Ordinaria vita dei figli dello stress

di

Lino Lecchi


Lino Lecchi - Ordinaria vita dei figli dello stress
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 364 - Euro 17,00
ISBN 978-88-6587-1362

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In copertina: elaborazione grafica di Lino Lecchi.
All’interno: immagini di Lino Lecchi.


Cronaca in chiave satirica di una famiglia medioborghese radicata nella provincia bolognese, sottoposta ai complessi problemi della vita quotidiana.
L’autore coglie con occhio critico e spesso ironico le abitudini stravaganti, i vizi atavici, gli atteggiamenti bigotti e ipocriti dell’ambiente di periferia, affrontando situazioni a volte grottesche e bizzarre con satira bonaria e umorismo, narrate a briglia sciolta, attraverso il comportamento dei personaggi di questa nuova storia.
In questo romanzo, si identifica nella figura del protagonista lo stereotipo dell’individuo semplice e vulnerabile, che ostenta sicurezza, celando in realtà le lacune di un carattere fragile.
Da una radiografia emergono i difetti e le debolezze riposti in molti di noi, nella vita di tutti i giorni, analizzati senza pregiudizi e reticenze, attraverso una libera interpretazione personale critica e molto tollerante.


Ordinaria vita dei figli dello stress


A mia madre, al suo naturale e spontaneo
modo di essere ed alla sua saggezza


Quando si nasce siamo tutti uguali, poi crescendo,
la mente di ognuno fa la differenza


Frustrazioni quotidiane

Oscar Rossi era un impiegato modello, di quelli che timbrano regolarmente soltanto il proprio cartellino e non quello degli altri, mentre vanno a fare la spesa o si assentano per i propri comodi, giustificando il timbro dell’entrata fatto da altri, con l’impegno di ricambiare non appena si rende necessario.
Aveva quarantacinque anni suonati e da venti lavorava per l’ufficio centrale dell’Inps di Bologna con l’incarico di impiegato di prima categoria, ma nonostante tutto quel tempo, non si sentiva un travet, confidando nell’impegno che secondo lui era senz’altro tenuto in considerazione dai suoi capi.
Sbrigava quotidianamente tonnellate di pratiche che inesorabilmente si accatastavano sulla sua scrivania, con una riproduzione indescrivibile.
A volte aveva persino sospettato che qualche collega dello stesso ufficio, ove lavoravano stipati in una ventina di impiegati, gli rifilasse di soppiatto qualche pratica non di sua pertinenza.
Ma egli era un metodico, non cercava schermaglie con nessuno. Ancora cinque anni e sarebbe stato promosso e collocato come impiegato di prima categoria, ed allora le cose sarebbero finalmente migliorate.
Avrebbe persino avuto un ufficio personale di tre metri per tre, con una scrivania tutta sua ed un suo numero di telefono interno personale, come si conviene per chi comincia ad essere un nome e non più un numero.
Nell’attesa poteva accadere di tutto, compreso il decesso di qualcuno davanti a lui e allora la graduatoria si sarebbe accorciata e sarebbe occorso meno tempo per raggiungere l’ambita promozione.
Oscar aveva l’aspetto di un comune banale noioso mortale, con capelli castani appena brizzolati, occhi marroni. La sua statura era appena al di sopra della media, con un po’ di adipe appena pronunciata, che prometteva una discreta espansione, frutto di una vita sedentaria, esente da ogni minimo sforzo anche accidentale.
Della serie “quando ho tempo non ho voglia; quando ho voglia sono stanco”.
Lo sport preferiva guardarlo alla televisione, quando i membri della famiglia gli concedevano il libero accesso.
Alla fine di ogni settimana di lavoro, pensava che il migliore dei modi per rilassarsi e scaricare le tensioni dell’ufficio, fosse senza dubbio quello di trascorrere il weekend in famiglia, nella quiete della propria casa.
Abitava a Osteria Grande, una frazione di Castel San Pietro, di appena quattromila anime in provincia di Bologna, in una villetta a schiera. Una di quelle costruzioni fatte in serie come con il lego, tipo lager, senza tener conto degli spazi occorrenti per poter realmente vivere civilmente senza creare ammucchiate.
Una casetta con giardino per tutti, diceva la pubblicità di una impresa immobiliare, incaricata delle vendite, prima di costruire tutti i villini in questione.
In realtà tutte quelle casine disposte in fila per due, sembravano dei rifugi provvisori per terremotati in attesa dell’assegnazione di una casa vera e propria, da poterci vivere in condizioni umane.
All’origine, prima della fase di progetto, il terreno sul quale dovevano sorgere le villette era agricolo, poi non si seppe per quali ragioni, si trasformò in area edificabile.
Molto tempo prima di essere bonificata, era addirittura una palude, abitata da ranocchi ed infestata dalle zanzare.
I consueti compromessi tra comune ed immobiliari private, con conseguente beneficio per entrambi, avevano permesso a quell’area depressa in mezzo alla campagna, di diventare zona edificabile.
Di verde indubbiamente ce n’era a dismisura, ma con esso anche tutta la fauna che normalmente viveva in quell’ambiente, comprese le zanzare tigre, di quelle che ti ronzano dietro a stormi finché non ti hanno beccato, iniettandoti con i loro pungiglioni punture estremamente dolorose, che gonfiano la parte colpita a dismisura.
Senza contare tutte le specie di altri insetti che normalmente popolano la campagna, come api, vespe, tafàni grossi come noccioli di pesche, formiche e roba più grossa, come le talpe ed i topi di campagna che vivono sugli argini dei fossi.
In compenso, alla fioritura della primavera, la coreografia degli alberi e dei fiori di ogni colore tingevano di pastello tutto l’ambiente agreste.
C’era anche il vantaggio dell’aria più pulita di quella inquinata della città ed alla sera, il silenzio era sovrano, nessun fragore di clacson, stridii di frenate, ma un concerto di cicale d’estate ed una pace inconsueta nel periodo invernale.
Sotto l’aspetto della natura, persino l’inverno, con la coltre bianca della neve che cadeva, imbiancando tutto il paesaggio e la pioggia che batteva sui vetri, costituivano una piacevole sensazione di vivere in un ambiente così vicino alla natura. E proprio in quella zona c’era così tanta fame di case edificate in aree circondate dal verde della natura, che l’efficace propaganda aveva fatto centro, vendendo tutti i villini già sulla carta, cioè solo attraverso uno sguardo al progetto, confortato da uno splendido plastico della realizzazione ad opere finite.
Le villette a schiera non sono altro che un condominio orizzontale, ove se può essere vero che l’inquilino al piano di sopra non arreca alcun disturbo per l’assoluta assenza, il comportamento degli altri che ti vivono al fianco, a volte è simile a colonie tribali del centro Africa.
Il giardino c’era, ma era un optional. Misurava quattro metri per quattro, e d’estate, quando faceva caldo, c’era giusto lo spazio per piazzare un tavolino con quattro sedie e magari un ombrellone per proteggersi dal sole cocente.
La società immobiliare che gli aveva venduto la casa, diceva che gli spazi erano razionali ed in giardino, ognuno doveva decidere se piantare dei fiori o piazzare delle sdraio per prendere il sole. Quindi c’erano due opportunità, era il nuovo inquilino che doveva decidere.
La famiglia di Oscar era composta da lui, sua moglie Gianna ed i figli Elisa di diciotto anni e Marco di sedici.
Sua moglie era qualche anno più giovane di lui, ma dopo più di vent’anni di matrimonio, si era un po’ lasciata andare.
Era laureata in economia e commercio e lavorava mezza giornata nell’ufficio di un anziano commercialista, che ogni tanto si ricordava di pagarla ed il resto del tempo lo dedicava alla casa ed ai figli.
Prima della nascita dei ragazzi lavorava a tempo pieno per una importante società industriale di Cesena, ma in seguito, gli impegni domestici e l’educazione dei figli erano diventati per lei l’obiettivo principale di vita.
Ovviamente il distacco netto da un ambiente di lavoro nel quale aveva molte conoscenze e la dinamica della vita professionale che venne a mancare, aveva lasciato qualche strascico nel suo nuovo modo di vivere.
Gianna era originaria di Cattolica, una zona balneare molto conosciuta e rinomata.
Durante le vacanze estive, le spiagge si popolano di turisti provenienti da ogni parte d’Europa. Da anni le strutture alberghiere e la ben nota organizzazione delle spiagge romagnole mettono a disposizione ogni tipo di servizio, conquistando un turismo estivo tipicamente orientato verso le famiglie, con prole infantile ed adolescente.
Di giorno vita da spiaggia ed alla sera, intrattenimenti e parchi giochi per bambini e discoteche per i più adulti.
I genitori di Gianna abitavano in una vecchia e solida casa costruita negli anni Trenta, seguendo lo stile del ventennio.
Un’abitazione collocata direttamente sul litorale sabbioso della spiaggia, così come a quei tempi era consentito di costruire.
A volte i figli di Gianna andavano a trascorrere il fine settimana dai nonni, specialmente d’estate, quando l’ambiente balneare si popolava di turismo e prendeva vita per la stagione vacanziera.
Da giovane Gianna era stata una ragazza molto ambiziosa e piacente.
Oscar l’aveva conosciuta durante le vacanze a Cattolica con degli amici. Fu in occasione di una di quelle manifestazioni che si organizzano nelle serate in riviera Adriatica, per i turisti: l’elezione di Miss Cattolica.
Egli stava con degli amici e quella sera fu colpito quando sfilò Gianna, che era tra le candidate per la conquista del trofeo messo in palio da sponsor locali.
Quando la vide sfilare sulla passerella, rimase senza fiato, conquistato dalla sua bellezza, dalla classe che sprigionava, dall’elegante portamento.
Indossava un bikini bianco molto attillato, che faceva risaltare un corpo statuario, dalla pelle liscia ed abbronzata.
Oscar si era subito perso nel suo sguardo accattivante ed in quel brillante sorriso, che ad ogni passaggio egli si era illuso fosse rivolto a lui, aumentando spasmodicamente i battiti cardiaci.
Era una bellissima stangona, ben fatta, con un bel viso costituito da un ovale perfetto, dal quale splendevano due occhi color smeraldo ed i lunghi capelli corvini, mossi, sciolti che le scendevano sulle spalle.
C’era solo lei che sfilava, le altre non reggevano il confronto e se ne accorse anche la giuria, poiché fu proprio lei ad essere eletta Miss Cattolica quella sera.
Da quel momento Oscar cominciò a farle la corte, e quando seppe che frequentava l’università di Bologna, non la mollò più.
Al ritorno dalle vacanze cominciarono a vedersi, finché dopo qualche anno di fidanzamento si sposarono.
Gli amici di Oscar non avrebbero mai scommeso su questa strana accoppiata.
Oscar era di origine emiliana e Gianna pura romagnola.
È noto che tra emiliani e romagnoli esiste un consistente conflitto etnico: conservatore e tradizionale l’emiliano; sanguigno e focoso come una miccia perennemente accesa, pronta alla deflagrazione, il romagnolo.
Attribuire ad un romagnolo origini emiliane, è come dare del brianzolo ad un comasco, arrecando la massima offesa.
Insomma il matrimonio di Gianna e Oscar era come mettere insieme il diavolo e l’acqua santa, facendo celebrare l’unione ad un esorcista.
Nonostante i posizionamenti di alcune abitudini reciproche ed i consueti alti e bassi che dimorano in qualsiasi unione, dopo vent’anni di matrimonio, tutto con il tempo si era posto su equilibri accettati da entrambi, sotto l’insegna del compromesso, anche se bisogna dire che ovviamente molte cose erano cambiate.
Era sparito lo spirito goliardico di allora, erano emersi nuovi impegni, responsabilità, i figli, i debiti, i problemi di ogni famiglia insomma.
Gianna era profondamente cambiata, rivolgendo la sua attenzione alle cose essenziali, trascurando ogni aspetto estetico, che riteneva di secondaria importanza.
Il loro rapporto era molto equilibrato, talmente equilibrato, che a volte quando si incontravano in casa, sembravano due estranei che passavano per caso da quelle parti.
Ormai la convivenza era fatta di abitudini, di luoghi comuni, persino nei rapporti intimi, che avvenivano ormai con rara ricorrenza.
Gianna non aveva mai considerato il sesso come un’esigenza preponderante, e nonostante l’età potesse ancora consentire qualche fiammata, era sempre Oscar che prendeva l’iniziativa.
La cosa più complicata era quella di cogliere il momento opportuno, e più passava il tempo e più egli si stava accorgendo che quegli attimi fuggenti si riducevano.
Alla sera Gianna era sempre stanca. Di giorno non si vedevano, e nei giorni di festa dovevano spesso fare i conti con la presenza dei figli, che nei momenti opportuni, anziché uscire con gli amici, decidevano di stare in casa.
Insomma per Oscar, riuscire a fare una scopata con sua moglie era diventata quasi una conquista.
Nonostante tutto egli amava sua moglie e la sopportava anche nei momenti di particolare tensione, durane i quali l’irascibilità di Gianna raggiungeva livelli stratosferici.
A parte tutto ciò, Oscar amava trascorrere il fine settimana a casa sua, lontano dal caos della città e da quell’aguzzino del suo capo ufficio, un ometto piccolo piccolo pieno di pretese, che non perdeva l’occasione di rompere i coglioni anche per motivi futili, forse per compensare quel complesso di inferiorità che la sua statura gli incuteva.
A casa, nel suo regno, viveva finalmente tra le sue cose intime, le sue inseparabili bollette da pagare, il mutuo della casa, che inesorabilmente scadeva alla fine di ogni mese e si abbatteva come una mannaia sul suo stipendio.
In questo suo eremo poteva riflettere sul preventivo del dentista e quanto avrebbe dovuto sborsare, possibilmente senza ricorrere ad un prestito della banca. Una spesa tuttavia necessaria, se voleva continuare a mangiare come prima, quando aveva tutti i denti originali.
In questo suo nido, oltre alla sopportazione della moglie, che da tempo aveva perso gli entusiasmi di gioventù e svolgeva con metodico impegno le faccende di casa con un piglio stoico di chi si rende insostituibile, accettava ormai con rassegnazione le comuni ordinarie situazioni che turbavano la quiete domestica pretesa.
Sua moglie durante il periodo del week-end, lo accettava in casa quasi come un ospite esigente e qualche volta anche ingombrante.
Egli spesso si sentiva come un corpo estraneo, che ostacolava i normali canoni vigenti nel regolamento condominiale della casa.
Il fine settimana era corroborato dall’immancabile promemoria che Gianna non esitava a rammentare al marito, come se egli fosse l’unico responsabile di quelle catastrofi domestiche: l’antina dell’armadio che stentava a chiudersi; la tapparella con la molla allentata, che scivolava lentamente giù, come il suo umore; l’implacabile goccia d’acqua che colava dal tubo del water; la macchia sul plafone, originata da una piccola infiltrazione sul tetto.
A tutto ciò, si aggiungevano le perverse abitudini dei vicini di casa, le cui pareti confinavano con la sua abitazione.
Quel maledetto inquilino che martellava tutti i giorni sulle pareti del suo appartamento, conficcando milioni di chiodi nel muro a qualsiasi ora della giornata, per attaccarci quelle croste di quadri che acquistava d’occasione ai mercatini di quart’ordine.
Senza contare i concitati conflitti tra marito e moglie che scoppiavano a livello ciclico almeno due volte alla settimana.
I due coniugi Zanetti, così si chiamavano, erano una coppia di una trentina d’anni ed avevano un figlio di cinque.
Quest’ultimo era un bimbo che non si sentiva mai, probabilmente ormai terrorizzato dalle tensioni che creavano i suoi genitori ogni qualvolta in casa esplodeva una furibonda lite.
I due giovani coniugi erano dei rissosi per natura, in quanto dal nulla, Oscar e Gianna all’improvviso sentivano esplodere le sfuriate, attraverso le quali non mancavano insolenze reciproche, senza remissione o limiti di offesa.
I toni alterati crescevano progressivamente con l’acredine, ed in alcuni casi quando l’esasperazione prendeva il sopravvento, raggiungendo il top, volavano stoviglie o soprammobili a portata di mano, che si abbattevano violentemente sulla parete confinante con l’appartamento dei Rossi, infrangendosi fragorosamente.
La guerra dei Roses, del film omonimo, al confronto era cosa da educande.
Quelle sottili pareti confinanti, sembravano fatte di cartapesta. Coibentate all’insegna del massimo risparmio, con un precario isolamento acustico costituito da un sottile pannellino di polistirolo, neppure utilizzato dai produttori di imballaggi, non era in grado di isolare neanche la fievole spontanea emissione di una scoreggia.
“Quando ti deciderai ad affrontare quel deficiente del nostro vicino, prima che ci caschi addosso la parete?” urlava Gianna indispettita al marito, considerandolo unico ambasciatore eletto per le pubbliche relazioni, soprattutto se si trattava di conflitti tra inquilini o discussioni da sostenere.
“Aspetto che mi cali il nervoso.” replicò ironicamente Oscar, che non aveva voglia di litigare con nessuno, soprattutto in quei due giorni di vacanza. Si aggirava per la casa rassegnato, in quel cantiere perenne, tentando inutilmente di conquistare un angolo per potersi sedere a leggere in pace il giornale, ma invano.
Gianna lo perseguitava, braccandolo senza tregua, armata di un vecchio aspirapolvere più rumoroso di un motore sbiellato.
Il salotto era già stato conquistato dalla figlia Elisa, che ascoltava una rombante musica tecno di quelle che ti devastano i timpani, con l’hi-fi ad un volume tale da poter osservare i soprammobili vibrare sulle superfici ove erano collocati.
La cucina era occupata dal figlio Marco, che rapito dal televisore, guardava un film di fantascienza, naturalmente a tutto volume, per catturare gli effetti sonori originali.
La camera da letto era un locale sacro, ove appena fatte le pulizie e rifatto il letto non era agibile fino alla sera, quando ci si coricava.
L’ultimo posto non ancora contaminato era il bagno. Lì Oscar poteva sentirsi sicuro e godersi la privacy meritata in quel week-end.
Si preparò un Martini rosso con ghiaccio, e dopo essersi infilato gli occhiali ed aperto il giornale, si sedette rilassato sul water, unendo l’utile al dilettevole, approfittando di quel sacro momento di pace.
Del resto non è da tutti andare di corpo, circondato da tutti i comforts di un bar. Mancavano solo i salatini, ma gli sembrava di pretendere troppo.
“Finalmente rilassato!” pensò
Quello era un luogo sicuro, ove nessuno osava profanare quel momento di quiete caparbiamente conquistato.
Qui poteva riflettere e pensare seriamente a quello che avrebbe voluto e non potuto fare da grande, ma che era miseramente naufragato nel mare dei suoi sogni e delle sue vane speranze.
Quei sogni irrealizzabili, quelli che resteranno per sempre sogni e non si concretizzeranno mai. Poter vivere con una compagna stupenda, molto più giovane di te, abbastanza porca da assecondare tutti i tuoi perversi ed indecenti desideri di sesso senza limite, quasi per compensare i lunghi digiuni patiti.
Abitare in una bella grande casa in mezzo al verde, tanto verde: un parco!
Una casa che dominasse dall’alto di un’altura un mare profondo blu intenso, appena smosso da lievi crespature delle onde che vanno a morire sul bagnasciuga.
Lontani dall’ossessione di inquilini picconatori, né scarichi delle tubazioni che perdono, o neonati che spuntano dal nulla, per singhiozzare a dirotto solo nelle ore notturne, quasi per dare il cambio all’odiato inquilino, che sfinito dopo avere riposto il micidiale utensile sotto il cuscino, si corica pure lui.
Ma all’improvviso i sogni svanirono, trasformandosi in un incubo, quando tornando alla realtà, Oscar realizzò di trovarsi nel suo cesso di tre metri e mezzo per due, e dopo avere espletato i bisogni di cui necessitava, si accorse che la carta igienica era finita.
Tutto come il titolo di quel famoso film: I sogni finiscono con la carta igienica.”
Pensò con invidia alla pubblicità di quei rotoli di carta igienica che pur srotolandosi non finivano mai, inseguiti da una folla assatanata, e si sentì frustrato.
In quel momento pensò che forse vedeva troppa televisione e per un momento si sentì più rimpirlito del dovuto.
A volte divagava con la fantasia, e la sua immaginazione percorreva ampi spazi, dove poter scaricare tutte le paranoie, prendendosi qualche licenza.
Ricordava di un suo amico di Rivoli, grande filosofo, che un giorno gli disse:
“Nella vita ogni tanto è necessario essere un po’ egoisti e pensare qualche volta anche a se stessi!”
Tutto ciò, anche se seduto sul water, in quella situazione un po’ grottesca, lo faceva ugualmente sentire di condividere questa saggia riflessione. In fondo, pur svolgendo il proprio dovere e spesso anche quello degli altri, pensava che probabilmente gli dovesse spettare un incentivo meritorio.
Una pausa ricreativa che permetta di consumare un attimo di follia, senza curarsi della realtà che ci circonda. Bruciare un fascina di stress opprimenti, sconfinando nella trasgressione più incontenibile: fare una cosa pazza e rientrare subito nei ranghi dello squallore quotidiano.
Oscar terminò le sue riflessioni paranoiche, ritenendo che le sue fantasie si sarebbero concluse in quel cesso, poiché non sarebbe mai stato capace di osare, purtroppo non faceva parte della sua indole. Scaricava le tensioni solo nei suoi pensieri, non con i fatti.
Il sabato sera, si prendeva la sua rivincita. Mentre tutti se ne stavano in casa a guardare C’è posta per te, per passare la serata con il fazzoletto inumidito dagli eventi a volte commoventi, che la trasmissione propone come forma di masochistico passatempo, Oscar godeva della sua serata di libertà, trascorrendola nel suo bar che frequentava abitualmente, a due isolati di distanza dalla sua abitazione.
Il bar Stella Rossa era una vecchia bettola, le cui origini risalivano all’epoca degli anni Trenta, ed era considerato a quei tempi un covo di bolscevichi, di quelli campagnoli, che andavano al bar con il fazzoletto rosso al collo, come contrassegno della fede politica in cui credevano.
Pur essendo sempre stato gestito dalla stessa famiglia che si era tramandata di ben tre generazioni, ormai era frequentato da tutti, ma l’ambiente aveva conservato quell’atmosfera di vecchie tradizioni bolognesi.
L’arredamento del bar era fatiscente. Il vecchio bancone di legno consumato dagli anni, con dietro un grande specchio, le mensole con allineate le bottiglie di bevande alcoliche, i vecchi tavoli di legno grezzo e le pesanti sedie in legno massello, erano ancora quelli di un tempo.
C’era una sala con la televisione raramente frequentata, salvo quando trasmettevano una partita in cui giocava la nazionale di calcio e la sala da biliardo, che invece costituiva il centro dell’attenzione dei clienti del bar Stella Rossa.
Infatti abbastanza spesso si tenevano dei tornei e Oscar era uno dei leader della stecca. Normalmente a Bologna si gioca più a boccette, con le mani, ed era per questo che il vecchio ritrovo ove il gioco all’italiana con la stecca: due bilie, un pallino ed un castelletto costituito da cinque birilli, e all’americana a 15 palle, molto praticato, era la fucina delle continue sfide del locale.
In questo locale, Oscar si sentiva un po’ come il Tony Manero del film La febbre del sabato sera.
Era il leader indiscusso del biliardo del bar Stella Rossa e molti cercavano di imitarlo, come un mito che dominava gli incontri, a volte ridicolizzando gli avversari, per la sua classe elevata.
Qui si trovava con i suoi abituali amici e tra una partita a carte ed una sfida a biliardo, contornata dagli sfottò di chi osservava, trascorreva la serata.
Era un ambiente frequentato da gente comune, che viveva la propria semplice vita da rassegnati esseri mortali, senza grandi ambizioni né miracolose illusioni, legate alle schedine delle lotterie che giocavano settimanalmente.
Alcuni, in questo locale risorgevano dalla scialba vita di tutti i giorni, vissuta tra le noiose mura domestiche, o l’odiato posto di lavoro, ritagliandosi delle figure di leader, affibbiate da chi frequentava il bar.
Oltre ad Oscar, che era stato consacrato nel locale come il migliore giocatore di biliardo con la stecca, ed era chiamato lo spaccone, facendo riferimento ad un vecchio film degli anni Sessanta, ove Paul Newman interpretava la parte di un campione di stecca un po’ sbruffone. C’erano altri che si erano meritati sul campo i soprannomi che portavano.
C’era il Lambertini, un vecchio signore distinto, un po’ megalomane, che diceva di discendere dalla famiglia che dette i natali al famoso Cardinal Lambertini. Questo era ciò che sosteneva lui, poiché al bar, mai nessuno era riuscito ad accertarlo. Il Lambertini era stato soprannominato l’avvoltoio. Non era ancora chiaro se quel soprannome gli era stato affibbiato per il comportamento o per quel prominente naso aquilino che lo faceva sembrare come un grosso becco di rapace. Qualunque fosse l’origine dell’appellativo che portava, egli ogni sera si aggirava tra i tavoli da gioco, adocchiando i giocatori di briscola più sfigati della serata, per sfidarli.
Ovviamente giocavano a soldi ed egli non perdeva l’occasione per spillare quattrini alle vittime predestinate.
C’era poi Lallo Bentivoglio detto Lord Brummel, per la sua eleganza, che sfoggiava con un fisico snello ed un portamento che sicuramente si distingueva in mezzo a quella massa di gente comune. Faceva il rappresentante di commercio per una ditta di abbigliamento, e prima di mostrarli come campionario ai negozi di distribuzione più importanti della città, non perdeva l’occasione di indossare i modelli, esibendoli in anteprima al bar Stella Rossa, come una passerella di un atelier.
Ad un giovane veterinario era stato affibbiato il soprannome di lo stregone, a causa delle crude descrizioni a volte da macellaio, con cui interveniva chirurgicamente sugli animali affetti da qualche malattia. Ad un impiegato di banca che si dava importanza come fosse il presidente della Banca d’Italia, era semplicemente stato chiamato Carisbo, anche se il vero nome che portava era semplicemente Mengazzi.
Il cagnazzo, era invece un tipo molto rissoso, che quando perdeva a carte, insultava in modo offensivo ogni suo avversario che lo aveva battuto, rischiando a volte di venire alle mani.
Remo Aldrovandi era un tipo sanguigno di origine romagnola, con un carattere focoso ed una imponente mole che incuteva qualche timore a chi lo andava a stizzire. In genere la gente cercava di stargli alla larga evitando di farlo incazzare.
C’era poi Orlando, un giovanottone di una trentina d’anni, alto quasi due metri con due enormi spalle da lottatore, simile all’imponente figura di Hulk ed una faccia da beota gaudente con un cervello piccolo come quello di un pulcino.
Era di origine lombarda, trapiantato nel suolo emiliano, e proprio per la sua gigantesca mole abbinata alla stupidità, aveva ricevuto l’appellativo di Caterpirla.
Ma tutto sommato era un animale domestico con attitudini buone, sempre disponibile a prestare l’aiuto fisico a qualcuno che ne aveva bisogno e la gente in fondo gli voleva bene.
Aveva una forza mostruosa, ma non sarebbe mai stato capace di fare del male ad una mosca.
Viveva solo in un cascinale vicino ad Osteria Grande e lavorava come facchino all’ortofrutticolo di Bologna.
Appena Oscar entrò, salutò tutti, come al solito e prima di avviarsi verso la sala da biliardo, fu fermato da Otello, il barista, che dopo averlo salutato gli disse:
“Come va Oscar? Hai visto che è tornato Roby?”
Oscar si girò intorno, ma non riuscì ad individuarlo.
Roberto Sarti era un suo grande amico. Avevano fatto il liceo scientifico insieme a Bologna, dove si erano conosciuti, e anche la naia, nella stessa caserma a Modena.
Era da tempo che non lo vedeva, ma faceva parte delle sue abitudini. Era un rappresentante di abbigliamento femminile e a volte spariva con il suo carico di modelli di abiti per fare il giro di mezza Italia.
Cambiava le macchine come le scarpe, poiché macinava migliaia di chilometri.
“Guarda là, vicino alla finestra,” indico Otello, sta parlando con il Gamberini.”
Fu in quel momento che riuscì ad inquadrarlo, ma era notevolmente cambiato, e quasi non lo riconosceva.
A parte il nuovo look dei capelli, tagliati e pettinati con tempie quasi rasate e un ciuffo che gli cadeva appena sulla fronte, come un seguace della moda Punk. I capelli castani striati di qualche filo grigio erano stati tinti con un color rossiccio rame, che davano nell’occhio anche a distanza.
Ma che dire del nuovo abbigliamento?
Vestiva un attillato jeans di Armani, con un pullover rosso, molto chiassoso, con sul petto un grande numero 77, da giocatore di baseball.
Sembrava ringiovanito di quasi dieci anni e Oscar si chiese quale acqua della giovinezza avesse bevuto per creare quella magica trasformazione.
Roby lo vide, e fu la giusta occasione per interrompere la conversazione con quel rompiballe del Gamberini, che a turno andava a tampinare un po’ tutti quelli che gli capitavano a tiro, attaccando bottoni infiniti, nella dettagliata narrazione dei suoi fantasiosi viaggi in Africa, quando faceva l’importatore di caffè.
Storie gonfiate, alimentate dalla sua fervida inesauribile fantasia, con la quale cercava di accattivarsi la stima e la simpatia dei presenti. “Ciao, Roby?” lo salutò Oscar andandogli incontro.
“Oscar, come va. È da una vita che non ci vediamo.”
“Io veramente tutti i sabati sono qui. Sei tu che sparisci. Sei andato anche tu in Africa con il Gamberini?” gli chiese ironicamente.
“Lascia perdere. Quello quando comincia non ti molla più. Mi stava raccontando delle sue avventure in Costa d’Avorio.”
“Ma lì non c’è caffè!” affermò Oscar, che era sempre stato un appassionato di geografia merceologica.
“Sai come è fatto. Deve sempre inventarsi delle cazzate, per farsi bello.
A sentire lui mi sembra il fratello maggiore di Indiana Jones.!”
I due si sedettero ad un tavolo e tolti di mezzo alcuni vecchi quotidiani, ordinarono a Otello due birre.
“Sei in completo spolvero!” osservò Oscar, riferendosi all’aspetto invidiabile dell’amico.
L’ultima volta che l’aveva visto al bar, erano seduti a parlare delle reciproche sfighe quotidiane, davanti a due chicchere di caffè vuote ed un portacenere semipieno di mozziconi spenti e Roby era apparso depresso, ciò gli accadeva abbastanza spesso negli ultimi tempi.
Gli argomenti erano i soliti, il lavoro, la vita comune in famiglia, la noia ed i luoghi comuni che sfiorano l’entourage un po’ di tutti.
Ad Oscar appariva strano, come si potessero frequentare quotidianamente persone, anche molto vicine, senza conoscerle mai abbastanza, come quello della porta accanto, mentre incontri occasionali, spesso offrono l’opportunità di aprirsi a sfoghi anche confidenziali, senza falsi pudori, che a casa non faresti mai.
Roberto aveva la stessa età di Oscar, ma negli ultimi tempi navigava spesso nel mare della depressione, colpito da folate straordinarie di sfiga che lo assalivano a tradimento.
Eppure non gli mancava nulla. Aveva una moglie belloccia, due figli che frequentavano il liceo, un buon stipendio, che unito a quello non trascurabile della moglie, contribuivano a consolidare un solido benessere.
Negli ultimi tempi lo vedeva spesso con un aspetto di cane bastonato e frequentandolo, stava cominciando a preoccuparsi che quel virus fosse contagioso e temeva per la propria incolumità.
Ed ora l’aveva ritrovato rigenerato, pieno di verve, allegro e completamente rimesso a lucido.
Sembrava che fosse appena tornato da Lourdes.
“Mi trovi così cambiato? Ho molte cose da dirti.” disse ad Oscar, che cominciò ad insospettirsi. “Ho bisogno di confidarmi con un amico, altrimenti esplodo!”
Sorseggiò la schiumosa birra alla spina che nel frattempo Otello aveva servito ad entrambi e riprese euforico, come non aveva visto mai, neppure quando erano più giovani ed i pensieri erano ben altri di quelli vissuti in quel momento, pieni di responsabilità, accumulati con l’età ed i pressanti impegni.
Oscar, osservando come si era combinato l’amico, cominciò a preoccuparsi che si fosse infilato in qualche gruppo un po’ bizzarro che avesse magari a che fare con qualche giro poco chiaro, e si dispose ad ascoltare il suo racconto, pieno di interesse e curiosità.
“Ho conosciuto una ragazza splendida e mi sono perdutamente innamorato di lei!” disse all’amico tutto d’un fiato.
Oh mamma mia! Pensò Oscar, ecco rivelato l’arcano. Questo è completamente partito, andato giù di testa, fuso, insomma!
Ecco svelato come un uomo che si avvicinava ai cinquanta si trasformava, acconciando i capelli in modo ridicolo e patetico gallinone di periferia, di quelli che scendono dai monti con la piena; vestito da perfetto adolescente, che addosso a lui dava un aspetto da maturo pirla in camuffa: un ricostruito gigolò di provincia.
All’improvviso Oscar, senza che potesse esprimere alcuna opinione, fu travolto da uno tsunami inarrestabile di notizie riguardanti quella splendida, intelligente, avvenente creatura angelica che aveva conquistato il suo cuore.
Dalla descrizione di Roberto, la giovane che all’anagrafe aveva almeno trent’anni meno di lui era l’immagine di una copertina di Play Boy, dotata di un carattere stupendo, disponibile, che gli aveva giurato eterno amore.
Una figura atletica, con un corpo spettacolare, un viso da attrice del cinema ed una carica di femminilità da affascinare solo a guardarla.
“Ho finalmente riscoperto le passioni di un tempo, i miei entusiasmi giovanili, che avevo riposto da tempo in un cassetto. Ho ritrovato in me quella bramosia del sesso spregiudicato che avevo dimenticato, ridonandomi la gioia di vivere!
Mi sento bene, come non mi sono sentito mai ed ogni volta che sto vicino a Gilda, nasce dentro me una nuova forza, che mi stimola ad affrontare la vita con decisione e sicurezza.”
“Dove l’hai conosciuta?” chiese Oscar incuriosito, cercando di interrompere questo inarrestabile monologo che rischiava di continuare per ore.
“Chattando su internet. È stato un colpo di fulmine.
Dopo alcuni scambi di posta elettronica, abbiamo scoperto di condividere molte cose e di avere molte passioni in comune.

[continua]


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