dove stava per appoggiare la suola della sua scarpa destra. Riuscì ad evitare di calpestarlo, per fortuna, e dall’odore acido che iniziava a sentire capì che doveva trattarsi di vomito.


4

“Peter Pan iniziò a volare nel cielo stellato facendo da guida ai bambini, indicando loro la strada da seguire per arrivare all’isola che non c’è” pronunciò Sergio Zoiatra con fare incantato, leggendo da un libro.
“Papà, papà dovevano seguire le stelle vero?” chiese Angelica al padre.
“Sì, tesoro, proprio così… hai proprio un bel cervellino, apprendi così facilmente ogni cosa, che quando sarai grande non ti fermerai davanti a nessun ostacolo.”
“Ma io non voglio diventare grande, voglio fare come Peter Pan, lui ha tanti amici e può fare tante cose.”
“Ma anche tu hai tanti amici e poi non è così brutto diventare grandi, è proprio quando sei grande che puoi fare tante cose.”
“Anche volare?”
“Beh… ci sono gli aeroplani per volare…”
“Gli eropani? No, io voglio volare da sola come fa Wendi, è più divertente, io li odio gli eropani.”
Il dottor Zoiatra chiuse il libro di Peter Pan e disse alla figlia che era l’ora di dormire.
“Se mi bussa alla finestra Peter Pan posso andare con lui sull’isola che non c’è?” chiese Angelica stringendo un pupazzo.
“E mi lasceresti qui con la mamma? Guarda che poi siamo invidiosi se non ci porti con te sull’isola che non c’è.”
La bimba rise e si mise su un fianco continuando a stringere il suo pupazzo, poi disse:
“Buonanotte papà.”
“Buonanotte tesoro, fa’ un bel sogno.”
Sergio Zoiatra spense la piccola luce sul comodino e si chiuse la porta alle spalle, una volta uscito dalla camera della bambina. Raggiunse la camera da letto dove sua moglie stava leggendo uno di quei romanzi d’amore sdolcinati, che al marito facevano venire il volta stomaco semplicemente guardando la copertina.
“Vado giù in salotto a guardare una trasmissione, stasera parlano di reperti autoptici” informò la moglie, la quale non distolse lo sguardo dalle pagine piene di cuoricini vaganti del suo romanzo.
“La bambina dorme?” chiese voltando una pagina, come ipnotizzata da quella storia da soap-opera post-prandiale.
“Sì, si è appena addormentata, vado giù a guardare la televisione se accendessi questa potrebbe dar fastidio ad Angelica” disse Zoiatra riferendosi allo schermo che tenevano sopra un tavolo tondo di legno.
“Sì, e poi io non ho certo intenzione di assistere mentre squartano dei cadaveri” disse la moglie di Zoiatra, questa volta guardandolo fisso negli occhi.
Sergio, che stava appoggiato ad un portante della porta della camera, con una mossa riportò a scaricare tutto il peso sui piedi e si allontanò verso le scale. Arrivò a piano terra dove dalle porte-finestre entrava una debole luce che faceva intravedere solamente i contorni del mobile in fondo a destra e del divano, subito accanto alla rampa delle scale. Arrivato sull’ultimo gradino accese la luce nella stanza. Adesso il salotto aveva un’atmosfera ovattata, quasi ambrata per il colore opaco della luce a basso consumo che piano piano si sarebbe fatta più intensa. In quel momento Sergio si sentiva come uno di quei fossili ritrovati incastonati nell’ambra e quell’idea lo fece sorridere, perché pensò subito che sarebbe servito un blocco spropositato per contenerlo. Il caldo dell’estate si faceva sentire e la sua canottiera bianca era appiccicata alla pelle come una ventosa al finestrino di una macchina. Con un passo strascicato arrivò in cucina per prendersi una birra dal frigo. Lo aprì più per la voglia di sentire dell’aria fresca che per la birra stessa. Tornato in salotto accese la televisione e la sintonizzò su un canale satellitare di approfondimento. La prima immagine che si trovò sullo schermo vedeva un corpo senza vita steso su un tavolo di acciaio mentre un medico legale stava iniziando a fare i primi tagli esplorativi sul torace. Zoiatra ebbe come un flash-back mentale di quando frequentava i corsi alla facoltà di medicina veterinaria, prima di prendere la decisione di seguire le orme del padre, deceduto improvvisamente durante il terzo anno accademico. Sergio sentì il bisogno di portare avanti il lavoro che faceva il genitore, ma nello stesso tempo non si sentiva per niente soddisfatto nel lasciare a metà gli studi di veterinaria, così decise che il suo obiettivo sarebbe stato quello di entrare nella polizia scientifica, comunque dopo aver finito gli studi in quella facoltà, perché in fondo era la sua passione. Il suo percorso lo portò ad essere un eccellente poliziotto, uno dei più competenti del proprio settore, grazie ai suoi studi precedenti di veterinaria, serviti per fargli conoscere a trecentosessanta gradi il mondo della medicina e della scienza. Si ritrovava spesso, infatti, a dover discutere di diagnosi differenziali anche con medici laureati in medicina umana che, conoscendolo, quando non sapevano quali pesci prendere confidavano a lui i propri dubbi, sempre mantenendo il segreto professionale. Per Zoiatra questo fatto era una continua vittoria, si rendeva conto ogni volta di come la sua strada lo aveva portato ad essere un punto di riferimento per molte persone, amici, colleghi e anche estranei e poi la sua aria da medico traspariva da ogni sua sfaccettatura, dalla fronte ampia, dagli occhiali con le lenti a goccia che somigliavano molto alle linee curve delle sue guance che cadevano un po’ ai lati del mento circondando una bocca piccola e precisa.
“È proprio vero che in umana le tecniche autoptiche iniziano dalla fine” rifletté Zoiatra gustandosi i primi sorsi della sua birra. Stava pensando a quando, durante il terzo anno accademico di veterinaria, si trovò a dover eseguire un’autopsia, da solo con il titolare di cattedra per far luce sulla morte di un cavallo che aveva già una malformazione alla nascita. Si ricordava, infatti, che dopo l’esame generale dell’aspetto del pelo e delle mucose esplorabili, una volta eseguito lo scuoiamento, si iniziava ad aprire l’addome dopo aver praticato due fori per far uscire gas ed eventuali liquidi e solo una volta terminato l’esame degli organi addominali si andava a studiare il torace. Si ricordò anche che negli animali l’autopsia poteva partire con l’apertura del torace se dall’anamnesi fossero stati rilevati problemi cardio-respiratori. In effetti nell’uomo il cuore è uno dei primi organi che vengono esaminati per le varie patologie che possono causare la morte e questa fu la spiegazione che si era sempre dato.
Si era perso, però, l’inizio della trasmissione, in cui il medico legale in un veloce parlare americano, eseguì l’esame esterno del cadavere. Zoiatra stava continuando a bere la sua birra quando l’obiettivo della telecamera nella sua trasmissione preferita stava facendo uno zoom su una parete del cuore dopo che il medico legale lo aveva prelevato da quel corpo inanime recidendo i grossi vasi. La voce fuori campo stava traducendo quell’inglese incomprensibile che usciva dalla bocca dell’anatomo-patologo, il quale stava indicando con l’indice della mano destra un’area biancastra dai contorni sfumati.
“Mh… un bell’infarto” sussurrò Zoiatra.
La voce che traduceva le parole del medico legale stava dicendo che già avevano pensato ad un infarto, grazie all’anamnesi e ai segni post-mortem che presentava il cadavere, ovvero delle caratteristiche macchie ipostatiche “a mantello” che circondavano il collo, arrivando fin sopra le spalle. Sergio, non avendo seguito dal principio il programma, si era perso proprio la descrizione delle macchie ipostatiche a mantello che non aveva visto nelle inquadrature fatte durante l’apertura del torace.
In quel momento il medico legale sullo schermo del televisore stava eseguendo l’apertura del cuore e seguendo la tecnica americana.
“Bravo, così le valvole le studia tuo nonno!” disse Sergio, questa volta a piena voce, notando la scelta (a suo parere errata) della tecnica di apertura del cuore. Zoiatra, infatti, non aveva mai eseguito quel tipo di procedura in quanto si dovevano eseguire tagli incrociati dai grossi vasi fino all’apice del cuore perdendo così la struttura delle valvole cardiache che potevano, invece, servire per risalire ad eventuali patologie ad esse collegate. Il patologo della trasmissione, comunque, era solamente interessato a dimostrare che quella macchia bianca sul cuore era un infarto, fregandosene della causa scatenante. Non che sia sempre possibile stabilirlo, ma a volte – e Zoiatra lo sapeva benissimo – si possono ottenere molte informazioni sulla patogenesi di tale ischemia. Così il dottore in televisione tagliò a tutta parete la parte del cuore in cui era presente la chiazza bianca e dimostrò come questo pallore proseguiva verso l’interno dell’organo formando un’immagine triangolare. Poi prese un bisturi e lo appoggiò proprio all’apice di quel triangolo e disse che quello era l’esatto punto in cui il vaso sanguigno, per vari motivi, aveva interrotto il flusso di sangue non irrorando più la zona a questo deputata.
Sergio bevve l’ultimo goccio della sua birra e il caldo si stava facendo quasi insopportabile, così spense il televisore e decise di salire al piano di sopra per cercare di prendere sonno, visto l’innumerevole quantitativo di sbadigli fatti durante il suo programma preferito, che quella volta gli lasciò l’amaro in bocca.

[continua]


Se sei interessato a leggere l'intera Opera e desideri acquistarla clicca qui

Torna alla homepage dell'Autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Per pubblicare
il tuo 
Libro
nel cassetto
Per Acquistare
questo libro
Il Catalogo
Montedit
Pubblicizzare
il tuo Libro
su queste pagine