Ultima stanza

di

Liliana Paisa


Liliana Paisa - Ultima stanza
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 120 - Euro 11,50
ISBN 979-1259510730

eBook: pp. 118 - Euro 4,99 -  ISBN 9791259510976

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In copertina: illustrazione dell’autrice


Prefazione

Liliana Paisa propone una raccolta di racconti che scandagliano le molteplici manifestazioni del vivere e diventano rappresentazione simbolica dell’universo esistenziale dei vari personaggi, attentamente osservati all’interno del processo d’indagine.
Ecco allora che, da un lato, troviamo una dimensione che è strettamente collegata alla realtà, profondamente vissuta e sofferta, come nel caso del racconto “Il principe della pozzanghera”, nel quale il protagonista è un clochard che vive in una casa fatta di cartoni, vicino alla stazione ferroviaria e, ogni sera, nella pozzanghera “conta le stelle nel cielo come fossero sue”: un uomo invisibile, ormai “fuori da ogni dimensione”, che osserva il mondo circostante, e riflette sulla sua libertà, difendendo la simbolica pozzanghera come fosse un “tesoro” da custodire perché l’unico capace di rispecchiare un’immagine vera che era “solo sua”.
Dall’altro lato, v’è un’immersione in una dimensione che riconduce alla memoria e alla rivisitazione, come nei racconti “La città dei vecchi” e “Ultima chiamata”, poi, in alcuni racconti, si è catapultati in una dimensione surreale, che fa riferimento a narrazioni decisamente immaginifiche, permeate da un alone di mistero, come nel racconto “La sindrome delle mosche”, fino a giungere ad alcune visioni letterarie decisamente oniriche, come nel caso del racconto intitolato “Il mercante dei sogni” nel quale un misterioso mercante offre, nel suo prezioso flacone, lo straordinario “profumo dei sogni”.
Nel racconto “Ultima stanza”, che offre il titolo alla raccolta, merita di essere sottolineata l’intenzione narrativa che offre l’immagine d’un protagonista completamente stritolato dalla sua frenesia, come se i ricordi non possano essere fermati; disperatamente disperso nei labirinti della mente; e prigioniero d’un complesso progetto che prevede la costruzione di numerose stanze dove custodisce i segreti della sua vita.
Durante il processo narrativo si avverte il travaglio dell’odierno vivere, la sensazione di fare i conti con l’incognita dei giorni, tra semplici gesti quotidiani e necessità di pensare alla sopravvivenza, quando la vita può stritolare e, sovente, non rimane che l’amaro degli anni passati e del rimpianto.
La sua narrativa viene custodita nella memoria come linfa vitale, capace di annullare il dissolvimento d’ogni prospettiva e, allo stesso tempo, diventa atto liberatorio che salva da una condizione di straniamento.
Liliana Paisa, grazie alla sua Parola, decisamente coinvolgente, offre un universo emozionale profondamente sentito nel cuore, e capace di alimentare una miscela narrativa nella quale il suo sguardo, attento e lucido, è rivolto al mistero insondabile dell’umano vivere.

Massimo Barile


Ultima stanza


LE PIEGHE

L’avevano comprato all’asta degli oggetti usati. Non appena vide la cornice di legno lei se ne innamorò. “È bello, vedi? Ci voleva proprio uno specchio su questo muro spoglio”. “Potevi mettere un quadro” rispose il marito andando verso la cucina. Aveva una gran sete. Aprì il frigo e si prese una birra. Con il caldo che scioglieva persino i pensieri, una birra fredda dava conforto. Gilda rimase davanti allo specchio e non capiva perché il soggiorno si riflettesse in modo distorto. “Forse lo specchio ha un difetto” pensò lei. “Ivan, dove sei?” “In cucina”, rispose lui infastidito. Stava godendosi la birra. “Cosa c’è ancora?” “Dobbiamo andare al mercato” disse lei entrando in cucina. Prese un bicchiere d’aranciata dal frigo e guardò il marito come fosse colpevole per qualcosa che lui nemmeno sapeva. “Perché mi guardi così, cosa ho sbagliato ancora?” “Niente. Non sopporto più questo caldo”. Il sudore le colava addosso. Ivan guardò il vestito color panna di sua moglie che prendeva la forma delle rotondità. Sorrideva complice della tenera bellezza di quella immagine. Lei capì e cercò di staccare il vestito molliccio dalle sue forme. Non riuscì. Scambiò gli sguardi e lasciò la cucina portandosi dietro l’aranciata.
Le venne in mente il giorno del loro arrivo nella casa ereditata da suo padre. Non amava stare lì come non ha mai accettato la condizione di figlia unica, ma non si potevano permettere altro. Il soggiorno era il posto che le piaceva di più.
Gilda lasciò nell’aria una scia di profumo e sudore. Una miscela che dava nausea. Cercò un po’ di sollevo sul divano, nel soggiorno, e ad un tratto le sembrò diverso. Guardò nello specchio ed incontrò l’immagine di sé e del suo soggiorno diversa. Non riusciva a capire il perché e non si impegnò a trovare una risposta immediata. Si ricordò del mercato e richiamò suo marito. “Gilda, smettila!” rispose lui passando il dorso della mano sulla fronte piena di sudore. Niente, adesso aveva anche la mano sudata. “Non se ne può più” pensò lui entrando nel soggiorno. “Andiamo” disse a sua moglie fermandosi davanti allo specchio comprato da poco. Guardò e pensò che l’immagine vista non fosse la sua. Riguardò. Era lui, in quel soggiorno erano solo lui e sua moglie. “Cavolo, sto invecchiando!”. Presero le buste per la spesa lasciando la casa nel morso del grande caldo.
Le arance rotolavano fuori dalla busta caduta a terra, tre, quattro, le mele verdi si trovavano in mezzo al basilico e rosmarino. Una scatola di carne macinata era già calda. Doveva cucinarla subito e questo le dava ancora più fastidio. Con le mani sudate Gilda prese la spesa dal pavimento e l’appoggiò sul tavolo.
Aveva la sensazione che i suoi pensieri soffocassero nell’aria.
Si girò verso il marito e capì che non era il momento di ricordargli il condizionatore guasto. Ivan cercava in quel momento di sistemare il lavandino della cucina.
“Certo che in questa casa comincia a non funzionare più niente” disse lei a voce bassa ma lui la sentì e alzò lo sguardo pieno di rimprovero. Sapeva che bastava, non aveva bisogno anche di parole.
“Ho pensato di cucinare la carne stasera, quando l’aria sarà più fresca. Che dici?” chiese lei al marito ormai alla fine dei suoi lavori. Poteva anche dirle tante cose mai dette prima. Pensò di rimandarle per la stagione fredda. Magari davanti al camino acceso sarebbe stato meglio. Lui guardò la moglie e lasciò nell’aria la tenerezza delle parole “decidi tu. Io ti aiuterò, tesoro mio”.
“Cosa ti sta succedendo? Non hai parlato così dal primo anno di matrimonio. Stai bene, vero?” Lui non rispose. Sorrise come piaceva a lei. Gilda capì che non era una cosa grave. Ritornò alle faccende di prima, avvolta nel suo sudore, nel caldo attaccato alla pelle. Nella mente si affollavano i ricordi. Provava con tutta sé stessa a metterli da parte, magari per un altro giorno. Non riuscì. Si ricordò un giorno simile. Aveva cinque o sei anni. Era al mare con suo papà. La sabbia si attaccava al sudore e rimaneva sui capelli, sul collo.
Quando mangiava le andava giù per la gola. Cominciò a odiare il caldo in quegli anni, il sudore appiccicato a tutto. Suo papà costruiva con lei i castelli di sabbia poi la portava a guardare i pesci.
Non poteva dire a Ivan che voleva un figlio, che si era stancata di trovarlo a casa tutti i giorni, a non fare niente, sentirlo lamentarsi della sua disoccupazione. Un giorno però avrebbe dovuto farlo.

Un rumore forte la riportò nel soggiorno. Ivan inciampò nel filo della lampada. Questa cadde e si ruppe. “Ivan, ma cosa hai fatto?” Ivan attaccò il ventilatore alla spina. “L’ho trovato nella cantina. È un po’ malandato ma funziona ancora. Non ti preoccupare della lampada, ce n’è un’altra”.
Gilda sentì un filo di aria fresca arrivare sulla sua fronte bagnata. “Ivan questo ventilatore non fa niente, consuma solo la corrente. Come pensi di avere un po’ di sollievo?” Non aspettava una risposta, continuava a roteare le mani in aria nel crescendo del suo nervosismo. “Tu non capisci, Ivan, non capisci. Io non ce la faccio proprio. Odoro di acido dalla testa ai piedi, il sudore mi cola dappertutto. Sembra che pure la casa sudi, guarda!” Toccò i muri, i mobili, gli oggetti, specchio e porta grondanti.
Ivan guardò con l’ironia della preoccupazione Gilda che si esibiva nello spettacolo della sua isteria. Gilda si fermò davanti allo specchio, passò la mano sudaticcia sulla cornice di legno e continuò “anche il legno è umido, Ivan, noi, la casa, tutto”.
Ivan prese sua moglie nella trappola delle carezze, la tirò verso il divano, la baciò sulla fronte e si mise ad aprire le finestre, le porte. Prese del tè freddo e si mise sul divano, vicino a lei. L’aria girava. Un’onda di freschezza passò sui corpi bagnati.
“Ivan, mi trovi ancora attraente?” Lui annuì. Lei continuò “ti ricordi le macchie nere sullo specchio. Volevo toglierle e mentre pulivo mi sono vista, Ivan, ho visto la mia faccia. Qui, guarda!” prese la mano del marito e l’appoggiò sull’angolo esterno delle palpebre. “C’è una piega, Ivan, la mia ruga, senti?” Ivan baciò la piega di sua moglie pensando che lei ancora non avesse scoperta la sua.
“Sei sempre bella. Che vuoi che sia una piega o una ruga. Niente, invecchiamo insieme come tutti.
Lei chiuse la porta, le finestre. Passò un panno asciutto sullo specchio bagnato.

[continua]


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