L’intruso

di

Lino Lecchi


Lino Lecchi - L’intruso
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 380 - Euro 17,00
ISBN 978-88-6587-2505

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In copertina fotografia dell’autore


I contenuti ed i luoghi ove questo romanzo è ambientato, come alcuni personaggi e protagonisti descritti, sono frutto della fantasia dell’autore.


Dalla lettura notarile di un testamento emergono le ultime volontà alquanto sorprendenti di un eccentrico imprenditore scomparso in tragiche circostanze. Uno degli eredi nominato nel testamento è un personaggio enigmatico che appartiene a un passato piuttosto misterioso della vita privata del defunto. È un erede che non fa parte dei famigliari presenti al momento della lettura del testamento e di cui viene messa in dubbio persino l’esistenza.
Tutto ciò scatena negli eredi legittimi una energica protesta, con minacce di impugnazione del documento. Soprattutto si apre un panorama nuovo ed imprevisto che presenta una serie di domande legittime.
Chi è costui? Perché viene nominato nel testamento e con quale diritto?
Sarà necessario scavare nel tempo e indagare sull’identità di questo scomodo presunto erede intruso, inserito nella spartizione dei beni della famiglia.
In questa intensa vicenda nasce una appassionante storia d’amore tra i due protagonisti.
Un romanzo avvincente, come è consuetudine nei testi di Lino Lecchi, che terrà il fiato sospeso fino alla fine, in una altalena di eventi che percorrono mezzo secolo di storia.



L’intruso


A mia moglie Anna, dopo i primi quarant’anni vissuti nel ricordo di intensi momenti indimenticabili ed un radicato profondo affetto.


La necessità di parlare, l’imbarazzo di non avere nulla da dire e la brama di mostrarsi persone di spirito, sono tre cose capaci di rendere ridicolo anche l’uomo più grande.

VOLTAIRE
(Lettere filosofiche)


Capitolo primo

Oceano Atlantico 25 luglio 1956

Matteo Olivari spinse la porta e si trovò in una zona di poppa della nave.
All’esterno, un capannello di persone assisteva ad una partita di scacchi tra due contendenti che disputavano l’incontro sopra una grande scacchiera intarsiata sul legno del pavimento della nave.
La dimensione degli scacchi di legno era quasi a misura d’uomo e i due avversari muovevano i pezzi, sollevandoli quasi a fatica, per spostarli, secondo la mossa prescelta, nell’apposita casella.
Il pubblico assisteva divertito all’incontro, commentando sottovoce le mosse dei due antagonisti ed applaudendo ad ogni mossa di particolare riflessione strategica. Molto distante, una coppia di giovani, all’apparenza in viaggio di nozze, se ne stava appartata accanto al parapetto, parlando pacatamente e scambiandosi teneri sorrisi, avvolti da un’atmosfera idilliaca.
Per loro la vita stava iniziando con quella crociera.
Accanto alla fiancata di poppa, due giovani ed avvenenti ragazze se ne stavano sdraiate sopra i lettini di tela, in costume da bagno, ad abbronzarsi esposte ai raggi di quel cocente sole di luglio, mitigato da una gradevole brezza marina.
Alcuni ragazzini si rincorrevano, disturbando la quiete dei passeggeri, senza che i genitori intervenissero per impartire loro di calmarsi.
Matteo, annoiato dalla confusione, percorse un breve tratto che costeggiava il ponte della nave, e dopo avere estratto dal personale astuccio di cuoio un sigaro toscano, si fermò per accenderlo riparando dall’aria con la mano, il fiammifero di legno che aveva strofinato sul fianco dell’apposita scatolina. Aspirò profondamente e si avviò lungo la passeggiata del ponte superiore, ove alloggiavano i passeggeri di prima classe.
Raggiunse la zona di prora, spazzata dal vento che la nave incontrava nel corso della navigazione.
Appoggiato al parapetto della nave, Matteo scrutava con i suoi occhi azzurri color del mare che spiccavano dalle grigie sopracciglia cespugliose, l’infinita distesa dell’oceano, appena crespato dalle onde infrante dallo scafo.
Con aria annoiata osservava la scia schiumosa che da prora, scivolava lungo la fiancata della nave.
Il cielo di un blu intenso ed il mare, quasi si confondevano in quel caldo pomeriggio estivo.
L’enorme fumaiolo del transatlantico sbuffava folate di fumo che il vento dissolveva nell’aria, come il fumo del sigaro che Matteo serrava tra le labbra, rigirandoselo quasi per gioco, da un lato all’altro delle labbra.
Nonostante i suoi settant’anni suonati era ancora un uomo di bell’aspetto, dalla figura snella slanciata e distinta.
Il suo volto, scalfito da qualche ruga, esibiva un fiero naso aquilino e occhi azzurri, dall’intenso sguardo profondo molto austero ed i capelli ondulati ormai grigi, ben curati.
Vestiva un abito classico in doppiopetto, di fresco gabardine color beige, dalla linea elegante, confezionato su misura, camicia blu a righine bianche ed una cravatta di seta color amaranto.
Matteo curava molto la sua immagine ed era piuttosto esigente con il suo sarto, sia nella scelta dei suoi abiti, disegnati secondo i dettami della moda del momento, sia nella selezione delle stoffe, a cui dedicava una scrupolosa attenzione. La traversata dell’oceano si stava svolgendo nei tempi previsti dal piano di navigazione.
La turbonave da crociera Andrea Doria era salpata dal porto di Genova ed a Dio piacendo, avrebbe raggiunto New York la mattinata del giorno dopo.
Il moderno transatlantico, per la sua evoluta tecnica avanzata, era considerato la nave ammiraglia della flotta italiana di quel momento.
Era stata varata cinque anni prima nei cantieri navali Ansaldo di Genova Sestri.
Il maestoso scafo sfoggiava una linea affusolata moderna, disegnata da progettisti navali di prim’ordine, per essere più dinamica e meglio fendere le onde, guadagnando più nodi di velocità nelle traversate oceaniche.
La potenza delle macchine sviluppavano una velocità massima di 26 nodi. La nave aveva una stazza lorda di 29.000 tonnellate, ed una lunghezza che superava i 213 metri per 27 metri di larghezza.
Poteva trasportare fino a 1240 passeggeri e 580 uomini di equipaggio.
Inoltre, l’elegante estetica e la sofisticata rifinitura dei raffinati ambienti interni, la ricercatezza degli arredamenti di gran classe, assegnavano all’Andrea Doria lo scettro di una delle più belle navi del mondo.
Era una nave da crociera di ultima generazione, invidiata dalle più importanti compagnie di navigazione internazionali.
Costituiva l’orgoglio della marina italiana, il vanto delle industrie cantieristiche navali nazionali.
Era l’epoca in cui la crociera era considerata un turismo da élite e di lì a pochi anni con il sopraggiungere di un certo benessere, sarebbe diventata una vacanza alla portata di tutti.
Matteo viaggiava solo e non stava compiendo quel viaggio come un qualunque turista in crociera, ma andava a New York per affari.
Avrebbe potuto accelerare i tempi compiendo la transvolata dell’oceano con un aereo, ma aveva sempre avuto paura di volare.
Era un timore congenito, che non era mai riuscito a vincere.
Non era mai riuscito a convincersi del fatto, che nonostante il peso trasportato, quelle infernali macchine volanti riuscivano a stare sollevate per aria.
Era solo un suo handicap, un maledetto blocco mentale che non era mai riuscito a superare.
Matteo Olivari non era uno sprovveduto, ma alla sua età, era difficile ormai rimuovere queste remore ataviche.
Tuttavia, questi piccoli blocchi non gli avevano impedito di diventare un invidiabile magnate della finanza, un uomo potente temuto e rispettato.
La sua intelligenza, unita ad una approfondita preparazione professionale e ad un raro istinto del senso degli affari, lo avevano catapultato all’apice del potere.
Era stata un’escalation rapida, maturata grazie ad abili investimenti effettuati nel modo più proficuo, al momento più opportuno.
Nella sua vita era stato come una specie di schiacciasassi, che passava sopra a qualunque ostacolo, travolgendo tutto ciò che si frapponeva tra i suoi progetti e la meta da raggiungere.
In questa sua ascesa aveva sfruttato conoscenze di natura politica, direttori di banca e funzionari dell’alta finanza, a suo piacimento, da quando aveva scoperto che ogni persona aveva un prezzo.
Era in ottimi rapporti con i più importanti imprenditori italiani del momento, come Enrico Mattei, fondatore dell’ENI, Leo Longanesi grande editore insieme a Treccani fondatore della famosa enciclopedia italiana.
Frequentava la famiglia Borletti, il cui antenato senatore Borletti aveva fondato un grande magazzino moderno del tipo americano, di cui il fortunato ed indovinato nome La Rinascente fu una intuizione di Gabriele D’Annunzio, amico del Senatore.
In seguito i discendenti, da una grande idea innovativa, fondarono la società Borletti Macchine da cucire.
Era in buoni rapporti con Adriano Olivetti proprietario della famosa industria di macchine da scrivere di Ivrea e conosceva abbastanza bene Giovanni Borghi, il fondatore della Ignis, che in quegli anni aveva segnato il boom nella vendita degli elettrodomestici.
Con la famiglia Agnelli, aveva un profondo rapporto di amicizia, soprattutto con l’avvocato Gianni Agnelli, con il quale condivideva la stessa fede juventina per il gioco del calcio.
Era un estimatore di Indro Montanelli che considerava una delle ascendenti esimie penne del giornalismo italiano.
Aveva buoni rapporti con Giorgio Almirante, del quale ammirava le elevate capacità oratorie e l’intelligenza politica, pur non essendo iscritto al MSI. Il suo successo era stato comunque costruito, senza ricorrere a compromessi malavitosi, i cui maggiori esponenti si erano proposti per offrire i propri servigi, pur di combinare qualche affare con lui.
In tutto questo percorso di imprenditore, Matteo Olivari aveva subìto molte critiche e spesso si era trovato in polemica con i politici, che attraverso alcune leggi emesse, non favorivano in quel momento la possibile ascesa di imprese sane ed innovative.
Nonostante tutto egli era andato avanti per la strada in cui credeva, rifiutando proposte di collaborare con la mafia, sebbene avesse ricevuto spesso richieste di intrallazzi da parte di alcuni boss siciliani.
Secondo il suo modo di pensare, nel mondo degli affari non c’era spazio per i deboli e le incertezze erano mali contagiosi che infettavano l’ambiente finanziario, causando epidemie irreversibili.
Le fondamenta dei suoi successi erano sorte sulle ceneri dell’ultima guerra, attraverso oculati investimenti sui quali aveva costruito le sue ricchezze.
Se qualcuno lo aveva accusato di essere un uomo senza scrupoli, altri ne avevano seguito l’esempio, come dei cloni privi di stile e di autentiche proprie capacità.
Nell’ambiente della finanzia, Matteo Olivari era paragonato a Re Mida, poiché attraverso il suo fiuto nell’investimento di capitali, trasformava tutto in oro.
Ma egli non aveva mai prestato attenzione agli attacchi dell’opinione pubblica, proseguendo imperterrito per raggiungere gli obiettivi che si era imposti.
Considerava la critica figlia dell’invidia.
Ai nostri giorni vige un famoso detto, coniato da un famoso ed intelligente politico:
Il potere logora chi non ce l’ha!
Del resto Matteo Olivari non doveva nulla a nessuno. Era nato da una famiglia di operai come Ford, negli Stati Uniti.
Aveva cominciato a lavorare a quattordici anni come garzone nel reparto fonderie delle Acciaierie Falck di Sesto San Giovanni in provincia di Milano.
Poi, ancora giovane, pur lavorando, aveva frequentato dei corsi serali per avere quel minimo di istruzione necessaria per accedere in alcuni ambienti importanti. In seguito, l’esperienza gli aveva insegnato, frequentando la gente che contava, ed ascoltando ogni discorso e preziosi consigli, come funzionava il giro del fumo.
Intraprendente com’era, non perse tempo a mettere in pratica ogni opportunità che si presentava, cominciando la sua ascesa.
Queste scelte ferme ed oculate non avevano escluso casualità, intrighi, opportunismi con l’aiuto anche di un po’ di fortuna, che come si sa a volte bacia gli audaci.
L’inizio della sua escalation fu solo interrotta dall’avvento della prima guerra mondiale, in occasione della quale fu arruolato nel glorioso corpo degli alpini della Julia.
Fu ferito ad un piede da una scheggia di una granata lanciata da un mortaio nemico, durante un’offensiva per respingere gli austriaci sull’altipiano di Asiago e del Grappa, ove gli alpini si distinsero con encomiabili atti di eroismo.
Dopo le opportune cure e una breve degenza fu rispedito al fronte. La sua compagnia era affamata di rinforzi e non poteva rinunciare a feriti di secondo grado.
Rimase a combattere fino alla fine del conflitto e fu congedato con i gradi di tenente, maturati sul campo di battaglia.
Quando cambiava il tempo, quella ferita gli faceva ancora male nonostante tutto quel tempo passato, riportandogli alla memoria quei lontani momenti della sua gioventù.
Una folata di vento proveniente da prora investì Matteo, facendolo rabbrividire.
Stava scendendo la sera ed il sole era prossimo al tramonto. La luce stava lentamente calando. Si soffermò per un istante ad osservare incuriosito la densa foschia che si affacciava all’orizzonte, probabilmente originata dalla calura di quella lunga giornata. Sfilò l’orologio d’oro massiccio attaccato alla catenella, che teneva nel taschino del gilet ed aperto lo sportellino della doppia cassa, guardò l’ora, e si soffermò come era solito fare, ad osservare la fotografia incastonata nell’altra parte del coperchio.
L’immagine di sua moglie, ritratta in età giovanile lo guardava sorridente. Era tutto ciò che aveva di lei e le ricordava i tempi della gioventù, subito dopo averla sposata.
Sì, Matteo Olivari era un uomo molto ricco, ma anche molto solo.
Nel corso della sua cavalcata al potere, aveva tagliato fuori la sua famiglia ed ora alla sua età, la sua vita era vuota, priva di affetti.
Si sedette sopra una panchina posta lungo la passeggiata della nave, ed appoggiò il cappello sopra un tavolino accanto.
Appena vide un cameriere ordinò un Bitter Campari, con ghiaccio e limone.
Tornando al passato, a volte si svegliava di soprassalto, colto dagli incubi, rivivendo la drammatica vicenda del suicidio di sua moglie, che si era buttata dal quinto piano, andandosi a schiantare sopra una macchina parcheggiata nella via.
Un suicidio dettato dalla depressione, originata dalla solitudine.
Matteo si era sentito in colpa per quella tragedia ed aveva successivamente tentato di riversare l’affetto sui figli, cercando di recuperare almeno con loro i sentimenti smarriti con sua moglie, ma nel modo sbagliato.
Gli affetti non si comprano ed egli pensava di conquistarli riempiendoli di eccessi di benessere, togliendo loro la soddisfazione del merito delle cose desiderate.
E fallì una seconda volta.
Se la sua vita professionale era stata una brillante ascesa, la sua vita privata era marcata a fuoco come un autentico fallimento.
Considerava suo figlio Gianni, ormai quarantacinquenne un debosciato, dedito a sperperare con il gioco d’azzardo tutto l’appannaggio mensile che il padre gli versava come stipendio per il suo sostentamento.
Viveva da solo in un appartamento di Montecarlo acquistato dal padre. Era un single forzato e le uniche donne conosciute erano le puttane di lusso, entreneuse, avventuriere, rimorchiate al Casinò e portate nella sua alcova di Montecarlo, ove si era stabilito ormai in pianta stabile.
Gianni amava le auto fuori serie di lusso che il genitore gli regalava in occasione dei compleanni.
Nella stagione invernale si dedicava allo sci, mentre d’estate non perdeva occasione per cimentarsi in tornei di tennis e di golf.
Insomma un fancazzista di professione o parassita, come usava considerarlo il padre.
Dalla figlia prediletta Moira, invece il vecchio si era sentito tradito, deluso.
Lei aveva quarant’anni viveva da sola in una villetta isolata in Brianza.
Era reduce da due matrimoni falliti, che fortunatamente non avevano generato figli.
Dopo l’ultima separazione, ogni ulteriore tentativo di approccio con il genere umano maschile era naufragato.
C’era da dire che al di là dei soldi che possedeva, Moira non aveva un carattere tra i più docili.
Inoltre in occasione dell’ultimo matrimonio, erano emersi in lei sentimenti contrastanti, che avevano reso la separazione, una liberazione per entrambi i coniugi.
Tutto era cominciato con l’interruzione dei rapporti intimi con il marito, per il quale Moira non nutriva più alcun sentimento, anzi la sua vicinanza gli creava un senso di repulsione.
Dopo questa esperienza negativa, Moira non provava più alcuna attrazione per il sesso maschile e si stava rendendo conto che le sue tendenze sessuali stavano forse assumendo i connotati dell’omosessualità.
Il padre era di idee conservatrici, ed appena venne a conoscenza delle nuove tendenze della figlia, alla quale già aveva aspramente criticato i due matrimoni falliti, rendendola responsabile delle separazioni, l’aveva temporaneamente emarginata dalla sua vita, considerandola la vergogna della famiglia.
Anche lei non era entrata a far parte della gestione delle attività del padre, ma il vecchio aveva deciso di elargire come per l’altro figlio dissoluto, un assegno mensile, purché stesse alla larga dalla sua vita professionale.
Moira era stata biasimata dal padre, ma non provava alcun risentimento per questo allontanamento dalla famiglia, se di famiglia si poteva ancora parlare.
Nonostante tutto, il loro era un rapporto di amore odio, in quanto il vecchio era sempre intervenuto ad aiutarla nei momenti difficili Si sentiva finalmente libera di vivere la sua vita, senza fiato sul collo da parte di nessuno che potesse criticare la sua reputazione, senza vincoli con alcuno.
Ovviamente non disdegnava i soldi che il padre le inviava alla fine di ogni mese, poiché non aveva altra fonte di reddito, dal momento che non si era mai resa autosufficiente dal punto di vista economico.
Con quei soldi viveva degnamente e si comprava le compagnie femminili che desiderava, anche se questi rapporti duravano per brevi periodi.
Moira, non appena il rapporto diventava noioso e privo di stimolo, scaricava l’amante di turno, cercando nuove partners per soddisfare i suoi sensi.
Tuttavia era una vita equivoca, senza veri amici che nutrissero un autentico affetto.
Presto questa solitudine la spinse ad annegare i suoi dispiaceri attaccandosi alla bottiglia di Vodka, che svuotava con assidua continuità, diventando alcolizzata.
L’alcol era diventato ormai l’unico punto di riferimento della sua vita.
Quando si ubriacava, l’alcol le annebbiava la mente ed era colta da terribili convulsioni. Spesso era assalita da terribili allucinazioni, durante le quali torme di scarafaggi le coprivano il corpo, e stormi di pipistrelli le volavano attorno emanando versi spaventosi, insinuandosi tra i capelli, per strapparglieli.
Dei corvi neri calavano dall’alto, emanando gracchianti versi, cercando di beccarle gli occhi.
Durante la notte il sonno era tormentato da incubi spaventosi e si svegliava sobbalzando dal letto madida di sudore.
Ma il peggio venne in seguito. Quando l’alcol non bastò più a lenire questo suo stato di depressione, iniziò a fare uso di droga, precipitando nel profondo baratro della devastazione.
Un giorno tentò il suicidio, tagliandosi le vene. Fu per un mero caso che la zia Monica, facendole una visita, la trovò riversa nella vasca da bagno, con il sangue sparso un po’ dappertutto.
Il padre la fece ricoverare in una clinica privata, cercando di affidarla a medici esperti che ne curassero la disintossicazione.
Tuttavia dopo quella tragica vicenda, il fisico ne uscì distrutto. Mostrava almeno dieci anni in più di quelli che aveva in realtà.
Paradossalmente, la drammatica situazione aveva riavvicinato padre e figlia, anche se i rapporti non furono mai più quelli di un tempo, quando Moira era considerata la prediletta.
Il vecchio provava una profonda compassione per la disgraziata figlia e cercò di colmare nel poco tempo a disposizione, la lacuna di mancanza di attenzioni rivoltole fino a quel momento, dedicandole l’affetto provato per lei in passato, quando aveva previsto per quella ragazza un radioso futuro.
Matteo terminò di bere il Bitter che il cameriere gli aveva servito, pensando con amarezza ai suoi figli e a ciò che aveva previsto per loro fin dalla loro infanzia.
Aveva sbagliato tutto, ma anche loro non avevano mai mostrato nei confronti del genitore una minima disponibilità per poter trovare un equilibrio, salvando la famiglia che invece si era disgregata.
Con il tramonto l’aria si era raffreddata ed alzandosi Matteo rabbrividì, affondando le mani nelle tasche, con il calare della sera il vento era decisamente diventato più freddo.
Decise di rientrare nella sua suite riservata per prepararsi per la cena.
Considerando l’importanza e la razionalità degli spazi sopra una nave, la suite che ospitava Matteo aveva decisamente le dimensioni di un elegante appartamento.
Il pavimento della suite era rivestito con una preziosa moquette di Luis de Porter a pelo alto.
Il salotto era arredato con lussuose poltrone trapuntate di pelle marrone, mobili di mogano in stile classico accostati alle pareti, con scaffali contenenti libri ed un mobile bar, fornito di liquori e champagne.
La camera da letto era molto elegante, costituita da un letto matrimoniale, comodini, un comò in stile ed un armadio.
Lo spazioso bagno adiacente alla camera da letto, era rivestito di ceramiche di Faenza e rubinetterie di lucido ottone.
Sulle pareti della suite, qualche quadro ad olio rappresentava riproduzioni di antiche battaglie navali tra velieri d’epoca in mare aperto.
Tutto l’arredamento era estremamente elegante e di buon gusto.
Dopo essersi fatto una doccia e cambiato d’abito, raggiunse la sala da pranzo riservata ai passeggeri di prima classe e si sedette al suo tavolo riservato. Diede uno sguardo al menù senza grande convinzione, non aveva molto appetito e ordinò al cameriere una costata di vitello alla griglia, con contorno di insalatina verde ed una bottiglia di Nebbiolo d’annata.
Durante la cena, servita in quella sala da pranzo molto elegante, frequentata da poche persone provenienti dalle cabine di prima classe, cominciò a pensare all’incontro di lavoro che avrebbe avuto la sera successiva in un ristorante di New York.
Un importante incontro di affari che gli avrebbe permesso di assicurarsi brevetti esclusivi, per speciali produzioni in Italia.
In seguito decise di recarsi al piano bar, molto accogliente ed intimo, dove un bravo pianista eseguiva dei famosi motivi di Glenn Miller.
Due coppie ballavano, al centro della sala, illuminata da luci soffuse colorate, rendendo ancora più malinconica e patetica quell’ultima serata di navigazione.
Si era sempre chiesto il motivo per il quale negli ambienti frequentati da gente altolocata, non ci potesse essere un po’ di allegria, un po’ di quella dissolutezza che invece veniva offerta nelle sale dei passeggeri di classe economica, ove il divertimento era garantito.
Si accostò al banco ed appollaiato sopra uno sgabello alto girevole, ordinò al barman un cognac secco della Guascogna Armagnac senza ghiaccio.
In attesa del cognac francese d’annata, si accese un sigaro.
Un ufficiale della nave, scorgendo la presenza di quel passeggero solitario, si avvicinò per tenergli compagnia.
Matteo non era certo una persona che soffriva di solitudine, ma accettò la presenza del giovane dalle belle intenzioni di boy scout.
“Buona sera.” esordì, l’ufficiale.
“Buona sera capitano”, rispose Matteo, riconoscendo i gradi dalla divisa.
Il capitano gli si sedette accanto ed ordinò al barman un caffè macchiato.
“È la prima volta che viaggia sulla nostra nave?” chiese tanto per rompere il ghiaccio.
“Sì,” rispose Matteo, soffiando il fumo voluttuosamente aspirato dal sigaro.
“Gran bella nave, non è vero?” chiese l’ufficiale, compiacendosi di far parte dell’equipaggio.
“Ci mancherebbe altro, con quello che è costata!” esclamò Matteo.
“Conosce i costi?” chiese il marinaio, quasi irridendo l’osservazione un po’ troppo di carattere economica, al riguardo delle prestazioni e dei servizi che la nave era in grado di offrire ai passeggeri.
“Ovviamente”, rispose con cognizione, “sono anch’io socio della società armatrice Italia Navigazione.
Un pezzo di questa nave è anche di mia proprietà” disse con la massima disinvoltura, come stesse dicendo una battuta.
“Beh, complimenti, allora!” rispose il capitano quasi disarmato.
“Complimenti a voi per l’organizzazione, comunque. È la prima volta che viaggio sull’Andrea Doria e devo dire che rispetto ad altri viaggi da me fatti con altre navi, il servizio è ottimo ed anche tutto il resto.
Penso di avere ben investito il mio denaro.” disse Matteo, espellendo una nuvola di fumo.
“La ringrazio” rispose rinfrancato il capitano, “l’equipaggio è composto da 580 persone tutte qualificate.
Personale esperto e selezionato per ogni servizio.”
“Me ne compiaccio” tagliò corto il finanziere, che non brillava certamente per la loquacità, quella sera.
Matteo spense il toscano nell’apposito portacenere e dopo aver terminato il cognac, salutò cordialmente l’ufficiale e lasciò la sala.
Quella sera non era molto di compagnia. Sapeva di essere un orso ed anche in alcune circostanze, di palesarlo apertamente, rendendosi uno sgradevole compagno di viaggio.
Inoltre normalmente si coricava abbastanza presto alla sera, in quanto alla mattina era abituato ad alzarsi alle luci dell’alba.
Oltre tutto c’era anche la questione del fuso orario da considerare e voleva sentirsi fresco, l’indomani allo sbarco, per poter meglio essere preparato per l’incontro previsto nella serata.
Una volta raggiunta la sua cabina, molto elegante e spaziosa come un miniappartamento, si spogliò e dopo le consuete pratiche in bagno, diede una curiosa occhiata fuori dall’oblò.
Erano le 22,30 e contrariamente alle altre sere, non riuscì a trovare la luna che si specchiava nel mare nero.
Sorprendentemente, per quella stagione, una fitta nebbia avvolgeva ogni cosa ed il mare era completamente scomparso.
Si sdraiò sul letto e dopo avere acceso la luce dell’abat-jour, prese il libro dal comodino e tolto il segnalibro, si mise a leggere.
La lettura era l’unica cosa che riusciva ad estraniarlo dai pensieri e dallo stress quotidiano.
Le sue letture erano sempre orientate verso romanzi classici, composti da autori di notorietà indiscussa che proponevano testi fantasiosi e spesso anche un po’ arcani.
Amava anche libri polizieschi ed era un ammiratore di Agatha Christie.
Quando trovava un romanzo che gli piaceva, si buttava a capofitto, rapito dal contenuto, che lo portava lontano dal suo ambiente, in mondi sconosciuti in compagnia di protagonisti e personaggi intriganti e misteriosi.
Purtroppo il tempo era sempre avaro e quindi si era abituato alla lettura serale, che spesso gli consentiva di addormentarsi senza l’aiuto di sedativi.
Era l’ultima sera che avrebbe trascorso su quella nave. Poi per qualche giorno il suo impegno si sarebbe orientato su ben altre cose.
Si infilò gli occhiali e rilassandosi sul letto, cominciò a leggere.
Dopo poco più di un’ora, il libro gli era scivolato sulla coperta ed egli giaceva appisolato sul cuscino.
All’improvviso fu svegliato da un tremendo urto che lo fece sobbalzare sul letto.
Il contraccolpo aveva quasi sollevato il letto sbalzandolo sul pavimento.
“Cosa diavolo…” imprecò, spaventato dal violento impatto.
Prima che si rendesse conto di ciò che era accaduto, udì delle urla concitate provenire dal corridoio.
Uno scalpiccio di piedi nudi sul pavimento di linoleum. Gente che gridava, implorando aiuto con voci strazianti, pianti isterici dettati dalla paura.
Ancora mezzo addormentato, non riusciva a comprendere tutta quella confusione.
La sua cabina di prima classe era collocata a prora, non era una zona molto popolata.
Cercò di alzarsi per andare verso la porta, aveva intenzione di chiedere a qualcuno che stava correndo, cosa diavolo stesse accadendo.
All’improvviso si accorse che il pavimento si stava lentamente inclinando e con difficoltà cercò di reggersi in piedi, ma nonostante gli sforzi continuava a scivolare contro la parete opposta a ove era collocata la porta.
Fu solo in quel momento che cominciò a rendersi conto della gravità della situazione.
Cercò a tentoni di aggrapparsi a tutto ciò che aveva a portata di mano, finché riuscì a reggersi in piedi, accanto alla parete e fu solo in quel momento che lanciando uno sguardo dall’oblò, notò con raccapriccio, che le onde del mare si stavano avvicinando al livello dello stesso oblò.
Le urla in corridoio si ampliarono, il panico ormai si era sparso da ogni parte.
Matteo immaginò che la nave doveva avere urtato un ostacolo e che stava imbarcando acqua per qualche falla, provocando l’inclinazione dello scafo.
In pochi istanti si rese conto che la nave stava affondando.
Era ancora giovane, quando aveva letto sui giornali tutti i particolari della tragedia vissuta dai passeggeri del Titanic, ove perirono molte persone e si convinse che probabilmente stava accadendo qualcosa di simile.
Sforzandosi di tenersi in equilibrio, si infilò frettolosamente un paio di pantaloni ed una giacca. Si mise le scarpe senza calze e si infilò il portafoglio ed il passaporto in tasca. Poi, claudicante, cercò di raggiungere a tutti i costi la porta, senza perdere altro tempo e gli sembrò un’impresa titanica. L’inclinazione che aveva assunto la nave sulla fiancata di prora era così pronunciata che nonostante gli sforzi, gli sembrava di scalare una montagna. Ormai non c’era più spazio per alcuna riflessione, doveva tentare di uscire da quella cabina a tutti i costi ed unirsi agli altri disperati che cercavano di mettersi in salvo, provando a raggiungere il ponte della nave.
Proprio in quel preciso istante, la pesante cassettiera in legno massiccio si staccò dalla parete opposta e scivolando sul pavimento in pendenza, investì in pieno Matteo, schiacciandolo contro la parete della nave.
Avvertì un dolore lancinante al costato, si rese subito conto che alcune costole erano state fratturate dal tremendo urto e gli mancò il respiro.
Con la continua inclinazione della nave e le forze che cominciavano a mancargli, si sentì bloccato come fosse stato investito da un macigno.
Nonostante gli sforzi non riusciva a muoversi, immobilizzato sotto quel dannato mobile di legno massiccio.
Il tempo passava e Matteo cominciò a convincersi che ben difficilmente qualcuno sarebbe venuto a liberarlo.
Nel corridoio era calato un silenzio terrificante. Ormai coloro che erano riusciti a passare in tempo, probabilmente avevano già raggiunto l’esterno, mettendosi in salvo. Laggiù non era rimasto più nessuno, fuorché lui.
Coloro che erano riusciti a raggiungere la coperta della nave stavano tentando di salvare la propria pelle, più che cercare di salvare quella degli altri.
Nessun assistente dell’equipaggio era venuto a bussare alla porta della cabina per accertarsi della presenza di qualche passeggero ritardatario.
Era inutile anche urlare, nessuno sarebbe ridisceso per verificare se fosse rimasto qualcuno da trarre in salvo.
All’improvviso avvertì un forte dolore al petto, seguito da una difficoltà di respirazione e quasi con rassegnazione capì di essere stato colto da un infarto.
Ormai era la fine, sarebbe andato giù insieme alla nave.
Tentò di riunire le forze che ancora gli rimanevano, cercando di lanciare un urlo disperato, augurandosi che qualcuno lo udisse.
La nave continuava ad inclinarsi, emanando stridenti cigolii, come gli ultimi lamenti di un essere vivente in agonia.
Matteo in quegli ultimi brandelli di lucidità pensò, ormai rassegnato, a qualche frammento della sua vita che se ne stava andando.
Pensò con tristezza alla moglie e rimpianse di non essere riuscito a capirla, impedendo in qualche modo il suo suicidio.
Pensò ai due figli scellerati che non aveva mai compreso, crescendo come due estranei falliti.
Pensò all’impero creato dal nulla che ora si sarebbe dissolto senza eredi in grado di poter gestire il colosso finanziario.
Respirando a fatica osservò con terrore l’acqua che cominciava a filtrare sotto la porta, raggiungendo il suo corpo inerme.
Così si chiudeva l’ultimo capitolo della sua vita.
Quella nave sarebbe stata la sua tomba. Nessuno avrebbe mai deposto un fiore sulle sue spoglie.
Fu il suo ultimo pensiero prima di perdere i sensi.

[continua]


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