Racconti di Luciano Trapa


DONNE, GATTE, GALLINE E IL SENSO DELLA VITA

La gatta, la gatta! Ogni giorno che tornavo dal lavoro e aprivo il portoncino mi si piantava davanti a pancia all’aria per essere accarezzata. Io, che in quel periodo ero disperatamente innamorato dell’ultima segretaria di mio padre, ero assalito da un rabbioso pensiero: perché questa gatta del cazzo vuole essere accarezzata da me, mentre la segretaria, la segretaria dagli occhi blu, non vuole neanche prendere un caffè con me?
L’avrei presa a calci la gatta, ma la gente che maltratta gli animali mi ha sempre fatto schifo. Allora aggiravo l’animale e mi precipitavo su per le scale, entravo nel mio appartamento al primo piano e richiudevo la porta a chiave, così che la gatta non potesse entrare a esigere carezze che non avevo nessuna voglia di fare.
Perché? Perché quelle carezze mi costringevano a pensare al mio amore respinto, a chiedermi perché la segretaria mi respingesse, a tormentarmi col pensiero che se al posto mio ci fosse stato un altro, più bello, più affascinante, più giovane, la segretaria avrebbe messo da parte i suoi scrupoli di donna sposata e mi avrebbe concesso almeno una passeggiata, io e lei da soli, o una mattinata in un bel bar per parlare dell’affinità elettiva che –secondo me- c’era fra noi- ma che lei si ostinava a negare.
E poi, molto tempo dopo, la gallina! Dopo tanti anni che avevamo il pollaio e che non avevo mai degnato di attenzione i suoi abitanti, un giorno chissà perché, in un rarissimo momento di accordo col mondo, mi sono chinato per accarezzarla, certo che sarebbe fuggita. E invece no. Si è accovacciata e si è lasciata accarezzare. Come è liscio e morbido il suo piumaggio. E gradevole da percorrere col palmo di una mano. Mi è sembrato strano che un animale ritenuto vile, degno solo di essere mangiato, potesse avere una sua bellezza. E da allora, più di una volta, appena apro la porta del pollaio per portarle il cibo, spontaneamente si accovaccia. Anch’essa per essere accarezzata.
La gatta sì, la gallina sì, la segretaria neanche se crepo! Qualche giorno fa mentre guidavo – è ormai un anno che non le parlo e non ho idea di dove sia – mi è parso di vederla per strada. Mi è sembrato ingiusto, veramente ingiusto che lei passeggiasse, rilassata, ben curata, mentre io nel corso di quest’anno – per colpa sua – ho ripreso a bere e pochi giorni dopo ho dovuto smettere perché il vino interferiva con gli psicofarmaci, ho passato notti insonni a tremare d’angoscia, ringhiando come un cane. Una notte poi, in preda alla rabbia e al dolore mi sono buttato giù dal letto, rotolandomi sul pavimento e urlando di voler uccidere quella donna maledetta.
Ho trascorso l’estate in una clinica psichiatrica. Ne sono uscito, ma la depressione non mi dà pace. Come le onde del mare sul bagnasciuga, lambisce la mia mente e si ritrae e poi ritorna. E mentre io ogni settimana vado dal mio pazientissimo psichiatra, lei, la segretaria di questo cazzo, se ne va per la città, guardando placidamente le vetrine, come se io non esistessi. E, in effetti, io per lei non sono mai esistito. Non esisto e basta.
Sì lo so, lo so che non si può costringere una persona a innamorarsi. Che l’amore di una persona non gradita è molesto. Che chi è oggetto di attenzione da parte di una persona che non piace, che non interessa, non si sofferma mai a pensare all’innamorato o all’innamorata infelice.
Io stesso, benché stia sempre a lamentarmi delle donne che non mi hanno voluto, ho trattato con freddezza e indifferenza le ragazze che non mi piacevano e che mostravano interesse per me. E quel che più mi turba e mi fa sentire in colpa è che io non dovevo scacciare il pensiero delle innamorate sgradite. Non ce n’era bisogno. Perché quel pensiero non si affacciava neanche alla mia mente.
Qualche anno fa ho saputo che una di queste ragazze è morta in giovane età. Fino a qualche mese fa non pensavo mai a questa cosa. Da un po’ invece il pensiero di lei mi si affaccia, di tanto in tanto, alla mente (forse perché, a settimane alterne, credo in Dio?). Non era poi tanto brutta. Era composta e riservata. Cosa mi sarebbe costato avere una relazione con lei? Forse, come in altri casi, mi ha frenato la viltà: il timore di non essere capace di interrompere una storia, il timore di portare avanti, magari per una vita intera, un legàme non desiderato, di non avere la determinazione –quando ne fosse venuto il momento – di dire basta, di inventare un pretesto qualsiasi e defilarmi, come molti fanno e faranno sempre.
In fondo è che io non voglio essere cattivo. E per non essere cattivo sono stato crudele. Perché l’indifferenza è crudeltà. Non sopporto l’idea di abbandonare una donna. Da bambino provavo pena anche per gli oggetti, per le cose inanimate. Se per noia o sbadataggine rompevo un giocattolo o non lo degnavo più di attenzione, la sua vista mi rattristava, mi faceva sentire in colpa. Ricordo sempre un’espressione letta in non so che romanzo o racconto: “lo sguardo triste di una cosa messa in disparte e abbandonata”.
Ebbene ancora io non sopporto quello sguardo. Non sopporto lo sguardo delle persone, degli animali e delle cose disertate dall’amore. Lo sguardo degli esseri che sono costretti a sopravvivere all’assenza d’amore. Sarebbe bello se si potesse scomparire dal mondo senza usare violenza su se stessi. Semplicemente contrarsi in un punto sempre più piccolo fino a svanire completamente, come la puntiforme fosforescenza verde che perdurava per un po’ sullo schermo dei vecchi televisori, dopo che erano stati spenti.
Tutto questo mi fa pensare a un’altra gallina, che condivideva il pollaio con quella di cui prima ho parlato. Questa gallina un giorno è scomparsa. Non può essere scappata perché la porta era chiusa e la rete metallica non presentava rotture di dimensioni tali da consentire la fuga dell’animale. Ho pensato a una faina: queste bestie riescono a insinuarsi in aperture ristrettissime per sgozzare le loro prede, senza neanche divorarle interamente.
Ma la mattina in cui ho scoperto l’assenza della gallina non vi era nessuna traccia del suo corpo. Nemmeno una piuma, una penna o una goccia di sangue.
Dopo diversi giorni di congetture ho pensato che forse la gallina, benché quotidianamente nutrita, si sia sentita non amata e abbia deciso di annichilirsi, di cancellarsi deliberatamente dal mondo. Forse Dio concede, ogni tanto, alle sue creature più umili, questo privilegio: di cessare di esistere con un mero atto di volontà. Purtroppo non ha pensato di estendere questa manifestazione di pietà anche a noi umani. Chissà in quanti ne avremmo fatto uso per porre fine a una sofferenza corporale o spirituale o solo perché in disaccordo totale e irrevocabile col mondo.
A proposito di por fine all’esistenza, devo dirmi che mi sono procurato una pistola. Non perché intenda hic e nunc suicidarmi, ma perché così, se un giorno decidessi di farlo, non dovrò stare a scervellarmi sulle modalità esecutive dell’atto.
Sempre per questo motivo, almeno una volta alla settimana, prima dell’alba, prendo la macchina e mi avvio verso l’estrema periferia della città e lì, nei capannoni di una fabbrica abbandonata, mi alleno a sparare. Sono diventato un discreto tiratore. Quando, e se, verrà il momento, non mancherò il bersaglio più difficile.
Perché, vi chiederete, non vai a un regolare poligono di tiro, come tutte le persone perbene che amano le armi o che vogliono sentirsi in grado di difendere i loro Rolex, i loro SUV, i loro quadri d’autore di cui non hanno mai compreso il significato?
Semplicemente perché la mia pistola è illegale. Nonostante il prestigio di mio padre, per me sarebbe impossibile ottenere il porto d’armi. Mezza città sa che entro ed esco dagli istituti psichiatrici, dai centri di cura contro le dipendenze. Alcuni poliziotti sanno (ma a riguardo –chissà perché- non è stato scritto né inoltrato alcun verbale) che ho speronato la macchina di un tale – dopo l’impatto la vettura ricordava una fisarmonica – solo perché mi aveva insultato.
Potreste anche chiedervi come mi sono procurato la pistola. Semplice: me la ha venduta per duecento euro un mio cliente, un ladro e spacciatore con il quale sono entrato in buoni rapporti. Cliente in che senso? Nel senso che, nonostante tutto, esercito la professione di avvocato penalista. Ufficialmente non sono pazzo e quindi posso farlo. Devo anche dire che nel mio settore, nella difesa di ladri, piccoli spacciatori e assassini non abituali, me la cavo discretamente. Certo non sono al livello di mio padre, che è specialista in reati finanziari, e che quindi ha una clientela di tutt’altro livello. Tuttavia si dice in giro che diversi giovani procuratori e avvocati vengano in tribunale ad assistere ai miei interventi. I miei estimatori dicono che, senza cadere mai nella retorica, sono assertivo, coinvolgente, acuto e ironico.
Forse mi sopravvalutano, ma forse no. Questo fatto dovrebbe –a dire di uno psicologo- accrescere la mia autostima. Ma purtroppo non è così: io riesco ad essere brillante in tribunale e non nella vita, perché il tribunale ha delle regole codificate, dei binari da seguire, mentre la vita è dominata dal caos, dall’arbitrio, da innumerevoli fattori aleatori che la mia mente e la mia anima non sono in grado di fronteggiare.
Il tribunale è un mondo artificiale, un mondo di carta che fornisce robuste stampelle a persone come me, che nel mondo reale (nel mondo di sangue e di carne) zoppicano come l’albatro di Baudelaire. Perciò i miei, sia pur modesti, successi professionali da una parte mi aiutano a vivere, dall’altra ribadiscono la mia inettitudine alla vita reale.
In questi ultimi anni mi è capitato più di una volta di domandarmi se sono pazzo. So benissimo che questo termine non ha molto senso, e se anche lo avesse, sarebbe molto sfumato. Lascio però a Pirandello – e ad altri rompicoglioni come lui- il compito di disquisire sull’argomento. Dico solo che mi piace considerarmi pazzo perché è solo ai pazzi che il consorzio umano concede di dire quel che veramente pensano. Il nostro castello di carte è crollato fin dall’infanzia e noi lo sappiamo e lo gridiamo ai quattro venti. I “sani” invece non si accorgono del crollo o devono far finta che il castello sia in piedi, altrimenti possono dire addio ai Rolex, ai SUV, alle belle donne e a tutto il bel teatrino costruito sullo sterco. Ora basta. Ho detto fin troppo e voi forse non avete capito un cazzo. E’ quasi l’alba e non ho sonno. Quasi quasi mi metto in tasca la pistola e vado a divertirmi un po’.


CONSIDERAZIONI DI UN UTENTE DI UN CENTRO DI IGIENE MENTALE IN MERITO ALLA FIGURA PATERNA E ALLE PUBBLICAZIONI EROTICHE

Chiamatemi pure Sebastiano. Sono quello del turpiloquio in presenza di fanciulli, della gatta libidinosa e della gallina scomparsa. Se volete, però, ora che mio padre è crepato da un paio d’anni, posso rivelarvi le mie complete generalità: sono Sebastiano Lanza de Previtis, figlio del noto avvocato Nevio, stimato e rimpianto da quasi tutti i politici e gli imprenditori della città di M., che grazie a lui si sono risparmiati qualche anno di galera o ingenti pene pecuniarie.
Quando mio padre era vivo, non volevo che la mia fama di irregolare intaccasse la reputazione di papà, anche se l’avrebbe meritato di essere sputtanato: prima mi ha oppresso con rigidi princìpi, nei quali forse neanche lui credeva, e poi mi ha tradito, infrangendo proprio a mio danno quei dannati princìpi nei quali voleva ingabbiarmi. E lo ha fatto in maniera subdola, oscena, sconvolgendo il mio precario equilibrio spirituale.
Perché non ho messo in piazza il lato oscuro di mio padre proprio quando è esploso sparpagliando per ogni dove i frammenti della mia anima? Perché la vergogna sarebbe stata troppo grande e avrebbe travolto non solo lui ma anche i miei figli e la mia donna.
Perché, pur non entrando nel merito dell’increscioso episodio, rivelo solo ora di chi sono figlio e di che pasta fosse mio padre?
Perché ora non lo odio più. Non perdòno quel che ha fatto, ma non sento più dentro di me il rancore dirompente, il disprezzo assoluto che, ai tempi del fatto, mi hanno posseduto e schiacciato. Forse perché nell’ultimo anno di vita ha riscosso un sostanzioso anticipo dell’inferno. Ha sperimentato il disprezzo di coloro che egli, nonostante tutto, amava. Ha vissuto la degradazione fisica del malato. Ha visto giorno per giorno l’assedio della turpe materia ai fortilizi dell’anima. Ha visto la sporcizia e gli escrementi prendere possesso del suo corpo che prima amava ricoprire di abiti dignitosi e discreti. Ha anelato alla mia compagnia, alla mia parola quando frettolosamente andavo a trovarlo nel corso del suo ultimo ricovero ospedaliero. Quando non sapevo cosa dirgli e non vedevo l’ora di scappare via da quel luogo di pena.
Io ho visto nei suoi occhi di un grigio spento la solitudine senza remissione di un universo senza Dio, la ricerca disperata di un estremo appiglio al mondo che ormai lo aveva ripudiato.
Io ho sentito quella solitudine come se fosse mia. Io ho visto quando ne hanno condotto via il cadavere (chiuso in un sacco di plastica nera) giù per le scale di casa. Ho visto il sacco nero flettersi, per i sobbalzi che gli sciatti portantini imponevano al suo corpo senza vita. Ho sentito quegli strappi nella mia gabbia toracica e non ho potuto più odiarlo. Non è perdòno. E’ un’altra cosa. E’ qualcosa che si spegne in te, e accetti quel che è successo, come si accetta che la notte è nera e che la neve è gelida.

Perché proprio ora parlo di mio padre? Perché oggi dopo tantissimi anni ho comprato un giornale pornografico. L’ho comprato con naturalezza, senza inibizioni, con la consapevolezza che è mio diritto farlo senza vergogna. Senza i sotterfugi e le umiliazioni che accompagnavano il mio acquisto di riviste erotiche quando ero ragazzo, quando era lui, il padre, il motore immobile della stagnante moralità della mia famiglia, l’astro che pervadeva della sua livida luce lo spazio vuoto della mia anima malformata.
Ricordo la maniacale accuratezza con la quale le peccaminose pubblicazioni venivano celate agli sguardi familiari: creavo un doppio fondo nelle cartelline che raccoglievano i miei appunti di Diritto Costituzionale e poi, ogni volta, dopo la consultazione, ne sigillavo i lembi col nastro adesivo.
E che sensi di colpa si accompagnavano a quegli acquisti: la vergogna di fronte al giornalaio, la frustrazione di sapere che mentre io mi davo il piacere da solo, i miei coetanei avevano tranquilli rapporti sessuali con le ragazze che amavano o che fingevano di amare per procurarsi la libidine e l’ammirazione degli amici. E poi una cosa in particolare mi atterriva: l’eventualità che, se fossi morto prematuramente e inaspettatamente, mio padre, mia madre o mia sorella avrebbero potuto scoprire ciò che era celato nelle cartelline universitarie, esiliandomi dalla loro stima e dal loro amore.
Ora invece me ne fotto altamente. Se la mia donna dovesse scoprire le mie riviste, non ne farebbe certo una tragedia: è troppo intelligente per attribuire un peso inadeguato a fatti del genere. Dopo l’inevitabile sconcerto iniziale, si renderebbe conto del ruolo marginale che questa cosa ha nella mia vita: un uomo ha bisogno di soddisfare il suo immaginario erotico anche con qualcosa che esuli totalmente dal sentimento e dall’amore.
Del resto l’amore non è certo la vile ginnastica della copula. Qualche giorno fa, per televisione ho visto la scena di un film nella quale il regista (pensando probabilmente di realizzare una raffinatezza stilistica) invece di mostrare un uomo e una donna che facevano sesso non li riprendeva direttamente, ma mostrava le loro ombre proiettate su una parete bianca. Che pena quella silhouette femminile che si dimenava uggiolando sul maschio sdraiato, Ma è veramente questo l’amore? E’ veramente questa cosa grottesca e ridicola che ho rimpianto negli anni della mia solitaria adolescenza? Sono le orribili ragazze che mi capita di conoscere le creature cui ho anelato nella mia giovinezza? Qualche volta penso che sarebbe meglio essere froci o asessuati per non sprecare energie spirituali nel desiderio della donna, questo vuoto fantoccio rivestito di adorabili carni, questa maschera la cui bellezza simula emozioni e sentimenti che esistono solo nell’immaginazione di chi guarda.
Quest’essere si concede a un uomo perché vuole entrare in possesso, come un esercito invasore, del “mondo” di quell’uomo, della sua anima, del fascino che esercita sui suoi amici o sulle altre donne, della forza con cui domina la realtà che lo circonda, della bella automobile che possiede, dei locali à la page che frequenta o semplicemente dei giovinastri da bar i cui è il leader. E io ho mai avuto un mio mondo? Forse no. E forse per questo, pur non essendo brutto, non ho mai esercitato molto fascino sulle le donne. Pur avendone la possibilità, non ho mai fatto sfoggio di belle auto o di moto potenti. Ho avuto sempre pochi amici. Non ho mai amato la vita sociale e mai ho voluto o potuto assumere un ruolo preminente in una cerchia di giovani. Perciò le donne non hanno mai visto dietro di me un mondo da conquistare. Hanno solo visto, con sguardo spietato, il mio nudo essere, una creatura confinata nello spazio angusto del suo “sé”, come un cadavere irrigidito nel contorno della sua immobilità, impossibilitato a possedere lo spazio col movimento delle gambe, delle braccia e delle mani. Sì, sono vissuto come un cadavere e pochissime donne si sono accorte di me. Pochissime hanno capito che forse anch’io avevo un mondo. Un mondo che però si sviluppava verso l’interno e non verso l’esterno. Un mondo che non ambiva ad abbracciare lo spazio, ma a concentrarlo in un piccolo punto luminoso, intensissimo, nascosto nel profondo, nel cuore del mio cuore.



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