Hybris (prima parte)

di

Luigi Cancemi


Luigi Cancemi - Hybris (prima parte)
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 152 - Euro 13,00
ISBN 978-88-6587-6701

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In copertina: «Egyptian papyrus, Tutankhamen’s mask» © Jose Ignacio Soto – Fotolia.com


Introduzione

Hybris è una parola dell’antico greco che indica arroganza, eccesso, delirio di onnipotenza. Secondo gli antichi greci il peccato di hybris era uno di quelli più pericolosi, perché attirava l’invidia, l’ira e la punizione degli Dei: gli uomini che dimenticavano i loro limiti, tracimavano nella tracotanza e nella superbia, e cercavano di ribellarsi all’ordine naturale delle cose, sarebbero stati immancabilmente puniti e avrebbero patito grosse sofferenze. Questa concezione era alla base, per esempio, delle tragedie greche.
Al giorno d’oggi si tratta di un concetto ormai sorpassato, materia per storici ed archeologi della cultura, o è invece una legge imperitura, che gli uomini farebbero bene a ricordare?
Tanti sono stati nel corso della storia i casi di uomini che hanno pensato di essere invincibili, superiori, infallibili, e di non avere nessuna entità o legge superiore da rispettare; quando però hanno superato il limite e nell’ubriacatura del successo e del potere non hanno saputo frenare gli eccessi, l’ambizione e la vanagloria, sono sistematicamente finiti nella polvere.
La stessa specie umana ha saputo fare grandi cose, è riuscita ad evolversi come nessun altro essere vivente a noi conosciuto, e grazie alla scienza ed alla tecnologia l’uomo è diventato un creatore, un piccolo demiurgo, apparentemente capace perfino di controllare, alterare e manipolare a suo piacimento la natura e le sue leggi.
D’altra parte l’uomo continua a soffrire, ad ammalarsi, ad invecchiare, a morire; per non parlare dell’aspetto etico, dove non sono stati compiuti significativi progressi e l’uomo seguita ad essere corrotto, malvagio e cinico né più né meno come duemila, cinquemila o diecimila anni fa.
Dobbiamo pensare che è in corso un processo teso a fare dell’uomo il signore dell’Universo, in barba ai limiti ed agli scrupoli imposti dalle varie religioni, dalla filosofia, dall’etica? Dobbiamo pensare che Prometeo prenderà il posto di Dio, e che non c’è niente al di sopra di lui?
O dobbiamo credere che al contrario l’uomo è un essere limitato e molto imperfetto, soggetto a leggi e volontà molto più grandi di lui e contro cui nulla può?

L’autore


Hybris (prima parte)


CAPITOLO PRIMO

Anno Millesettecentocinquanta su Ecilef. Ad Amor, la capitale del regno dell’Ovest, sono le sette di sera e c’è il coprifuoco: non si vede nessuno in giro, i due milioni di abitanti sono rintanati nelle loro case temendo l’oscurità ed i pericoli che essa comporta.
Solo i cavalli dei soldati percorrono in lungo e in largo le strade della capitale, attenti ad individuare qualche ombra o movimento sospetti: è infatti allora, nell’oscurità della notte, che i traditori e gli assassini che si annidano nella città colpiscono. Uccidono o rapiscono persone importanti del regno, ma a volte anche persone normalissime, ree di credere nel Libro e non riconoscere Victor, il vero Dio; così facendo questi criminali creano terrore e seminano il panico, con l’obiettivo di indebolire dall’interno il regno e renderlo vulnerabile all’attacco finale del missionario.
“Papà, guarda!”, esclama il piccolo Gongo indicando la finestra.
“Accidenti, Selia! Quante volte devo ricordarti di chiudere le imposte dopo le sei di sera?”, si arrabbia Dir correndo verso la finestra. È un uomo alto, snello, bruno e con i baffi. Ha un’apparenza un po’ eccentrica a causa del suo sguardo trasognato, che a volte lo fa apparire assente, o addirittura alienato.
Mentre lui chiude le imposte, si scorgono delle luci di torce sulle mura della città, e si odono i passi di una pattuglia di soldati.
“Scusa, scusate…”, si precipita anche lei alla finestra. Seila, sua moglie, è una donna di mezza statura, magra, occhi e capelli neri. È una donna molto sensuale, ma al tempo stesso educata e paziente.
“Lascia stare, ormai ci penso io!”, dice Dir mentre termina di chiudere le imposte.
“Amore, mi dispiace!”, dice Seila avvicinandosi a lui ed accarezzandolo. “Mi sono addormentata assieme a Vina, e quando mi sono svegliata mi sentivo così confusa… Mi sembra di non farcela a stare dietro a tutti e due, con la casa da pulire…”.
“Cosa dovrei fare? Pulire la casa io? O forse occuparmi dei bambini io?”, risponde Dir con tono garbato ma ironico.
“Non voglio dire questo. Voglio solo comprensione, e che non ti arrabbi con me le volte in cui sbaglio…”, spiega Seila dolcemente.
“Come potrei non capirti?”, acconsente lui stringendola a sé e baciandola.
Si sentono a quel punto dei passi su per le scale, con lo sfregolío metallico tipico delle armature.
“I soldati! Arrivano i soldati!”, esclama il piccolo Gongo indicando la porta. Dopo meno di un minuto in effetti bussano con forza alla porta d’ingresso.
“Professor Wode!”, reclama una voce forte e virile.
“Arrivo!”, risponde Dir dirigendosi alla porta ed aprendola.
“Buonasera. Possiamo entrare?”, chiede un soldato.
“Certo! Prego, capitano!”, risponde lui scostandosi e facendo cenno di entrare.
Entrano in quattro, tutti armati di spada e coltello inguainati alla cintura. Osservano attentamente la stanza, Seila e Gongo; quindi il capitano, un uomo basso ma robusto, chiede:
“Tutto bene? Qualcosa di strano da segnalare?”.
“No. Va tutto bene”, risponde Dir.
Il capitano fa per andare via, ma proprio in quel momento si odono i vagiti della bambina provenienti dalla stanza accanto. Mentre Seila si precipita ad accudirla, il capitano guarda fisso negli occhi Dir e gli dice:
“Professore, lei non dovrebbe stare qui: è pericoloso. Vive in un edificio proprio davanti le mura, ed è un possibile bersaglio della feccia. Noi faremo sempre di tutto per proteggerla, però non le nascondo che così è difficile. Non dimentichi quanto è successo lo scorso anno in un edificio come il suo. Trovi una sistemazione in centro: se non vuole farlo per lei, lo faccia per loro”.
“Ha ragione”, ammette lui. “Devo farlo per loro, devo lasciare questo appartamento che a me piace molto per loro… Ho già visionato un appartamento in centro, a pochi passi dall’università: il mese prossimo ci trasferiamo. Promesso!”.
“Scelta saggia!”, approva il capitano che poi si commiata ed esce dalla casa con tutti i suoi uomini.
Quando tutti i soldati sono usciti Dir chiude la porta e rimane immobile, con lo sguardo perso nel vuoto.
Il piccolo Gongo lo guarda in silenzio per un po’; poi gli si avvicina, gli dà un colpetto sulla cintola e gli chiede:
“Papà! Perché i soldati vengono tutte le sere?”.
Lui, come se si svegliasse di colpo, gli risponde sorridendo:
“Sono amici. Vengono a salutarci”.
“Sono amici come Rudo e Viana?”, chiede ancora il bambino.
“Come Rudo e Viana no: quelli sono amici speciali, mentre questi sono solo amici!”, spiega il padre.
“Ah… Ecco perché non hai chiesto loro di restare a cena da noi…”, comprende Gongo.
“Esatto!”, annuisce Dir.
Frattanto i vagiti sono cessati. Seila riappare poco dopo con gli occhi quasi socchiusi, e dice:
“Quando finirà tutto questo?”.
“Tra un paio d’anni andrà già molto meglio: crescerà anche lei come Gongo!”, risponde il marito.
“Non mi riferivo a lei: mi riferivo a questa situazione…”, precisa lei.
Dir sospira senza rispondere, perché nessuno può sapere cosa succederà. Effettivamente quello che stava accadendo negli ultimi dieci anni su Ecilef era qualcosa di incredibile, di impensabile, di preoccupante. Da più di millesettecento anni, ossia da quando gli uomini erano comparsi sul pianeta, non c’era mai stata una guerra e la società si era sviluppata in modo sereno, pacifico e felice; c’erano pochi crimini e pochissime turbolenze pubbliche, e tutti avevano sempre condiviso gli stessi valori e l’assetto istituzionale. All’im­provviso, dieci anni prima era uscito alla ribalta nel regno dell’Est – su Tanta, l’altro continente di Ecilef – un sacerdote che si faceva chiamare il missionario. Questi era riuscito a scaldare gli animi della popolazione e a ribellarsi al re, proclamandosi sovrano e conquistando poco a poco, anno dopo anno, sempre più città fino ad esercitare il suo dominio su due terzi del continente. La sua forza non era però tanto e solo militare, ma spirituale: il missionario era tanto intelligente quanto carismatico ed abilissimo comunicatore, ed era riuscito ad incantare, persuadere, inebriare, eccitare le folle. Secondo lui presto sarebbe sceso su Ecilef Victor, l’unico vero Dio, e sarebbe sorta una società nuova, migliore e più forte; compito degli uomini sarebbe stato preparare il suo avvento, diffondendo il messaggio della sua prossima apparizione e combattendo tutti quelli che si rifiutavano di crederci. Le sue prediche riempivano le città ed esaltavano la gente, e l’eco del suo messaggio era giunta finanche nel Regno dell’Ovest, dove erano spuntati dal nulla suoi seguaci che, di nascosto, tramavano contro il re ed attentavano all’ordine pubblico.
Quello che sembrava dare una forza, un’autorevolezza, un carisma speciali al missionario era la sua convinzione, la sua determinazione: non solo non sbagliava una mossa, ma sembrava davvero certo, appassionatamente sicuro dell’esistenza e dell’imminente discesa su Ecilef di Victor, il fantomatico Dio di cui si vociferava che avesse sembianze umane.


CAPITOLO SECONDO

Sono le nove di mattina, e Dir entra nell’aula universitaria gremita di studenti. Saranno una sessantina, e sono tutti composti e ben vestiti. Appena lo vedono, vestito del lungo mantello verde tipico dei docenti universitari di Amor, si alzano e lo salutano in coro:
“Buongiorno!”.
“Buongiorno a voi!”, risponde lui sorridente facendo loro cenno di sedersi.
Insegna librologia, ossia lo studio del testo sacro che i primi uomini comparsi su Ecilef lasciarono in eredità alla loro discendenza.
“Oggi parleremo del concetto di filosofia”, inizia. “Si tratta di un concetto importante, forse il più importante di tutto il libro”, prosegue. “Nel capitolo terzo primo capoverso il Libro dice: «sia data importanza prioritaria nell’organizzazione sociale alla coltivazione della filosofia, base imprescindibile dello sviluppo umano, della giustizia della società e della felicità individuale».” Si guarda quindi intorno, ed incrocia lo sguardo di uno studente sempre particolarmente attento, interessato ed attivo:
“Dimmi, che cosa è per te la filosofia?”.
Lo studente ci pensa un po’ su, quindi risponde:
“La saggezza…”.
“Ottima risposta!”, si compiace Dir. “Ci sei andato molto, molto vicino!”.
All’improvviso si apre la porta ed entra un uomo mascherato. È tutto vestito di nero, protetto da una maglia metallica ed ha con sé un arco. Tutti si girano verso di lui, che con decisione estrae una freccia, la innesta nell’arco e punta dritto al professore. Dir istintivamente si getta per terra, e la sua rapidità gli salva letteralmente la vita: per un soffio la freccia non lo colpisce in pieno.
L’arciere estrae un’altra freccia e tenta di inserirla nell’arco, ma decine di studenti gli saltano addosso contemporaneamente; segue una breve colluttazione, in cui l’uomo mascherato cerca disperatamente di liberarsi dalla presa e guadagnare la porta, ma non ci riesce: sarà anche forte e lesto, ma nulla può contro decine di ragazzi che simultaneamente gli danno addosso. Dir, rialzatosi e sia pure ancora frastornato, comprende che si sta perpetrando davanti ai suoi occhi un linciaggio; perciò, si dirige con passo deciso verso l’ingresso dell’aula – dove l’uomo mascherato è seppellito da una selva di calci e pugni – ed urla ripetutamente:
“Fermi! Basta!”.
Poco dopo entrano due guardie con la spada sguainata, intimando a voce alta:
“Indietro! Tutti indietro!”.
A quel punto gli studenti si convincono e lasciano la presa. L’uomo mascherato è steso a terra e respira con difficoltà, ma sembra essere vivo e cosciente.
Una delle guardie gli mette la punta della spada sul collo e gli chiede con tono minaccioso:
“Chi sei e da dove vieni?”.
L’uomo non risponde, ma dai movimenti del collo e dai sospiri si comprende che è consapevole della gravità della sua situazione.
“Te lo ripeto per l’ultima volta: chi sei e da dove vieni?”, intima nuovamente la guardia accentuando ulteriormente la pressione della spada sul collo dell’attentatore.
“Toglietegli la spada dal collo: così non respira e non può parlare!”, interviene Dir.
Le due guardie si scrutano, e convengono con gli occhi di allentare la presa.
“Mi chiamo Ting, vengo da Orot!”, risponde allora con voce rauca l’uomo mascherato.
“Togliti la maschera!”, gli ordina la guardia.
L’attentatore obbedisce, ed appare un volto tumefatto con un cranio senza capelli.
“Che cosa volevi fare? Quali erano le tue intenzioni?”, prosegue una delle due guardie.
L’attentatore tace, ed allora la guardia torna a pungere il suo collo con la punta della spada; l’arciere solleva le mani in segno di resa, e quando la guardia allenta di nuovo la presa risponde:
“Dovevo uccidere il professore! Questa era la mia missione!”.
Udite quelle parole, le guardie gli assestano un calcio in faccia a testa con gli stivali, facendogli perdere conoscenza; quindi lo ammanettano, lo legano e lo trascinano via davanti allo sgomento generale.
Dir rimane immobile, assorto nei suoi pensieri. Uno degli studenti gli si avvicina e gli chiede se si sente bene; lui risponde di sì e dichiara chiusa la lezione, avviandosi poi verso l’uscita. È visibilmente sconvolto, e non riesce proprio a capacitarsi dell’accaduto: perché mai qualcuno dovrebbe volere ucciderlo? Lui non ha mai fatto male a nessuno, è semplicemente un uomo di cultura, un professore di librologia… È vero che era stato avvisato dei rischi che correva, però non aveva preso mai sul serio quel pericolo: pensava di non avere un’importanza tale da attirare l’attenzione degli scherani del missionario. Evidentemente si sbagliava: anche le persone di cultura, specie se legate al Libro, effettivamente erano un loro obiettivo.
Dir non sa bene dove andare, e proprio quando sta per chiedersi cosa fare viene raggiunto dal preside:
“Professor Wode… Sta bene?”, gli chiede.
“Sì, grazie…”, risponde lui. “Quello che mi chiedo è perché volevano uccidermi…”.
“Purtroppo ormai nessuno è più sicuro, con questi pazzi assassini in giro…”, risponde il preside. “Adesso vada a casa, e ci resti almeno per una settimana. Deve riprendersi da questo spiacevole episodio, ed ha bisogno di tranquillità. Mi faccia sapere se posso fare qualcosa, e… Se ha bisogno di restare a casa per più tempo, non c’è problema…”.
“Grazie, grazie…”, si congeda Dir dirigendosi verso le scale.
Dir scende le scale ancora confuso, senza avere chiaro dove vuole andare. Proprio quando sta per iniziare l’ultima rampa, però, un pensiero gli fa gelare il sangue nelle vene: Seila e i suoi due figli. Non sarà mica successo loro qualcosa di spiacevole? Si sente mancare il respiro, annebbiarsi la vista e contorcersi lo stomaco: scende come un fulmine gli ultimi gradini, comincia a correre verso l’uscita urtando studenti e colleghi, quindi chiama il cocchiere di una delle tre carrozze riservate all’istituto.
“Mi porti subito a casa, per favore!”, intima esagitato.
Il cocchiere, che aveva visto un gran trambusto ed udito voci, avrebbe voluto chiedere che cosa stava succedendo; ma davanti al volto sconvolto del professore capisce che non è il caso di irritarlo e fare domande:
“Indirizzo?”, si limita pertanto a chiedere mentre apre la porta della carrozza.
“Via Traccor sedici”, risponde Dir affrettandosi a salire. “Di corsa, per favore!”, aggiunge poi.
Il cocchiere monta al suo posto, e prende subito a sferzare ed incitare i cavalli:
“Ja! Ja!”.
Le strade sono molto larghe e ci sono marciapiedi riservati ai pedoni, così la carrozza può acquisire e mantenere una certa velocità. Attraversano una delle aree più belle e famose non solo della capitale, ma dell’intero pianeta: bei e maestosi palazzi si alternano a storici tempi, ville raffinate a giardini con colonnati; la gente è vestita elegantemente, così come tutto è pulito, ordinato, curato.
Dir però quello spettacolo – cui peraltro è abituato – se lo perde: neanche guarda dal finestrino. Si tiene il volto con le mani, e non riesce a fermare i cattivi pensieri: i secondi sono per lui lunghi come anni, i minuti come secoli. Imma­gini, ricordi della moglie e dei figli si accumulano nella sua mente, mentre il cuore sembra dovergli uscire dal petto da un momento all’altro.
Dopo un quarto d’ora la carrozza si ferma davanti casa sua. Lui salta giù rapido e chiede al cocchiere di aspettarlo; quindi apre il portone e comincia a salire di corsa su per le scale. Non ha mai salito le scale così velocemente, neppure quando era giovane. Arrivato al sesto piano, il suo, infila la chiave dentro la serratura, ma la porta non si apre: evidentemente, è chiusa dall’interno.
“Seila! Apri, sono io!”, urla battendo forte i pugni sulla porta.
Sente la voce di Gongo ed i vagiti della figlioletta, e questo già lo solleva. Quando la moglie apre la porta, lui entra trafelato senza dire niente e osserva a destra e sinistra: constatato che è tutto a posto, si sente rinato. Si siede e sospira intensamente, mentre Seila e Gongo lo guardano strabuzzando gli occhi.
“Che succede? Sembri stravolto!”, domanda Seila.
A quella domanda Dir si alza e va ad abbracciarla, stringendola con forza:
“Va tutto bene. Poi ti spiegherò”, le dice.
“Papà! Giochiamo a Vurtu?”, gli chiede intanto Gongo tirandolo per la manica.
Lui lo prende in braccio, lo bacia, e gli promette che quella sera giocheranno a lungo. Quindi gli fa fare due giravolte, lo mette giù e si rivolge alla moglie:
“Chiudetevi bene e non aprite a nessuno! Io tornerò presto!”, le dice.
“Ma dove vai? Che succede?”, lo segue lei preoccupata.
“Non preoccuparti, Seila: va tutto bene! Devo solo controllare una cosa: tra un paio d’ore sarò di ritorno e ti spiegherò tutto!”, risponde lui uscendo e tirandosi indietro la porta.
Udito il suono della serratura che si chiude, Dir scende le scale stavolta con calma, e quando esce fuori trova il cocchiere ad attenderlo.
“Per favore, mi porti al centro di sicurezza!”, gli chiede lui.
“Al centro di sicurezza?”, ripete stupito il cocchiere. “Io sono autorizzato solo per i trasferimenti da e per l’università…”, obietta.
“Lasci stare… Mi scusi se l’ho fatta aspettare!”, dice allora Dir andando subito a cercare una navetta, ossia una carrozza che svolge servizio di taxi.
La trova ferma ad aspettare proprio dietro l’angolo; così salta su prontamente e chiede al cocchiere di portarlo al centro di sicurezza: stavolta non ci sono problemi e la carrozza inizia a muoversi. Vuole andare in quel posto perché è certo che l’uomo mascherato che ha tentato di ucciderlo è stato portato lì per l’identificazione e l’interrogatorio, prima di essere trasferito in carcere; e lui vuole assolutamente parlargli, capire perché voleva togliergli la vita: non lo aveva mai visto in vita sua ed era certo di non avergli mai fatto del male, dunque come era possibile che volesse ucciderlo? Come era possibile che si volesse uccidere senza ragione?
Il tragitto in carrozza dura quaranta minuti. All’inizio le strade e gli edifici sono belli, ben tenuti, eleganti; poi però cominciano a farsi sempre più modesti, fino ad arrivare in un quartiere dove la strada praticamente non esiste: ci sono solo dei sentieri polverosi – che diventano fangosi quando piove – e delle case squallide e fatiscenti. Si tratta del Tramortino, l’area più malfamata e peggio frequentata di Amor.
Mentre la carrozza riduce la velocità a causa delle condizioni della viabilità, ai bordi del sentiero prostitute semi-nude espongono la loro merce, e venditori di rotoli, ossia di prodotti simili a sigarette con dentro sostanze stupefacenti, adescano i passanti. In generale le facce che si vedono in quei luoghi sono poco raccomandabili, ma non è infrequente vedere di notte anche persone molto ben vestite e distinte, in genere sempre di fretta e furtive per non farsi riconoscere. Il Tramortino è un quartiere soggetto ad una legge speciale, che vi consente cose che altrimenti sarebbero proibite. Mai Dir vi si è recato o ha sentito il bisogno di farlo: anzi, quando ci è passato ha sempre avvertito imbarazzo. Anche stavolta. Così, quando incrocia lo sguardo di una prostituta che lo chiama a sé e si pone in una posa ed atteggiamento pornografici, si gira dall’altra parte e decide di guardare solo davanti a sé, all’interno della carrozza, per evitare di doversi sentire nuovamente a disagio.
Ci vuole quasi mezzora per attraversare il Tramortino, soprattutto perché bisogna andare piano: sia perché il sentiero non è ben tenuto, e sia per non investire persone barcollanti o svenute a terra per l’effetto di bevande alcoliche o sostanze stupefacenti. Appena fuori dal Tramortino, alte inferriate appuntite circondano un grande edificio rettangolare: è il centro di sicurezza, ossia la sede della polizia di Amor.

[continua]


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