Due vite - un destino

di

Liliana Rocco


Liliana Rocco - Due vite - un destino
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
12x17 - pp. 32 - Euro 7,00
ISBN 978-88-6587-0020

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In copertina: «Monte Legnone» fotografia di Liliana Rocco


Opera finalista nel concorso letterario J. Prévert 2010


Due vite - un destino


Due vite – un destino*

“L’amore è come vento d’estate,
che soffia infocato
s’annuncia impetuoso
pervade il cuore con fragore”

poesia tratta da “Sensazioni” – Montedit 2009


Due vite – un destino

L’aereo decollò dall’aeroporto J. F. Kennedy di New York in una giornata di caldo agosto. Diego slacciò la cintura di sicurezza, non appena la luce si spense e si sistemò comodamente sul sedile. Stava tornando a casa, non per restarci. Aveva rotto i ponti con il paese d’origine dal giorno in cui era approdato nella “grande mela”, motivato dall’ambizione di conquistare il successo. E lo aveva raggiunto, in campo professionale era diventato un eccellente chirurgo cardiologo esperto di trapianti, lavorava a tempo pieno in uno dei più rinomati ospedali della città e viveva in un lussuoso appartamento a Manhattan che divideva con Jennifer, sua compagna da due anni. Jenny era speciale, d’una bellezza appariscente con i lunghi capelli biondi sul viso lineare, occhi cangianti dal colore delle spighe di grano. Si erano conosciuti a un party per la raccolta di fondi per il reparto di cardiologia infantile ed era stato un colpo di fulmine per entrambi. Quella stessa sera avevano fatto l’amore con bramosia, mentre le luci sfolgoranti della città creavano effetti chiaroscuri sui loro corpi nudi. Diego aveva perso il controllo delle proprie emozioni e da allora il concetto di sesso aveva acceso in lui una dimensione nuova: era succube della sensualità che sprigionava il suo corpo sinuoso e caldo. Sulla scia dei propri pensieri cadde in un sonno profondo, finché non fu svegliato dalla voce della hostess, che sollecitava i passeggeri ad allacciare le cinture.
Quando scese dalla scaletta, Diego respirò una folata di aria calda afosa. Si sentì straniero in terra propria. Ritirò l’auto che aveva noleggiato e si immise sull’autostrada che lo riportava al paese natio, ai suoi monti nel Trentino. Man mano che procedeva, i ricordi cominciarono ad affiorare, un misto di sensazioni indefinite che si insinuavano nell’animo con prepotenza. Era tra quelle montagne che il Diego bambino aveva mosso i primi passi e l’esperienza reso adulto. Eppure si era lasciato alle spalle le persone care, gli amici con cui era cresciuto, i primi amori, con grande disinvoltura. Un accenno di turbamento improvviso lo costrinse a frenare, ad accostare l’auto sul bordo, per poter spaziare con lo sguardo fra le cime verdeggianti e i dirupi scoscesi. Il silenzio aveva il sapore di nostalgia.
Il rumore di un oggetto metallico, che sbatteva contro la carrozzeria lo fece sobbalzare, poi un corpo che cadeva sull’asfalto e il pianto di un bambino lo catapultò nel passato, con la visione delle sue corse in bicicletta su e giù per le discese, e le frequenti cadute dovute alla foga con cui era solito pedalare. Diego si affrettò a soccorrere il malcapitato che aveva cominciato a singhiozzare: era stato imprudente a fermare l’auto a ridosso della curva.
– Ehi boy, sorry – disse d’istinto, poi notò il suo sguardo sorpreso e si corresse: – Scusami piccolo. Come va? Ti sei fatto male, yes.
– La mia bici – si lamentò, con la mano premuta sul ginocchio ferito.
– Quella si ripara – sorrise. Diego incontrò i suoi occhi colmi di disappunto, d’un azzurro limpido, una testa bionda con capelli arruffati per la corsa. – Non credi piccolo? Diamo un’occhiata al ginocchio invece.
– Mi farai male? – chiese.
Diego gli sollevò la mano insanguinata ed osservò la ferita.
– Che taglio profondo – mormorò con aria seria.
– Devi cucirmi allora – fece impressionato il bambino.
– È solo una sbucciatura – gli strofinò la mano sul capo.
– Va lavata e disinfettata, ma non ho l’occorrente con me. Ti porto a casa, piccolo.
– Mi chiamo Matteo – disse infastidito dal nomignolo.
– Okay Matteo. Let’s go.
– Ma sei americano?
– Sono nato qui – confessò – e una buona dose del mio sangue è stato versato su queste montagne.
– Davvero! Ti piaceva come me andare in bici a tutta birra – fece allegro.
– Mia madre era disperata.
Diego lo sollevò e lo mise in macchina, poi recuperò la bicicletta tutta storta infilandola nel baule.
L’albergo, immerso nel verde, comparve dopo l’ultima curva; sembrava immutato, come lo ricordava, quasi che il tempo ne avesse impresso le immagini su vecchie foto nell’album della memoria.
– Siamo arrivati, – esclamò Matteo. – Come facevi a sapere dove abito.
– È stata la mia casa. Sono cresciuto qui – affermò, avvertendo un groppo in gola. – “È stato tanto tempo fa”, pensò, “un’eternità”.
Una donna uscì dall’ingresso, dirigendosi verso l’auto. I lunghi capelli bruni incorniciavano il volto abbronzato con una massa di riccioli, i suoi passi leggeri muovevano un fisico snello e aggraziato nelle forme.
– Accidenti, mia madre. Si arrabbierà di brutto.
– È stata colpa mia – si scusò Diego – lei capirà.
Aprì lo sportello e le andò incontro. Si fermò a pochi passi da lei; si guardarono riconoscendosi, le parole rimasero sospese.
– Mamma posso spiegarti – disse Matteo saltellando verso di loro su una gamba e reggendosi l’altra con la mano.
– Mio Dio! – esclamò lei – cos’hai combinato questa volta.
– Cristine, è tuo figlio? – chiese sorpreso.
– Sì, che t’importa – rispose con voce astiosa. – Cosa ci fai qui?
– Sono tornato a casa – mormorò sconcertato; non riusciva a spiegarsi la sua aggressività, si era aspettato un’accoglienza diversa.
– Saranno felici i tuoi genitori, finalmente.
– Mamma conosci questo signore?
– Siamo amici d’infanzia – disse Diego allegramente. – Pensiamo a medicare la tua ferita, ora.
– Non ho bisogno del tuo aiuto – protestò lei – non vorrai sporcare le tue mani preziose, dottore – canzonatoria.
– È mio dovere, considerato che sono la causa involontaria dell’incidente.
– Tu, cos’hai fatto? Avresti potuto ucciderlo – lo aggredì rabbiosa.
– Mamma, mamma, non è vero. Stavo correndo per la discesa come un pazzo e sono finito sulla sua auto.
– Ti ho detto tante volte di smetterla – si rabbonì Cristine accarezzandolo. Rivolse a Diego uno sguardo carico di cose inespresse. – Grazie. – Prese il figlio per mano e si avviò verso l’albergo, poi si voltò lentamente: – Bentornato Diego. –
Durante il tragitto verso casa, Diego tentò di dare una giustificazione all’atteggiamento ostile di Cristine. Erano stati amici un tempo e, forse qualcosa di più. Ma le cose cambiano, così le persone in virtù delle esperienze personali. Se per lui quel periodo era rimasto, comunque, racchiuso in sé come attributo di un percorso comune, non rappresentava, invece, per Cristine nient’altro che un episodio irrilevante. Ma non era tornato per riesumare i fantasmi del tempo che fu e non serviva a nessuno rivisitare vicende lontane.
L’antica villa di famiglia, ubicata nelle vicinanze di un lago, appariva triste e scolorita dalle intemperie, sebbene i gerani fioriti conferissero una nota di colore ai balconi in legno. Diego ebbe l’impressione di essere piombato in un mondo alternativo, in cui gli avvenimenti seguivano un andamento imprevedibile, ed era costretto ad affrontare quelle situazioni insolite con un senso di disagio. Se avesse potuto spostare le lancette a ritroso e interrompere quel viaggio, che percepiva insidioso, sarebbe fuggito a gambe levate, ma a questo punto sembrava impossibile ignorare la spinta che lo portava ad andare avanti, qualunque fosse l’esito finale.
La madre era invecchiata: qualche filo bianco s’intravedeva fra i capelli, un tempo rischiarati dal castano dorato e le piccole rughe intorno agli occhi addolcivano il volto stanco. Quando l’abbracciò, Diego avvertì una nota di tenerezza e acuto senso di colpa per averla esclusa dalla propria vita.
– Sono felice di vederti, figliolo – disse lei semplicemente; nessun risentimento nella voce. – Abbiamo molti anni da riempire.
– E papà?
– È in giro per i boschi. Sai ultimamente non è stato molto bene.
– Perché non mi hai chiamato? – la rimproverò.
– Eri così lontano… – esitò – fai parte di un altro mondo.
– Mamma, mamma – sospirò, sentendo acuirsi il senso di colpa – sono sempre io, il tuo Diego.
– Ora lo so. Ma dimmi perché sei tornato, per telefono non hai voluto anticiparmi niente.
Diego si sedette accanto a lei sul divano, prese le mani fra le sue.
– Sto per sposarmi.
– Una ragazza americana!
– Jenny è meravigliosa, ti piacerà. Sarai conquistata dalla sua esuberanza.
– Ti credo, spero che sarai felice.
– Voglio che siate presenti al mio matrimonio, sono venuto per portarvi con me. Anche Jenny ci tiene.
La madre scosse la testa con un sorriso mesto, che rivelava la propria delusione per la perdita dell’unico figlio: aveva sperato che fosse rimasto sulle montagne a rallegrare la sua vecchiaia con una sposa italiana e tanti nipotini.
– Non è possibile, vero mamma? – fece Diego sconsolato.
– Mi dispiace, tuo padre è malato di cuore ed io, non me la sento di stare sull’aereo tutte quelle ore.
Diego si avvicinò alla finestra, osservando il panorama incredibilmente incantevole e la visione gli procurò un tuffo al cuore. Chissà come sarebbe stata la sua vita se non fosse mai partito.
– Ho incontrato Cristine – mormorò pensieroso.
– È sposata con Guido. – “Ti ha atteso inutilmente”, avrebbe voluto dirgli.
– Già – commentò, continuando a guardare fuori.

[continua]


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