Indagine oltre il fatto di cronaca

di

Lino Lecchi


Lino Lecchi - Indagine oltre il fatto di cronaca
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 266 - Euro 15,00
ISBN 978-88-6037-9184

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In copertina: elaborazione grafica di Lino Lecchi


Prefazione

Una cosa è certa. Non capita tutti i giorni di scrivere una prefazione ad un libro così: in primo luogo perché la vicenda nel libro in qualche modo rientra in ciò che faccio per lavoro ed in secondo luogo perché chi ha scritto il libro è mio padre.
Credo che l’intreccio al centro della narrazione si snodi muovendo da una domanda: quanto può essere sottile il confine tra il diritto dell’indagine di un giornalista e quello della legalità per procacciare la notizia?
Un giornalista di cronaca può trovarsi in un campo minato per condurre indagini in zone grigie, aree nelle quali occorre avere cura… altre volte scommettere, osare, essere spregiudicati…
Ma per fare lo scoop, quello vero, quello che ti sbatte in prima pagina prima di tutti gli altri a volte può essere necessario oltrepassare il limite del vero, andare addirittura oltre la soglia della legalità… Oltre, punto e basta.
È proprio allora che il machiavellico “fine giustifica i mezzi” trova spazio… e in quel caso fino a che punto un giornalista, già provato dalla propria professione che lo ha sconfitto e confinato al dimenticatoio mediatico, imbattendosi in informazioni “delicate”, è pronto a tutto, persino a rischiare la propria persona pur di conoscere quel nome, quella testimonianza, avere quella conferma che conduca alla verità, quella più scomoda?
La risposta è, tra qualche pagina, nel libro che sta per cominciare…
Il rischio, l’alta tensione, la volontà di arrivare fino in fondo, fino a conoscere cosa si nasconde dietro a qualche indizio, vi spingerà oltre, fino alla fine, oltre il fatto di cronaca.
Qualsiasi Verità, quando è capace di sconvolgere la vita di altri, è rimessa alla coscienza di chi la conosce, che deve ogni volta decidere se e come divulgarla. Se divulgarla, se andare ancora una volta oltre. Questo conduce a volte alla diffusione di notizie travolgenti, o alla personale scelta di custodire segreti che è giusto, lasciare all’oblio.

Laura Lecchi


Indagine oltre il fatto di cronaca


Alla famiglia, rifugio e punto
di riferimento del genere umano.


Capitolo Primo


Milano dicembre 1985

Quella nebbiolina che si estendeva come una coltre sull’immobile specchio d’acqua dell’Idroscalo, sembrava messa lì apposta per impedire di vedere l’altra sponda di quella stretta lunga pozzanghera che chiamano lago di Milano.
Faceva molto freddo quel mattino di dicembre e la riva era tratteggiata da schegge di ghiaccio affilate come acuminati coltelli che contornavano tutta la sponda.
L’erba gelata appariva come una coltre di moquette bianca a pelo irto rivestita da luccicanti cristalli.
In quello spettrale ambiente siberiano, il silenzio veniva interrotto ogni tanto qua e là dal tuffo di qualche pesce solitario che affiorava sul pelo dell’acqua.
Solo quel vecchio pazzo accanito di pescatore solitario, poteva starsene lì immobile seduto sul suo seggiolino pieghevole con la canna da pesca in mano.
Per proteggersi da quel freddo vigliacco era tutto infagottato come un superstite della ritirata di Russia.
Portava una giacca a vento trapuntata con il bavero rialzato che gli arrivava sopra la nuca, e il viso seminascosto da una vistosa sciarpa di lana dello stesso colore rossonero del buffo berretto, che palesavano la dichiarata fede milanista, la sua squadra di calcio del cuore.
I caldi pantaloni a costa di velluto marrone erano infilati in un paio di stivali di gomma che gli arrivavano sopra le ginocchia.
Da quando se n’era andato in pensione egli non perdeva una mattina senza venir lì al solito posto a pasturare verso le cinque di mattina, quando ancora era buio pesto.
Poi cominciava a pescare dopo avere attirato con quella sua pestilenziale “esca segreta”, e forse anche illegale, a base di farina di scarafaggi e sangue bovino recuperato dal mattatoio di straforo, un folto branco di stupide alborelle indifese che qualche volta riusciva a tirare su con la sua inseparabile canna persino per la coda.
A volte, quando era più fortunato, gli capitava di pescare qualche cavedano, che riusciva a catturare in occasione di alcuni passaggi di un branco vagante in rapida successione.
Tutto quel silenzio quasi irreale che lo circondava, lo rendeva sereno, assolutamente assente da ogni cosa terrena.
Questa sensazione lo rendeva in pace con sé stesso e completamente estraneo ad ogni casino che in quel preciso momento stava accadendo in qualsiasi parte del mondo intero.
Negli ultimi tempi si stava accorgendo che si era un poco rincoglionito.
Era diventato un po’ più musone del solito ed anche permaloso come non lo era mai stato.
La gente in certi momenti gli dava fastidio.
Solo alla sera tollerava qualche amico che incontrava nella vecchia osteria, dove trascorreva il tempo in una fumosa sala, giocando a briscola e a tre sette, davanti ad un bicchiere di vino bianco secco spruzzato con Amaro Americano e guarnito da una fettina di limone ed un’oliva.
Giocavano fino a tardi, allorchè l’oste li scopava fuori tutti per l’orario di chiusura.
Mentre scorrevano lentamente tutti i suoi pensieri di pensionato, se ne stava lì istupidito dal freddo a guardare fisso quel galleggiante ricavato da una penna d’istrice, per ore e ore, sperando che affondasse di colpo per dare lo strattone deciso.
In quell’istante c’erano solo lui ed il pesce, che circospetto, stava girando intorno alla succulenta esca, mordicchiando sospettoso ad ogni passaggio, il prelibato boccone, senza cadere nel fatale agguato.
Ambrogio avvertiva la sua presenza, fissando quasi come ipnotizzato l’ondeggiare della penna d’istrice strattonata ad ogni passaggio, senza tuttavia affondare sotto il pelo dell’acqua.
Era una sfida tra chi era più lesto ad arraffare l’allettante pasto e chi coglieva l’attimo per catturare l’ignara preda.
L’acqua era gelida e trasparente, grazie anche al ricambio idrico di cui dispone il bacino artificiale milanese.
A quell’ora c’era molto silenzio tutt’intorno, interrotto ogni tanto soltanto dal rombo di qualche aereo che transitava sul vicino aeroporto di Linate.
Ambrogio si fregò per un momento le mani per scaldarsi, poi senza perdere d’occhio la canna che aveva opportunamente appoggiato ad una forcella di metallo, si girò e prese il thermos, versandosi del caffè bollente, per tenersi sveglio ed anche per scaldarsi un po’.
Ricordava con nostalgia quando era ragazzo e con suo padre si recava a pescare sulle rive del Naviglio, che raggiungeva in bicicletta dalla sua abitazione, un vecchio stanzone in uno stabile di Porta Ticinese.
Ricordava ancora la trasparenza dell’acqua, ove le donne si recavano a lavare i panni, affacciate alle sponde del canale.
Gli sembrava ancora di rivedere i barconi colmi di sabbia, che dalla darsena, trainati dai cavalli, solcavano le verdi acque fino alla destinazione prevista.
Ambrogio era un milanese doc, di quelli autentici, nati ai primi del Novecento all’ombra della Madonnina e cresciuto insieme a cinque fratelli da genitori austeri che avevano insegnato loro l’arte dell’arrangiarsi con quel che passava il convento. La sua esperienza era maturata nelle strade del vecchio quartiere, cercando di guadagnarsi la “micca” dove occasionalmente nascevano opportunità da non perdere.
Da giovane, tra i molti lavori di fatica, aveva fatto per un bel po’ di tempo il garzone di un prestinaio.
Si alzava alle cinque del mattino e con una bicicletta sgangherata munita di un grosso cesto colmo di pane appena sfornato, andava a consegnarlo nei vari ristoranti, trattorie e locande della grande città.
Poi c’era stata la grande guerra, che aveva evitato per poco, data la giovane età, ma non si era perso la seconda, durante la quale era stato ferito ad una gamba da una scheggia di granata che ancora ogni tanto al cambio di stagione, gli ricordava il triste e doloroso evento.
Mentre gli sfilavano davanti lentamente in successione nella mente tutti questi eventi che aveva vissuto sulla propria pelle, sorseggiava dal bicchiere di alluminio quel fragrante caffè ancora caldo. Ma ad un tratto la sua attenzione fu attratta da qualcosa che galleggiando, si stava avvicinando alla lenza tesa.
Era una massa informe scura che affiorava dall’acqua e veniva sospinta dalla corrente verso riva.
Mentre osservava incuriosito quello strano pacco a pelo d’acqua, il vecchio Ambrogio pensò ai giorni felici del suo incontro con Mariangela, la figlia del calzolaio, una figurina bionda, minuta dai lineamenti delicati.
Dopo averla sposata aveva diviso con lei quasi cinquant’anni della sua vita ed il suo unico rimpianto era stato quello di non avere avuto con lei almeno un figlio, ed alla sua scomparsa era rimasto solo.
Aveva lavorato negli ultimi vent’anni come manovratore dell’azienda tranviaria milanese ed ora era in pensione da qualche anno e l’unica passione era quella di venire a pescare sulle sponde delle acque dell’Idroscalo.
Questo era il periodo ideale, anche se faceva un freddo cane.
D’estate questa zona deserta si trasformava in una dannata bolgia, impestata da migliaia di persone alla ricerca spasmodica di un poco di refrigerio.
Molti milanesi che non potevano permettersi di andare in vacanza in zone balneari della riviera, cercavano di conquistarsi i propri spazi sulle sponde della “Punta dell’est”.
Interruppe i suoi pensieri per osservare con preoccupazione quella “cosa” galleggiante, che lentamente cullata dall’acqua si stava avvicinando alla penna d’istrice ritta nell’acqua.
Che schifo, pensò, l’Idroscalo sta diventando una latrina. Ormai ci buttano dentro di tutto, come fosse una discarica pubblica e sputò con disprezzo in disparte.
Il vecchio appoggiò il bicchiere per terra e prendendo la canna da pesca incominciò a recuperare la lenza girando velocemente la manovella del mulinello.
Era preoccupato che quella cosa, avvicinandosi ulteriormente, si fosse impigliata negli ami, strappandogli tutta la montatura da lui accuratamente preparata.
Con molta attenzione tentò di evitare l’impatto che avrebbe davvero rischiato di distruggere tutto il lavoro del pomeriggio precedente.
Nonostante la celerità dell’operazione, non riuscì ad evitare che ciò avvenisse.
Lanciò una imprecazione, ma ormai era fatta, aveva agganciato quella specie di pacco blu galleggiante.
Non gli rimase che tirarlo a riva lentamente per liberare la lenza impigliata.
Si chinò per staccare l’amo, ma quando rigirò la cosa che galleggiava, lo spettacolo raccapricciante che gli si presentò gli gelò il sangue più di quanto aveva fatto il freddo fino a quel momento.
“Madonna mia!”
Il vecchio guardò il volto gonfio dell’annegato che lo fissava con gli occhi sbarrati fuori dalle orbite.
Terrorizzato da quella visione mozzafiato, mollò tutto d’istinto, lanciando un urlo che lacerò la quiete del posto e scivolando sull’erba gelata, annaspò con le mani per risalire il ciglio della scoscesa scarpata del bacino artificiale.
Se non gli venne un colpo in quel momento, pensò che non gli sarebbe più venuto.
Si appoggiò tremante per lo spavento ad un albero respirando profondamente con affanno e dopo un momento si riebbe, cercando di calmarsi.
Aveva pescato un morto!
Si fece coraggio e osservò il cadavere che indossava un giaccone trapuntato di piuma d’oca color blu e affiorava dalla superficie dell’acqua cullato dalla corrente.
Notò che aveva un paio di jeans e scarpe di gomma da ginnastica che galleggiavano.
I capelli neri un po’ lunghi erano sparpagliati nell’acqua che per un gioco delle onde disegnava fantasmagorici intrecci.
Il viso pallido era gonfio e due occhi vitrei spalancati fissavano il vuoto.
Il vecchio si sedette un istante per riprendere il fiato, mentre il cuore gli batteva ancora forte e decise che sarebbe subito andato a cercare una cabina telefonica per telefonare alla polizia.
“Porcaccia Eva, doveva capitare proprio a me…” sussurrò con voce tremante, inforcò la bicicletta e risalì uno stradino in terra battuta che portava verso l’esterno del parco lacustre.

***

La sveglia elettronica lanciò un trillo a ripetizione che trafisse i timpani di Fabrizio, facendolo sobbalzare dal letto.
Ogni mattina era così, un risveglio rintronante e traumatico, che lo riportava drasticamente alla tragica realtà della noiosa apatica vita quotidiana.
Annaspò alla cieca sul comodino, travolgendo tutto ciò che c’era sopra, compresa la bottiglia di Glen Grant, che senza alcun pericolo andò sul pavimento.
Poco male, pensò, era completamente vuota, come tutte le altre che regolarmente scolava giorno dopo giorno, quando, non sapendo cosa fare, veniva colto dalla solita depressione.
Fermò quell’infernale allarme che gli spaccava la testa, già trafitta dalle solite emicranie mattutine.
Si guardò intorno orientato nel buio dall’unico raggio di luce che filtrava dalla tapparella non completamente abbassata.
Anche se di controvoglia, decise di alzarsi.
Doveva andare alla redazione del giornale per mettere insieme l’articolo sul servizio fatto il giorno precedente.
“Un servizio di merda”, pensò, riferendosi alla scarsa importanza del pezzo.
La solita intervista rivolta ad un gruppo di industriali, imbeccati nella solita manifestazione culturale, con l’assegnazione della solita statuina di bronzo già pagata dal premiato, insieme alla solita motivazione con la quale il moderatore del meeting enunciava i meriti, consegnando “l’ambito” riconoscimento.
Ne aveva intervistate a centinaia di persone in queste manifestazioni e le risposte erano tutte simili: “Abbiamo offerto il massimo in fatto di ricerca e progresso della tecnologia, in prospettiva alle esigenze del mercato…”
Era stufo di raccogliere le solite scontate interviste di rito e doverle elaborare per renderle almeno capibili oltre che un po’ più fantasiose.
Ormai questi premi scontati e banali erano talmente usuali che non facevano neppure più notizia.
Ciondolando cercò di raggiungere la cucina per farsi un caffè forte, ma aprendo l’antina del pensile si ricordò di non averlo comprato, come la sprovveduta massaia di quella famosa pubblicità televisiva.
“Merda!” esclamò, sbattendo la portina del mobiletto con disappunto.
Il rumore rintronò nella cucina, ma ancora di più nella sua testa, facendolo sussultare.
“Va bene, lo prenderò fuori” si disse furente, con tono di sfida, e s’infilò in bagno per farsi una doccia che forse l’avrebbe aiutato a mettersi in sesto.
Come al solito seguendo l’usuale masochistico rituale, si guardò allo specchio dell’armadietto aperto, mentre orinava e si fece veramente schifo.
Si era abituato ormai a vedere tutte le mattine quella brutta faccia scavata, con capelli brizzolati tutti sfatti, la barba ispida.
Due borse sotto gli occhi che sembravano gonfiate con la pompa delle biciclette, e quello sguardo da pirla che a volte lo metteva in imbarazzo, chiedendosi se fosse mai stato possibile portarselo appresso per così tanti anni.
In quanto al fisico, osservò rassegnato quella linea sciatta da ronzino stracco che in quegli ultimi tempi si era progressivamente costruito, trascurando ogni attenzione per la propria immagine.
Oramai si trascurava da tempo, lasciandosi andare sempre più alla deriva. Vestiva in modo veramente bislacco, con abbinamento di colori spesso scombinati e con abiti che da tempo non vedevano una tintoria, mostrando come valorose decorazioni, patacche e macchie lasciate da pranzi improvvisati in qualche tavola calda o in piedi in qualche bar.
Il suo aspetto trasandato rispecchiava quel suo modo di vivere, lasciandosi trascinare sempre più verso il fondo. Tirò fuori la lingua e si spaventò, pensando di essere stato colpito da qualche forma di peste tifoide.
Aveva un alito fetido come il miasma di un vecchio cesso ingorgato.
Fumava tre pacchetti di MS al giorno, beveva smodatamente fiumi di whisky e in compenso mangiava peggio degli americani, in orari sballati, ingollando in fretta roba preriscaldata che trovava pronta nelle più squallide rosticcerie della città.
Fabrizio Ferri era un giornalista della cronaca del “Corriere della sera”.
Aveva speso la sua vita per questo lavoro che lo affascinava più di una bella donna, coinvolgendolo a tal punto da trasformarlo spesso in un cacciatore di notizie come un autentico segugio.
A volte si immedesimava in modo tale nel servizio affidatogli, da adottare metodi poco ortodossi nello svolgimento delle proprie indagini, sconfinando dalla barriera della sua competenza e andando addirittura a sostituirsi agli investigatori di pubblica sicurezza.
Non si contavano ormai le volte che gli era capitato di violare la privacy di qualche personaggio più in vista, con conseguente querela di quelli più permalosi.
In qualche caso aveva avuto richiami da parte della questura, che il suo giornale aveva poi dovuto tamponare in qualche modo.
Alcune volte lo aveva tolto dai guai il suo amico Matteo Alberti, ispettore di pubblica sicurezza della questura centrale Fatebenefratelli di Milano, dirigente della sezione omicidi.
L’Alberti era stato suo compagno d’università e si erano laureati insieme nella facoltà di giurisprudenza, alla Cattolica di Milano.
Avevano passato tanti bei momenti goliardici insieme in gioventù.
Poi avevano seguito strade diverse, ma erano rimasti buoni amici e spesso per motivi professionali il loro cammino si era incrociato dandosi una mano in qualche vicenda giudiziaria. Purtroppo era da tempo che non gli capitava di poter lavorare ad un pezzo veramente importante e le sue quotazioni in redazione erano andate un po’ in ribasso.
Un tempo era considerato un ottimo reporter, ma ora si sentiva come un vecchio campione di calcio un po’ bolso, relegato in panchina, a fare la riserva di pivellini privi di fantasia e poca confidenza con la sintassi.
Tutti giovani raccomandati, senza esperienza, spinti avanti dai vari sponsor di turno che li appoggiavano in redazione.
Le sue miserie erano incominciate alcuni anni prima, quando dopo l’ennesimo tentativo di tenere insieme un matrimonio traballante, già fallito in partenza, l’unione si era definitivamente dissolta come la neve al sole.
Lui ed Elisa avevano caratteri assolutamente incompatibili, diametralmente opposti.
Lei era un animale domestico, di quelli che considerano la casa al centro del mondo e difendeva questo suo habitat naturale da ogni interferenza. Non accettava visite da parte di nessuno, compreso i parenti più stretti, che secondo il suo modo di vedere invadevano la sua privacy. Era maniaca dell’ordine ed ogni cosa di qualsiasi genere e dimensione non poteva essere toccata o spostata senza il suo consenso.
Prima di entrare in casa Fabrizio doveva togliersi le scarpe sul pianerottolo ed infilare le pantofole, per non lasciare tracce sui pavimenti appena lucidati.
Eppure quando aveva conosciuto Elisa era una ragazza semplice e gioiosa, sempre pronta a scherzare e con tanta voglia di divertirsi.
Fabrizio ricordava che a volte era lui a doverla frenare di fronte ad alcune scelte scriteriate che Elisa affrontava senza indugi.
Anni prima era una ragazza molto graziosa, alta con i capelli corvini sciolti e lunghi che le scendevano liberi dietro alle spalle.
Gli occhi color nocciola erano penetranti e molto espressivi.
Elisa aveva un bel corpo affusolato, quasi da modella, se non fosse per un seno prorompente e due fianchi ben torniti.
Era originaria di San Remo e da ligure conservava il carattere tosto e determinato.
Si erano conosciuti all’università, in occasione di un intrattenimento tra matricole ed era stato un colpo di fulmine.
Avevano cominciato a frequentarsi con molta assiduità, poi lei aveva all’improvviso deciso di smettere di studiare e si era ritirata.
I genitori si erano ammalati e non potevano permettersi di continuare a mantenere gli studi della figlia a Milano, comprendendo l’affitto di un monolocale e tutto il resto.
Ma anche la ragazza aveva manifestato una certa insofferenza e distacco verso i libri negli ultimi tempi e tutto sommato era stata una decisione senza grandi rimpianti.
Dopo due anni si erano sposati, appena dopo la laurea di Fabrizio, che già lavorava al giornale.
Il primo anno di matrimonio era stato quasi entusiasmante. I due giovani stavano bene insieme ed il tempo era quasi volato, poi Elisa era rimasta incinta ed il suo carattere era cambiato in modo repentino.
Era diventata molto apprensiva, quasi ipocondriaca, a tal punto che bastava una qualsiasi situazione contraria al previsto per crearle qualche crisi di nervi.
Quando nacque Leo all’ospedale di Niguarda, le cose tra i due coniugi peggiorarono.
Fabrizio infatti fu quasi escluso dalla vita di Elisa che si era aggrappata a quel bimbo, come ad un’unica ragione di vita.
Egli amava quel bambino e non vedeva l’ora di raggiungere casa per poterselo spupazzare, come un genitore innamorato del proprio figlio.
Ma a volte Elisa trovava delle scuse per sottrarlo a quelle attenzioni paterne e cominciarono a nascere le prime discussioni, che successivamente si ampliarono, raggiungendo il più completo disaccordo.
Fabrizio aveva tollerato molto quella trasformazione, egli aveva un carattere diverso ed era sempre disponibile a ricominciare, ma si scontrava spesso contro un muro invalicabile, finché capì che il matrimonio era giunto al capolinea.
Fabrizio aveva iniziato a vivere da vagabondo, non si fermava a casa più di un giorno alla settimana, giustificando le sue assenze per motivi di reportage e quel poco che stavano insieme bastava a creare alterchi che finivano inevitabilmente in discussioni e liti violente.
Un mattino, durante la colazione, davanti ad una tazza di caffè egli aveva manifestato serenamente ad Elisa la sua intenzione di separarsi e ne aveva ricevuto il più completo consenso senza opporsi o discutere minimamente di quell’argomento che appariva ormai scontato.
Dopo la separazione consensuale, aveva ripreso la sua vita disordinata, che per alcuni anni lo relegarono solitario nel bunker privato di casa sua.
Continuava a vedere il figlio che nel frattempo vedeva crescere senza che egli fosse partecipe diretto di quella evoluzione e sotto questo aspetto doveva riconoscere che sua moglie gli aveva dato una giusta educazione.
Egli tuttavia continuava a vivere la sua vita costruita principalmente sulle fondamenta della sua professione.
Era stato a volte inviato come corrispondente in giro per il mondo, soprattutto se c’era in corso qualche conflitto etnico, politico o razziale.
Ma un giorno il treno si fermò all’improvviso e la sua vita che egli pensava inattaccabile ormai a qualsiasi tipo di sentimento, fu colpita da una notizia tragica che lo sconvolse.
Leo era morto in seguito ad un incidente stradale dopo appena qualche mese che aveva preso la patente.
Aveva sempre smaniato per quel ragazzo al quale si era attaccato in modo morboso, proprio perché sapeva di non poterlo avere vicino e purtroppo ora l’aveva perduto lasciando un immenso e freddo vuoto nella sua vita.
Non riusciva a dimenticare il triste momento in cui gli giunse quella tragica notizia dal comando della polizia stradale.
La macchina di Leo era sbandata sulla strada viscida dalla pioggia e dopo essere andata in testacoda senza alcuna possibilità di controllo, era uscita di strada andando a schiantarsi contro il muro di una casa.
Il ragazzo era morto sul colpo e con lui la ragazza che viaggiava sul sedile accanto.
Ma ciò che lo mise completamente al tappeto fu lo strascico giudiziario che ne seguì, intentato dai genitori della ragazza, dopo che fu reso noto dall’autopsia che suo figlio era pieno di droga fino al collo.
Dopo la separazione con Elisa, Leo aveva vissuto con la madre ed egli non era assolutamente a conoscenza di queste sue maledette nuove abitudini, che la ex moglie gli aveva tenuto nascoste.
Non aveva potuto far nulla per salvarlo da questo tragico destino e non se ne dava pace.
Avrebbe portato con sé il rimorso di aver passato accanto a Leo troppo poco tempo per far parte della sua vita, capire quelle sue nuove abitudini, e ora era troppo tardi per i rimpianti, indietro non si poteva tornare.
Quella tremenda mazzata aveva tracciato in lui un solco profondo e quando partecipò al funerale, si rese conto che a volte le cose procedono con un percorso che non si può deviare.
Aveva osservato quella bara scendere nella fossa in un campo di Musocco sotto una pioggia scrosciante, ed egli pensò che non era giusto che un genitore debba seppellire un figlio, è contro ogni regola della natura terrena, ed incomprensibile di ogni legge divina. Si attaccò alla bottiglia, precipitando sempre più giù fino a toccare il fondo.
Al giornale ormai gli affidavano incarichi di scarso rilievo, per tenerlo fuori dai piedi, dal vivo dei fatti di cronaca di cui si era sempre occupato per più di vent’anni.
Non era mai stato una penna da premio Pulitzer, ma in passato era stato un brillante cacciatore di notizie. La sua specialità consisteva nell’approfondire qualsiasi caso che avesse a che fare con fatti di cronaca nera. Più erano intricati, più lo appassionavano.
Si buttava alla ricerca dell’informazione con un impegno tale da collocarlo a metà tra il giornalista e il cane da trifola.
Spesso era l’istinto che lo portava sul teatro delle operazioni ancora prima della polizia.
Amava agire con rapidità, muovendosi nell’anonimato, per non dare nell’occhio, in collaborazione con i suoi preziosi informatori che egli chiamava “gole profonde”, rispettando il riserbo quasi come un codice d’onore.
Sfruttava il fattore sorpresa per scoprire prima di tutti i concorrenti le risposte che gli occorrevano e comporre i pezzi da prima pagina, battendoli sul tempo.
Aveva conoscenze poco raccomandabili nell’ambiente della “mala” milanese, di cui si serviva per raggiungere senza molti scrupoli verità spesso scottanti da scoop esplosivi.
In qualche caso aveva anche corso dei rischi, ma faceva parte del gioco della sua filosofia d’azione, e ormai lui non ci faceva più molto caso.
Ma tornando al presente, in questo momento di disgrazia, nessuno si sarebbe sognato di assegnare a Fabrizio un servizio che fosse andato al di là della mediocre attenzione.
Egli se ne rendeva conto, ma non poteva farci niente, ormai era demotivato e a volte si sentiva come un travet, vivendo alla giornata senza alcuno stimolo di ricerca o di indagine.
Non che i dirigenti si sforzassero più di tanto per concedergli qualche possibilità o accordargli quel briciolo di fiducia che forse gli avrebbe consentito di poter ritrovare in sé l’antica grinta.
Ma tutto ciò non aveva importanza, egli agiva ormai improvvisando, prendendo la vita così come veniva e affrontava i problemi volta per volta che si presentavano.
Si era collocato in una specie di limbo, in attesa che qualcosa in lui si fosse risvegliato.
Uscì dalla viuzza con la sua Alfa 75 metallizzata un po’ malconcia ed infilò il viale Fulvio Testi per raggiungere la redazione del giornale.
Prima di fare un sorpasso guardò nello specchietto retrovisore per controllare il traffico e per un istante osservò quei suoi occhi verdi cerchiati e le rughe che certamente non gli diminuivano di un mese i cinquant’anni suonati.
I capelli pettinati frettolosamente all’indietro ed un po’ lunghi gli davano un aspetto trascurato, quasi come quei barboni che popolano la stazione Centrale.
Anche il suo modo di vestirsi un po’ trasandato alla tenente Colombo, con l’eterna sigaretta tra le labbra non esaltava davvero il suo look nell’ambiente di lavoro, e neppure nella sua vita privata.
Era alto più di un metro e ottanta, e il lavoro sedentario lo aveva un poco appesantito.
E pensare che un tempo era stato un brillante centravanti del vivaio del Milan.
Superò il semaforo rosso, dando un’accelerata per evitare che lo travolgessero in quel pericoloso incrocio a due corsie.
Era tardi ed era stufo di farsi riprendere per l’orario di lavoro che non rispettava mai.
C’era anche molta nebbia a Milano quella mattina, ma era una cosa consueta in quel periodo invernale.
Entrò in redazione piuttosto spedito, per non farsi notare da qualcuno.
Aprì la porta del suo studio che divideva con altri due colleghi e si sedette ad una scrivania che definire in disordine era puro eufemismo.
Un mucchio informe di cartelline sparpagliate un po’ dappertutto occupava quasi tutto il piano di lavoro.
Sopra a un pannello di polistirolo appeso al muro di fianco al tavolo, erano appuntati alla rinfusa una infinità di bigliettini svolazzanti e appunti presi al telefono.
Egli non buttava mai via niente, neppure le biro che non scrivevano più, conservandole gelosamente nel cassetto.
Di fianco alla scrivania, sopra a un tavolinetto, c’era una vecchia Olivetti ancora a nastro bicolore, con la quale aveva battuto tanti articoli di successo.
In quel momento entrò quasi con aria furtiva Rossetti, uno dei colleghi, e lo consigliò di andare subito dal capo.
“…È piuttosto sull’incazzato.” l’avvertì.
Fabrizio non mostrò troppa apprensione. Si tolse il vecchio loden verde scuro, sistemandolo con molta calma all’appendiabiti di legno.
Si accese con molta tranquillità la prima sigaretta della giornata avviandosi piano piano verso il fondo del corridoio.
Mentre superava le soglie dei vari uffici, ascoltava il ticchettio forsennato delle macchine da scrivere e le voci concitate dei giornalisti al telefono.
Si fermò con la massima flemma a prendere un caffè dalla macchinetta e frugandosi in tasca, trovò una moneta che infilò nella fessura della Faema, premendo il tasto dove c’era scritto “caffè dolce e lungo”.
Quando entrò nell’ufficio del capo, lo trovò che stava finendo una telefonata e si sedette in una poltroncina sistemata davanti alla scrivania, aspettando che chiudesse la conversazione.
Vanni aveva l’aspetto di un attaccapanni della Reguitti, magro come una pertica, non molto alto ed un naso lungo e tagliente, che a volte dava l’impressione che fungesse da contrappeso.
Due occhi neri pungenti davano un po’ di tono a quel viso pallido ed ossuto da beccamorto.
Era un ruffiano di corte, disposto a leccare le parti basse posteriori a chiunque lo mettesse in grado di fare carriera, senza un minimo di ritegno.
Fabrizio non aveva mai avuto una grande considerazione del suo superiore, che aveva raggiunto quei gradi solo per anzianità, non certo per meriti speciali.
Nei tempi andati era stato suo collega pari grado, ma con la differenza che Fabrizio non aveva mai seguito le orme di quell’arrampicatore, colmo di ambizione come il Vanni. Egli per abitudine e soprattutto per passione della sua professione, amava badare al proprio lavoro senza alcuna mira carrieristica.
Del resto non amava la dirigenza in quanto non si sentiva all’altezza di programmare il lavoro per gli altri e soprattutto controllarli come un aguzzino.
Fabrizio era il classico individuo solitario che preferiva agire da solo, grazie al proprio talento e soprattutto alle proprie intuizioni geniali.
“Buongiorno!” esclamò Vanni con tono intimidatorio, abbassando il ricevitore.
Fabrizio rispose al saluto alzando il bicchierino di plastica del caffè.
“Finalmente ti sei deciso a venire in ufficio anche questa mattina!”
“Già, sta diventando un’abitudine. Ognuno ha le sue debolezze..” rispose svogliatamente Fabrizio, sorseggiando la bevanda calda. “Lasciamo perdere, non ho voglia di star qui a incazzarmi con te questa mattina.
Ascolta, piuttosto, c’è un caso che ti voglio affidare ed è molto riservato.”
“Dove sta la fregatura?” rispose Fabrizio sospettoso.
“Non so più cosa darti per stimolare il tuo interesse.”
“Prova con le promozioni inserzionistiche della categoria Cartomanti.”
“Non fare il polemico con me.
Non è colpa mia se non riesci più a portarmi qualcosa che valga la pena di essere pubblicato, come invece fanno i tuoi colleghi.
Qui in sede non ci sono figli prediletti, né si fanno distinzioni tra persone e livelli di stile. Il giornale deve andare avanti con un preciso indirizzo.”
“Io invece,” lo interruppe Fabrizio “sono convinto che siano la distinzione e lo stile che qualificano una penna stilografica di marca da una matita di legno.
È la stessa differenza” continuò senza timore riverenziale, calcando la mano, “che esiste tra noi due, cioè quella tra un reporter e un ragioniere attempato!”
“Sta attento a ciò che dici con quella linguaccia! Un giorno potresti trovarti a leccare i francobolli della corrispondenza in partenza.”
Questa minaccia fece sorridere Fabrizio, egli sapeva che Vanni non aveva alcuna competenza sul personale.
“Accomodati pure” rispose con tono beffardo “tanto io un’altra testata che mi offre un posto la trovo di sicuro….”
Vanni decise di troncare la diatriba che si stava riscaldando anche troppo.
“Se ne hai ancora voglia, c’è qui un fatto di cronaca fresco fresco che merita di essere preso in considerazione.
Cerca tra le pieghe, forse puoi trovare gli elementi per un buon pezzo.
Volevo darlo a Rossetti” proseguì, incautamente “ma è già preso con un servizio su quell’ omicidio di Bollate…”
“Ah, è solo per questo che lo dai a me allora…uno scarto di Rossetti…sei uno stronzo!” disse alzandosi.
“Non fraintendere e sta seduto per favore, fammi finire, la cosa è più importante di quanto tu possa pensare.”
Fabrizio lo guardò in cagnesco, quasi ringhiando, non poteva sopportare di essere considerato come una pezza da piedi e non era la prima volta che gli veniva affidato un incarico rifiutato da altri suoi colleghi.
Cercò di calmarsi e gettando con rabbia il bicchierino del caffè stritolato nel cestino della carta straccia, decise di ascoltare.
“È scomparso da un mese un ragazzo di ventun anni e non si hanno più notizie di lui, nonostante le ricerche effettuate dai genitori, pur non rivolgendosi alla stampa con appelli o inserzioni varie.
I genitori sono molto vicini al nostro capo e senza voler alzare clamori, né pubblicità, gli hanno chiesto di aiutarli a trovarlo, uscendo per la prima volta allo scoperto e affidandosi ai mass media.”
“Ma è ridicolo” lo interruppe Fabrizio, “non siamo del servizio persone scomparse.
Perché non si sono rivolti a Chi l’ha visto?” chiese sorpreso.
“Non dire stronzate. Non ci hanno lanciato un appello per fare un articolo da sbattere in prima pagina.
Essi hanno molta fiducia nel nostro direttore, che conoscono da anni e si sono rivolti a lui in forma privata.
Pensano di poter sfruttare le notizie provenienti da ogni parte per scoprire dove si nasconde o poter identificare qualcuno che l’ha incontrato.”
“Continuo a non capire perché si muovono così cautamente, è un atteggiamento che non comprendo, cazzo, ma gli è scomparso il figlio, non un vicino di casa!”
“Certo” si associò per la prima volta anche il suo capo servizio, “questo eccesso di riservatezza mi ha fatto riflettere.
In effetti tutto ciò non è logico.
Secondo quanto affermano i genitori non è la prima volta che il ragazzo si assenta per lungo tempo senza dar notizie di sé… strano rapporto in quella famiglia…
Ho persino pensato ad un sequestro di persona, ma è trascorso troppo tempo senza che qualche malvivente si facesse vivo per chiedere qualcosa.
Fagli una visita e vedi che cosa riesci a farti dire, ma nella massima riservatezza, facendogli intendere che useremo le informazioni con l’opportuna discrezione per aiutarli.”
“Cosa ti fa pensare che il ragazzo possa essere stato rapito?”
“La famiglia è benestante” rispose il capo redazione, “il padre è un Molteni, il maggior azionista di quel grosso consorzio di mobili della Brianza.”
“Perché non si sono rivolti ad un investigatore privato d’alto livello? Se lo possono permettere…”
“Deve esserci qualcosa che gli mette paura, ma non riesco a capire cosa…
Il nostro direttore si raccomanda molto a noi, è da molti anni amico di famiglia dei Molteni.”
“Perché pensi che vogliano parlare a un giornalista?
Normalmente in circostanze simili siamo tenuti a distanza come la peste, pronti a mettere subito tutto in piazza…”
“Stai facendo troppe domande Fabrizio.
Spero che le risposte più attendibili le possa portare proprio tu.
La mia impressione è che stanno trattando segretamente con i sequestratori, forse hanno bisogno di un mediatore.
Forse temono che se la cosa viene risaputa, le autorità potrebbero sequestrare tutti i beni e bloccare l’operazione, creando difficoltà nel pagamento del riscatto.
In questo caso ci muoveremo con la massima discrezione e ci garantiremo in esclusiva tutto il servizio.”
“Astuto, ma io non sono il tenente Colombo e non ho nessuna voglia di rischiare il mio culo per un servizio.”
“Tocca a te verificare di cosa si tratta.” tagliò corto il capo, pungendo la professionalità di Fabrizio.
Uscendo dalla sede del giornale di via Solferino, ebbe la vaga sensazione che gli avessero nuovamente rifilato la patacca, facendogli cadere dall’alto un incarico da sfigati, con il quale al massimo avrebbe messo insieme un servizio di terz’ordine.
Decise di telefonare ai Molteni, sarebbe andato a visitarli nel pomeriggio.
Lo avrebbe fatto solo perché l’ordine giungeva dall’alto e per dovere di cronaca, non certamente perché fosse così convinto dell’incarico.
Che fosse caduto in basso si rendeva certamente conto, ma di quel passo l’occasione per risalire non l’avrebbe trovata mai.
Un giornalista, oltre ad essere un buon pennaiolo, deve avere anche il suo momento magico che gli permetta di trovarsi nel posto giusto al momento giusto.
Solo così nasce un pezzo di cronaca di un certo rilievo.
Ma da tempo ormai, tutte le volte che maturava un buon scoop, egli si trovava da tutt’altra parte.
Era stanco di fare quel mestiere al quale tanto aveva dato e che poco gli aveva reso.
Una paga da morto di fame che doveva un poco arrotondare facendo a volte la cresta sui rimborsi spese, e pochissime soddisfazioni.
Eppure era innamorato della sua professione.
Se soltanto avesse avuto un’occasione propizia, che gli avesse permesso di tornare a galla, avrebbe potuto ricaricare le batterie e ributtarsi nella mischia con l’entusiasmo di un tempo.

[continua]

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