Opere di

Luciano Trapa


QUANDO UNA NOTA MUSICALE SI INTERROMPE

Quando una nota musicale si interrompe
perché null’altro c’è da dire, null’altro da aggiungere,
coraggioso è il musicista che lascia l’opera incompleta.
Che non cerca di dare, con non ispirate melodie, forma compiuta
a qualcosa che non può chiudersi in una forma perfetta.
Quando una vita ha detto tutto ciò che doveva – o poteva – dire,
coraggioso è l’uomo che la spegne.
Meglio l’arco spezzato
che l’ingannevole compiutezza
della circonferenza perfetta.


AGLI UOMINI VERI

Sono anni che ci provo.
Forzando la mia natura,
ho cominciato a fare, di tanto in tanto,
il galante con le donne,
a fare qualche complimento, qualche astrusa avance.
Ho imparato, ma solo fino a un certo punto, a mentire,
a trascurare i miei vecchi principi,
a incrinare l’austerità della mia immagine,
a ostentare spavalderia,
a lasciarmi andare a un moderato cinismo.
A lasciar trapelare una sottile vena di follia.
Ma tutto, tutto è stato vano.
Non ce l’ho fatta.
Avete vinto.
Non sono riuscito a diventare stronzo
quanto voi.


I MIEI CAPELLI

La parrucchiera mi ha detto
che il grigio dei miei capelli
è metallico, purissimo,
impossibile da riprodurre chimicamente.
Non vira, come in altri anziani,
nel giallo o nel verde.
Forse perché l’inutile dolore
degli abbandoni che ho subìto
ha il freddo riflesso d’acciaio
del bisturi che recide, non il tepore gialloverde
del sentimento che abdica e si corrompe
in quella cosa dolciastra e ambigua
che chiamano amicizia.
Prima di essere grigi,
i miei capelli erano neri,
neri come tumultuose acque scure
sotto il nero del cielo vuoto,
neri come la morte senza speranza di un Dio,
come la morte senza la consolazione
di rivedere i defunti che mi hanno amato.
Dopo essere stati grigi,
i miei capelli diventeranno bianchi,
bianchi come la fiamma gelida che sfalda
il fitto reticolo dell’identità
nell’incoerente pulviscolo che fluttua
negli spazi interstellari.
Questa è la dimora che mi attende.
Questa è l’unica pace che sento di meritare.


ALLA SIGNORA

Non sono ossessionato da te,
ma ti penso e ti sfido,
come i ragazzacci che in precario equilibrio
camminano sul ciglio dei burroni
o sul colmo dei tetti.
O come i giovinastri in automobile
che di notte, ad occhi chiusi e fari spenti, col semaforo rosso,
si lanciano negli incroci
delle strade extraurbane.
Ma ben più misere e meno spettacolari
sono le mie provocazioni.
Il tuo Signore non ha voluto
che mi liberassi dalla maschera
che, fin da bambino, mi ha serrato sul volto.
E io non so vedere i doni che pure mi ha dato.
A torto mi sento in credito con lui:
perciò ti attendo.
Mi chiedo, quando sarò fra le tue braccia,
se vedrò faccia a faccia
e conoscerò così come sarò riconosciuto,
oppure se perderò anche l’immagine di me stesso.
Se sarò una nuvola di particelle in fuga inconsapevole
fra atomi e molecole, o se, come un’astronauta,
potrò contemplare immobile
l’occhio biancazzurro che mi ha ospitato,
incastonato nel nero vuoto
della verità.


TRISTE TRIESTE

Triste Trieste,
clemente giustiziera d’ogni mia velleitaria aspirazione,
mi sei meno ostile della città grande e cattiva
dove per errore sono nato.
Poco più che cimiteriale la vegetazione del tuo Carso,
dove ricchi bottegai pagano a peso d’oro anonime villette.
La Mitteleuropa che tenti di smerciare
è solo la trovata
di un brillante critico letterario.
La fugace e artificiosa allegria dei tuoi abitanti
si spegne dopo qualche bicchiere
lasciando come feccia un fatalismo da vecchio meridione.
Più che a ibseniane plaghe boreali
la tua costiera verdeggiante e la tua fredda luce
fanno pensare a un sud raggelato,
a un goffo Gattopardo in costume viennese.
Chiassosa e superficiale la tua amicizia,
fugace come lo scampanio
degli alberi oscillanti delle barche
lungo le rive spazzate dalla bora.


L’ULTIMO DESIDERIO

Con un raggio sottile e acuminato
vorrei,
prima di morire,
bruciare il tuo cuore
e gli occhi meravigliosi,
nei quali
giorno dopo giorno
uomini senza speranza
sprofondano,
fino a masticare
l’amaro sapore
del nulla.


PALAZZI DI TRIESTE

Che hanno visto – discretamente ornati, borghesemente dignitosi –
l’alta figura di mi mio padre camminare nelle abbaglianti mattine,
l’abito chiaro, gli occhiali scuri, il portamento ancora eretto.
Che hanno intravisto, dietro i vetri di una Golf grigia,
l’andare e il tornare di mia madre da qualche ospedale,
vestita umilmente, quasi da mendicante.
Che vedono me,
quel che di me è rimasto,
stupidamente fumare
e stupidamente bruciare
i giorni superstiti.


E IN SILENZIO CI LEVEREMO DAI COGLIONI

E in silenzio ci leveremo dai coglioni
Diserteremo persino le anticamere degli psicologi,
rinunciando a raccontare per la centesima volta
che nostro padre ci considerava – giustamente – una merda,
che per le donne non siamo un soggetto sessuato.
Continueremo ad assumere psicofarmaci
ma come caramelline per la gola.
Leggeremo, sì –ancora- qualche buon libro,
ma senza far troppo caso all’autore,
alla casella nella quale lo collocherebbe
qualche critico del cazzo.
Le eleganti geometrie della musica colta
già non ci dicono più nulla.
Arriveremo a preferire il cupo rock
che da giovani abbiamo disprezzato.
E le ragazze, le ragazze dal viso soave,
dalla pelle dorata e incorrotta,
le vuote maschere della bellezza: Dio mio, Dio mio.
Perché le hai create?


LA PREGHIERA DI UN INETTO

Ma come cazzo ti è venuto in mente
di scendere su questo sudicio pianeta
a predicare il tuo amore,
a gettare per aria i banchi dei mercanti,
a farti beffe della legge
e dei suoi miserabili adepti.
A contaminare i tuoi lunghi capelli
col sudore e col sangue
delle creature più abbiette.
Forse è stata un’idea di tuo Padre,
ma tu hai portato a termine la missione
come un vero soldato
ribelle e fedele,
come un vero Uomo.
Hai affidato la tua chiesa a un traditore,
perché sai che quaggiù amare e tradire
sono due facce della stessa medaglia,
della stessa moneta che bisogna dare a Cesare,
anche se si combatte contro di lui.
Anche se tua Madre non fosse vergine,
anche se tu non fossi – il terzo giorno-
risuscitato secondo le scritture,
anche se tuo Padre non fosse il Verbo,
voglio confessarti il mio amore.
Perché so che nel momento supremo
avrai pietà di me.


QUANDO UNA NOTA MUSICALE FINISCE

Mentre al tepore del camino dormono acciambellati
il cane e il gatto, e il borsone degli attrezzi d’artigiano
è gettato accanto al clavicembalo, Giovanni Sebastiano
compone l’Arte della Fuga.
E’ ormai quasi alla fine: insistono sulla tastiera le sue dita.
Ogni tanto aggiunge febbrile segni allo spartito.
Poi tornano le mani al cembalo, compongono un disegno
che faticosamente s’aggiunge all’universo.

Improvvisa, una raffica di vento sferza la fredda notte di Germania,
Giovanni Sebastiano guarda il cielo di là dalla finestra,
nero sul nero delle case, nero sul nero degli alberi inquieti.
Esiste quel filo invisibile che gli astronomi hanno cucito fra le stelle
per dar loro forme umane o di giocosi dei o di placidi animali?

Come colpite da una scossa, le mani di Giovanni Sebastiano
si strappano dalla tastiera, chiudono di scatto lo spartito.
Una nota resa sospesa nello spazio.
Lo stupefatto silenzio che ne segue
viaggia ancora a un approdo senza nome.



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