Opere di Liliana Paisà


FINESTRA

Quel giorno faceva caldo. Io e mia sorella, più piccola di me, stavamo sedute sul pavimento. Le finestre erano tutte aperte. Anche le porte. L’aria umida si attaccava alla nostra pelle. Alle pareti. Nostra madre faceva il bucato quel giorno. L’acqua della vasca, il sudore erano addosso a lei. Ogni tanto fissava la lavatrice rotta. Nell’angolo della cucina che tratteneva il calore e l’odore di pollo arrosto. Lei non amava le cose rotte, neanche la casa in mezzo al nulla. Da quando nostra madre lasciò nostro padre cambiò tutto. L’umore di lei e il nostro. Anche la casa sembrava diversa. Forse aveva più tristezza sulla carta da parati, più aloni intorno ai quadri. Non volevamo avere confidenza con la polvere della strada o con la solitudine del posto. La casa più vicina alla nostra era a cinquecento metri. In un certo senso eravamo contente. Nostra madre si impegnava ad essere padre, gli zii e le zie. Non riusciva. Così lasciò perdere quell’altre parti e cominciò a fare solo la madre.
Mia sorella aveva cinque anni e giocava davanti casa. Nel giardino. Di solito. Metteva i giocattoli nell’erba, tra i fiori piantati da nostra madre. Lei si arrabbiava. Non per i fiori, ma per il pensiero di prendere la macchina e andare in città per comprarne altri. Voleva sempre i fiori nel giardino. Diceva che in un posto così servono tanti fiori. Per non piangere. Io non l’ho mai capita. Non mi sono mai impegnata a capirla fino in fondo. Pensavo più che altro alla fantasia esagerata di mia sorella. Che non preoccupava nostra madre. Io invece sapevo che qualcosa non andava. L’ho saputo dalle prime volte che ho trovato mia sorella su quel blocco di cemento. Dietro casa nostra, a poca distanza, erano i resti di un deposito. Ormai da tanto tempo. Nessuno si è fatto vivo a portare via i detriti. Anche se la gente del posto sollecitava di continuo.
Mia sorella finiva spesso da quelle parti. La trovavo sporca dalla polvere grigia dalla testa ai piedi e le mancava sempre una scarpetta. Mi mettevo a cercarla. A volte trovavo solo i lacci e a lei toccava a camminare scalza. I piedi si graffiavano e lei piangeva. Le sue lacrime finivano sulla mia mano. Mi sembrava di sentire tutte le volte il loro bruciore. Provavo, per compassione, a portarla in braccio. Non riuscivo e quasi piangevo anch’io.
La trovavo sul gigante quadrato di cemento sul quale qualcuno aveva disegnato una finestra e una porta. Così bene che sembravano vere.
Mia sorella aveva portato lì tutte le sue bambole. Guardandole nel contesto di quel disegno mi sembravano dei piccolissimi bambini seduti lì. Abitanti finti di una finta casa. Sul disegno della finestra vidi una manciata dei fiori del nostro giardino, appassiti ormai sotto il sole cocente. Mia sorella voleva stare lì” nella sua casa, non nella nostra” diceva lei. Mi sono sempre chiesta cosa hanno i bambini nella testa. Ho fatto pure degli sforzi per ricordarmi cosa c’era nella mia quando ero come lei.




2. FINESTRA

Non sono mai riuscita. Abbandonai tutte le possibilità di capire. Per una settimana, mia madre tenne mia sorella, chiusa in casa. Aveva paura che una volta lasciata nel giardino, poteva ritornare nei resti dietro casa. Troppo piccola per difendersi dai chiodi arrugginiti, dai vetri frantumati o pezzi di ferro.
Era triste quando stava in casa. I giocattoli rimanevano sparpagliati sotto e sopra il letto. Sul tavolo, sotto. Anche negli angoli. Appena mettevo il piede in quella stanza rimanevo immobile. Per paura di non schiacciarli.
Per farla ridere, nostra madre inventava le storie. Metteva i suoi burattini sul palcoscenico improvvisato sul tavolo della cucina. A mia sorella piacevano i burattini di nostra madre. A me più le storie. Li faceva lei. I burattini. Con le rimanenze di stoffa dai vestiti. Pezzi di colori meravigliosi. Era una sarta nostra madre. Lavorava a casa per uno stilista. Cuciva tasche e bottoni. A volte anche borse. Una volta al mese andava in città a portare il suo lavoro. Eravamo felici quel giorno. Ci portava con lei. Mangiavamo la pizza. Giravamo nella luna park.
Rideva mia sorella. I burattini di nostra madre la divertivano, anche se una volta disse al suo amico immaginario che non le piacevano.
“Ragazze, venite. Ho del gelato”. Quel giorno, la voce di nostra madre, dominava il caldo. Abbiamo mangiato del gelato. Tutte e tre. Sul dondolo di fuori, nel giardinetto davanti casa. Si stava bene. Sentivamo un filo di aria fresca passare tra le nostre gambe, sulle nostre teste. Su quel posto dove non succedeva mai niente.
“Solo un altro anno, ragazze, poi si va a vivere in città”. Voleva rassicurare più se stessa che le sue figlie. Lo diceva ormai da tanto tempo. Sapeva anche lei che non era vero, ma le piaceva crederlo e quasi faceva credere anche a noi. Nostra madre, per senso di colpa, controllava il gioco di mia sorella. Controllava anche me. Voleva essere sicura che non l’avrei mai persa di vista. Diceva che le sorelle più grandi sono mezze madri. In un certo senso aveva ragione.
Badavo a mia sorella come fosse una piccola figlia. La sua esagerata fantasia mi preoccupava. Anche l’amico immaginario. Dissi a mia madre di farla vedere da un dottore. Lei si mise a ridere dicendomi che non c’era niente di male ad immaginare le cose. Lasciai perdere. Per un po’. Pensavo di rimanere in guardia, anche se il tempo per fare questo era poco. Avevo sempre più compiti da fare e più difficili.
Quel giorno era soffocante. Il caldo faceva perdere le forze a tutte e tre. Nostra madre era nervosa. Non ci voleva tra i piedi. Così mia sorella era di nuovo in giardino. Io mi addormentai tra i suoi disegni. Su tutti i fogli disegnò la stessa finestra e la stessa bambina che guardava dentro.




3. FINESTRA

Capii in quel momento, ma il torpore mi chiuse gli occhi. Dimenticai di fare mezza madre a mia sorella.
“Leila! Leila!, dove sei?” la voce di mia madre era così pungente che mi svegliai più confusa di prima. Ho messo un po’ per capire cosa stava succedendo. Per un istante non avevo riconosciuto la casa. Era come negli incubi, quando appena apri gli occhi e non sai dove ti trovi. Sentivo l’aria pesante, appena respirabile. Le pareti sembravano di gomma. I miei piedi di legno. Li trascinavo quasi senza sentirli. Mi resi conto che era la paura a fare degli scherzi. Non mi piaceva per niente essere controllata da quella sensazione. Mia sorella avrebbe detto “la casa piange, dobbiamo farlo anche noi”.
Il pensiero che mia sorella poteva stare male mi paralizzò. Provai comunque a scendere le scale. Mi ricordai di aver messo nella tasca un suo disegno. Non so perché tirai fuori il foglio. Scendevo le scale tenendolo tra le mani come fosse una scoperta. Quella finestra e quella bambina che guardava dentro. Pensavo che la bambina poteva essere mia sorella che guardava dentro la sua casa immaginaria.
Di sotto c’era una grande agitazione. Mia madre si comportava da isterica. Un poliziotto faceva delle domande e scriveva su un quaderno nero. Aveva una penna rossa. Un poliziotto che scrive con una penna rossa mi sembrava ridicolo. Pensavo così di quel poliziotto. Girato di spalle, vicino a mia madre, stava un uomo. Era lui, mio padre. Sentivo lo stomaco in bocca. Per l’emozione di rivederlo. Per tutta quella agitazione di mia madre. Mi ero impegnata a non vomitare sul tappeto con fiori rossi. Era nuovo. Mia madre lo curava come fosse una persona viva. Forse perché in mezzo al salone sembrava un grande quadrato animato. I colori sembravano lasciare il tappeto e attaccarsi alle pareti, alle finestre senza tende. Alla nostra pelle. Come nella fantasia di mia sorella.
Sentii mia madre parlare con il poliziotto della penna rossa. Le parlava di lei. Di mia sorella. Non riuscivo a capacitarmi dell’accaduto. Mi sembrava di aver dormito per giorni. Nella confusione che avevo nella testa anche i loro volti mi sembravano simili. Forse la paura fa sembrare tutti quanti uguali. Mia madre girò la testa. Quando mi vide andò su tutte le furie. Fece un salto verso di me e mi prese per i capelli. Era impazzita. Pensava che la colpa era di quella mezza madre che doveva badare a quella piccola figlia. Ma anche io ero una figlia. Lei non pensava così in quel momento. Poi si rese conto che mi stava facendo male. Liberò la mia testa e guardò mortificata le sue mani come fossero piene di sangue o di peccati. Guardò tutti quanti e si mise a piangere. Il poliziotto della penna rossa scosse la testa, passò il dorso della mano sulla fronte. Disse qualcosa a mio padre e uscì.




4. FINESTRA

“Dov’è? Dove?” continuava mia madre a chiedermi. Quegli occhi rossi diventarono giganti, mi bruciavano dentro. Gli occhi di mia madre.
Non l’hanno trovata né a casa sua, sul blocco di cemento, né nei dintorni. Hanno trovato solo una scarpetta e dei fiori sul disegno di una finestra.
C’era anche un braccio di una bambola, sulla polvere grigia. Mia madre continuava a chiedere “dov’è?” e guardava sempre me. I suoi occhi diventavano più rossi di prima. “Io ho dormito” le volevo dire, ma comunque non mi avrebbe ascoltata. Non l’ho sognata nemmeno, mia sorella. Ho solo dormito di giorno. Non so perché.
Ormai era buio e ho visto la gente che non conoscevo. Mi sono chiesta dove stava tutta quella gente. Dove erano le case. Avevano anche loro, come noi, la stessa polvere grigia, la stessa strada? Tutti cercavano mia sorella, che forse era andata in gita con il suo amico immaginario. Loro non sapevano questo e mia madre non si ricordava. Lei piangeva senza fermarsi. Sembrava essere l’unica cosa che sapeva fare. Piangere. Mio padre le passava fazzoletti asciutti, lei buttava quelli bagnati, ma sotto il pianto la sentivo contenta di avere lui vicino. Ogni tanto le accarezzava la fronte, le sistemava i capelli. Le mani di mio padre sembravano più grandi dal giorno che se ne era andato. Forse sono state sempre così e non mi ricordavo. Le mani di mio padre ritornate a casa. Forse per finire quello che ha lasciato a metà. Invidiavo il dolore di mia madre. Quel dolore che le portava l’attenzione e le carezze di mio padre. Anche lui stava male per la scomparsa della piccola figlia. Mia madre a lui dava solo quelle lacrime sui pezzi di fazzoletto.
Non c’erano le carezze e neanche abbracci tra le pieghe della carta bagnata. Forse lei pensava che era il prezzo da pagare. Da parte di quell’uomo ritornato da lei. Un padre che ritornava doveva abbracciare anche i figli. Doveva. Era una regola morale. Mio padre non mi ha aveva dato il suo abbraccio. Pensava forse che una manciata di sorrisi paterni potevano riempire il vuoto. Anche se ero abituata a non riceverli, i suoi abbracci mi mancavano. Potevano essere tra le cose mai dimenticate nella vita. Gli abbracci dei genitori. Mi toccavo per istinto la faccia. Non ero invisibile anche se per loro sembravo così. Ero rimasta nelle loro ombre. Aspettavo le notizie di mia sorella. Piangevo. Non importava a nessuno dei due che anche la figlia grande piangeva. Le volevo dire che le lacrime non erano per loro, né per quegli abbracci mai dati. Erano le lacrime per me e per mia sorella. Le lasciavo cadere, non ne raccoglievo nemmeno una su quei stupidi fazzoletti di carta.
L’hanno trovata all’alba, nel villaggio vicino. “Come ha fatto così piccola ad andare così lontano?” si chiedeva nostra madre, lasciando le parole cadere nel vuoto. Il poliziotto della penna rossa teneva in braccio mia sorella. Lei teneva stretto a sè un gattino.




5. FINESTRA

Ci guardava e rideva muovendo i piedini senza scarpe. Le ha perse tutte e due.
Siamo rimasti svegli per tutta la notte ad abbracciare quella piccola bambina. Che era mia sorella. Che era la figlia di quella madre. Anche del padre ritornato chissà da dove. Il gattino dormiva davanti alla finestra aperta e tutta quella aria fresca era rimasta sempre lì. Nella nostra casa, sulle pareti, nei quadri senza cornice. Nelle nostre mani.




CENA

Mio padre stava a capo tavola, come tutte le sere. Davanti a lui, mia madre. A sinistra di mio padre io. A sinistra di mia madre mia sorella. Sotto il tavolo stavano i nostri due gatti, Sten e Dick. Il nostro cane Mu si metteva sempre tra gatti e girava la testa a destra e a sinistra. Controllava ogni loro mossa, ogni fusa. Mio padre aveva le mani grandi. Quando le appoggiava sul tavolo quasi coprivano la cena e noi. Non usavo mai guardarle mentre lui ci fissava. Avevo paura che avrebbe poi dimostrato la loro forza. Anche sulle nostre teste, quando passavano su e giù scompigliando i capelli, sembravano degli animali antichi alla scoperta di tenerezza. Pensavo che fossero la parte più grande del suo corpo. Le vedevo tutte le sere e ogni volta mi sembravano più grandi. Forse perché lavorava troppo. Le sue mani non si fermavano mai e noi, io e mia sorella, non capivamo come facesse a non stancarsi. Nostra madre sapeva di più sulla fatica delle mani giganti di nostro padre. Non ci ha mai detto il loro segreto. Secondo lei rimanevamo le figlie obbedienti se non conoscevamo la storia di quelle mani. Eravamo al tavolo come tutte le sere e sembravamo un quadro impressionista alla ricerca del pittore. Io guardavo di nascosto i movimenti delle mani giganti di nostro padre. Mia sorella guardava solo mia madre. Sotto il tavolo il resto della famiglia emetteva dei suoni incompressibili. La voce di nostro padre lasciava il silenzio sopra e sotto il tavolo. Sentivo solo la coda di Mu muoversi ogni tanto. Lì, sotto, sembravano interessati al profumo di pollo arrosto. Mio padre rompeva con precisione le ali. Le sue dita unte di grasso sembravano incastrate nella pelle croccante. Mi sentivo colpita da un certo timore che si confondeva con una forma particolare di rispetto.
Dovevamo mangiare in silenzio e lasciare il piatto pulito. Il nostro sguardo non doveva incontrare il suo. Anche se il pollo si mangiava con le mani io mi impegnavo a tagliare pezzettini con il coltello e prendere pezzo per pezzo con la forchetta. Solo il pensiero delle dita unte di mio padre mi chiudeva lo stomaco. Sentivo la bocca riempirsi di saliva. Ho letto da qualche parte che produciamo 1 litro e mezzo di saliva al giorno. Non capivo come fosse possibile.
“Mangia con le mani” si innervosiva mio padre guardando alla sinistra del suo corpo robusto. Lì ero io, minuscola figlia che non amava le sue regole.
Non usavo guardarlo e neanche provavo a rispondere. Continuavo a mantenere le mani pulite anche se erano piccole. Avevo dieci anni, si può dire grande, ma non lo ero.
La nostra cena durava tanto. Mia madre si alzava spesso. Andava in cucina e portava altri piatti caldi a mio padre. Io e mia sorella giravamo il pezzo di pane sul primo piatto.
A me non piaceva la carne e a mia sorella non piacevano i pomodori. Quando mio padre ci guardava dovevamo comunque finire tutto.




2. CENA

Cercavamo l’aiuto di nostra madre che guardava solo nostro padre. Durante la cena non guardava mai a destra o alla sua sinistra. Eravamo sole davanti a quell’uomo che impostava e cambiava le regole.
Sentivo i gatti litigare per qualche osso buttato sotto il tavolo, all’insaputa di mio padre. Lui non voleva che buttassimo del cibo sotto il tavolo. I gatti e il cane avevano le loro crocchette. Vedevo la coda del cane muoversi di gioia. Non ho mai saputo se era contento perché litigavano i gatti o perché aveva trovato un po’ di carne sull’osso buttato da me. La coda di Mu mi sembrava più bianca del solito. Forse non era vero visto che mi capitava di avere i sensi distorti quando ero tesa. Stare a sinistra di mio padre mi rendeva nervosa. Vedere le sue mani così vicine a me tutte le sere mi metteva paura. Se mi ribellavo per qualcosa potevano arrivare subito dalla mia parte. Sapevo persino troppo bene che era meglio tenerle a distanza. Mia sorella, anche se più piccola di me, era meno tesa. Stava in silenzio. La sinistra di mia madre era più dolce di quella di mio padre.
A mia madre non crescevano le mani ogni giorno. Non le ho mai viste unte quando strappavano le ali del pollo. Le aveva sempre pulite e delicate. Mio padre prendeva sempre in giro mia madre. Per le sue mani piccole. Lei diventava rossa in faccia e lo guardava dritto negli occhi senza dire una parola. Invidiavo mia madre per la sua forza di guardare così decisa mio padre. Avrei voluto farlo anch’io, magari una sola volta. Bastava per dire che ero stanca di essere figlia di un padre padrone.
Dietro le spalle di mio padre, sul muro dipinto di verde marino, sopra la sua testa, pendeva l’orologio. Era stato regalato a mio padre per le sue nozze. Apparteneva al suo bisnonno. Guardavo ipnotizzata le sue lancette giganti. Mi immaginavo le ore come dei bambini allegri che saltavano da una parte ad altra senza paura. Dondolavano appesi come fossero in una gara di resistenza al trapezio. Il ticchettio forte non riusciva a coprire la sua voce. Quando parlava, mio padre riusciva a trasmettere i suoi messaggi. Non mi ricordo che fosse stato contraddetto da qualcuno.
Persino Mu smetteva di abbaiare quando vedeva mio padre. La sua voce aveva un effetto forte sul cane. Metteva la testa bassa e la coda tra le zampe. Usciva in un battito di ciglia dalla stanza. Quando aveva paura Mu non si faceva vedere per ore. Non ho mai saputo dove andava e cosa faceva. Soli a non avere paura di lui erano i gatti Sten e Dick. Mi sentivo confusa. Con mio padre vicino era difficile non esserlo.
Stavamo tutti insieme a quel tavolo di legno di noce. I suoi bordi incisi agli aghi di abete mi piacevano. Tante volte passavo con le dita sopra, seguivo il loro disegno, una volta, due volte chissà quante centinaia di volte. Mia madre osservò che dalla parte mia il legno aveva più aloni.




3. CENA

Ho pensato sempre che era troppo grande quel tavolo. Mia madre invece pensava diversamente quando cercava spazio per le sue portate. Stava sempre in cucina. Per lei la cena era sacra. Il suo rituale non doveva cambiare di una virgola. Primo, secondo, antipasti, dolce. Sembrava di stare al ristorante. “La cena è la festa della famiglia” diceva lei impegnandosi ad ottenere un sorriso e un bacio da quel uomo, dal padre delle sue figlie. Le voleva bene mio padre. Ci volevamo tutti bene. La differenza continuava a persistere solo nel modo di percepire le regole. Quelle imposte da lui.
Volevo cambiare posto a tavola. Mia sorella non voleva affatto. Toccava sempre a me la sinistra di mio padre. Lui sudava, sempre, quando lavorava, quando mangiava, quando sorrideva o quando stava zitto. Le gocce di sudore scendevano sulle tempie, si fermavano sul mento per finire sempre nel piatto. Mi immaginavo lo spezzatino di maiale con sopra le gocce di sudore di mio padre. Mi toglieva l’appetito a tal punto da rifiutare di aprire la bocca. Facevo finta di mangiare altrimenti si arrabbiava.
“È finito il vino” diceva lui e mia madre non perdeva tempo. Era già in piedi vicino alla porta. In un attimo la bottiglia di rosé si trovava in mezzo al tavolo. Vino delle nostre vigne. Il suo profumo e la sua leggerezza piacevano a tutti. Anche a me e mia sorella. Ogni tanto mio padre ci dava mezzo bicchiere. Sembrava succo di uva.
Stavamo tutti insieme a quel tavolo, alla sera. Io, sempre a sinistra di mio padre, ho imparato in fretta le cose importanti. Mia sorella, alla sinistra di mia madre ha imparato a guardare. Avevamo un’educazione diversa noi due. Non sembravamo nemmeno sorelle, ma ci volevamo bene.
Di giorno facevamo lo scambio di idee e delle faccende. Era furba mia sorella. Riusciva a tenere per sé le cose facili, passando a me tutto ciò che era difficile.
I giorni passavano nella stessa direzione. Le nostre cene avevano lo stesso rituale e poi successe qualcosa. Non ci trovavamo più tutti insieme a cena. Mu era vecchio e cieco. I gatti erano scappati via. Eravamo tristi per questo.
Io continuavo a stare a sinistra di mio padre, mia sorella non stava più a sinistra di mia madre. Se ne era andata dalla zia Zoe. Guardavo le mani di mio padre e pensavo che anche loro dovevano cambiare. Mi sbagliavo. Quelle mani continuavano ad essere grandi, a coprire quasi tutte le sere il tavolo e me. Lui guardava il posto di mia sorella.
Non era contento del vuoto lasciato. Sembrava di guardare il suo fallimento. Non diceva niente. Nemmeno mia madre.
Sopra la testa bianca di mio padre l’orologio girava i minuti senza farli cadere. Chissà quanto farebbe male il tempo caduto su una testa se questo potesse accadere!




4. CENA

Mi chiedevo girando gli occhi insieme alle lancette mentre mia madre continuava a guardare mio padre. Si alzò di scatto, mi prese per mano e disse “da oggi non si mangia più il pollo fritto e se un giorno ricominceremo a farlo non lo mangeremo più con le mani” e uscì portandomi via con lei.




MINA

“Venite, mie care, il caffè è già pronto, ho fatto anche dei biscotti, venite, vi aspetto!”
Ogni mattino, sulla terrazza piena di fiori, Mina aspettava le sue amiche. La terrazza era il posto più bello e preferito della casa. “Perché non vai ad abitare nella città? Sei vecchia e sola per un posto isolato come questo” dicevano. Mina non rispondeva mai. Guardava in basso. Ogni volta che si parlava di questo, si alzava e con i passi piccoli si allontanava per un istante. Portava i capelli nascosti dal bianco, raccolti sotto il cappello verde. Le mani erano sempre coperte dai guanti e sapeva così bene portare il sorriso sulle delicate labbra. Viveva da sola ormai da 20 anni. Stava per ore sul terrazzo, dondolava sulla sua sedia mentre lo sguardo passeggiava nel bosco che circondava la casa. Di mattino prendeva il caffè con le amiche e perdeva la dimensione del tempo tra le chiacchiere. Una fortuna avere come vicine le amiche. Le dividevano solo pochi chilometri di bosco.
“Mina, cara, perché non ti togli mai i guanti, cosa ti succede, hai delle ferite, senti freddo?” Sorrideva e sotto voce cercava una risposta per tranquillizzare le amiche. “Da quando sono rimasta sola porto i guanti, è un gesto di difesa, conservo le carezze del passato.”
Dondolava Mina mentre l’aria profumata e delicata corteggiava lo spazio del terrazzo, in quel momento Mina passava la soglia dei ricordi e diventava parte di loro. “Cara Mina, i tuoi nipoti vengono spesso a trovarti?” la domanda riportava Mina nel presente.
“Scusate, care amiche, alla mia età i ricordi ti rubano in un istante. Scusate, adesso sono con voi. Cosa mi avete domandato? Ah sì, i nipoti! No, i nipoti sono lontani, li vedo solo a Natale. A parte voi non ho nessuno qui, in questo meraviglioso posto”, sorrideva e chiudeva così le risposte.
Il pomeriggio Mina lo trascorreva da sola. Con le forze rimaste ordinava la casa. Accendeva il camino e mandava via la polvere di cenere che si attaccava sempre al vaso verde scuro. Puliva con delicatezza quel vaso e lo metteva sopra il camino. Pensava a tante cose e si lasciava andare nel gioco dei ricordi.
Mina non toglieva mai i guanti, nemmeno quando dormiva, l’unico momento era quando cambiava quelli sporchi con quelli puliti.
Nessuno sapeva perché ma, lei sì, pensava che in questo modo conservava le ultime carezze, le impronte di quel viso sempre amato. ”Quanto mi manchi tesoro“ diceva ogni tanto Mina guardando la foto del marito. Con la figlia il rapporto non era stato mai come desiderava. Sua figlia stava lontana, per gli studi, per il lavoro e poi per la vita di donna in carriera, di moglie e madre. La distanza era troppo grande per avvicinarle.




2. MINA

Venivano a Natale e poi andavano via per un altro anno, un altro tempo che per Mina significava una sfida con sé stessa.
Non si lamentava Mina, per lei era naturale che la vecchiaia la derubasse. A volte si addormentava davanti al camino acceso, con il vaso verde scuro stretto tra le mani. Chissà cosa era di così tanto prezioso che nemmeno alle amiche permetteva di toccare. Nessuno sapeva e lei non rispondeva mai quando le veniva chiesto. Passava a volte tutta la notte così, a svegliarla era il cane, allora Mina metteva il vaso a posto, sospirava e con i passi stanchi si avvicinava al letto.
E giorni dopo giorni, nella cornice delle mattine insieme alle amiche, Mina lasciava tutta sé stessa. Raccoglieva la tranquillità di tutte le sere e spostava nell’angolo la solitudine, sognava, pensava ed amava i ricordi e tutta quella sua vita sfuggita sempre al suo giudizio. Ogni giorno perdeva le forze, ma in cambio i ricordi, i vissuti erano più vivi, più giovani. Stanca e avvolta nella luce della casa Mina sentiva che stava perdendo sé stessa. Nel morso della paura prese con le mani deboli il vaso così amato, così curato. Le mani tremavano, perdevano i loro gesti e Mina gridò mentre il vaso caduto a terra donò tra i frantumi il suo contenuto che bagnò le mani ed i piedi di questa misteriosa vecchietta. Mina era caduta a terra e ad un tratto il corpo cominciò a sembrare un altro, il volto si illuminò e cambiò i lineamenti, sembrò più giovane o forse no, era difficile dire. Mina, con gli occhi chiusi, con il sorriso sulle labbra che sussurravano le parole incomprese, le mani delicate senza guanti ed i piedi scalzi, stava lì bagnata dal contenuto del vaso verde scuro. Mina viveva intensamente tutta la sua vita.
Le amiche la trovarono priva di sensi, la misero sul letto, le cambiarono i vestiti e nell’attesa del medico Mina si riprese. Con un filo di voce tenendo le mani tese chiese: “dove sono, dove sono le mie lacrime?” “Cosa dici, cara?” dissero le amiche avvicinandosi di più a lei.
“Le lacrime.. le lacrime, ripeteva Mina, il vaso si è rotto, le mie lacrime sono disperse, io.. io” la voce stanca cercò un appoggio sulle parole deboli.
“Le mie lacrime.. loro..” e Mina si spense serena, con il sorriso sulle labbra appena baciate da tutta la storia di questa donna.
Le amiche capirono che il vaso verde scuro era il misterioso vaso dove Mina aveva conservato la sua vita. “Non credevo che le lacrime di una vita potessero essere conservate fuori dai ricordi” disse una di loro. “Strano ed incredibile, quasi surreale” rifletté un’altra di loro.
Mentre le donne cercavano di capire la storia impossibile della loro amata amica, la luce del tramonto scendeva e abbracciava tutta la dimensione di questa casa. La luce sposò lo spazio ricco di ricordi, di vita intensamente conservata nelle sue strane forme.




GATTO
“Quando sarò morto, dovete mettere il mio naso nella formalina. Tutto qua e non chiedetemi perché. È il mio ultimo desiderio.” Quell’ ultimo desiderio suonava di più a una battuta. Se non fosse stato per la sorella, sarebbe stata considerata come una battuta funebre. Morì sul letto di casa, avendo al capezzale una sorella, da parte del padre. Conosciuta peraltro da pochi anni. Precisamente alla morte del padre, con una lettera.
Fu seppellito nel terzo giorno. Il gallo non cantò tre volte e l’anima non fu venduta. Il suo naso, secondo il suo ultimo desiderio, fu strappato dalla faccia e messo nella formalina, in un barattolo di vetro. La sorella mise il barattolo sullo scaffale, nella cucina dei loro genitori. Morti ormai da sette anni.
Il naso nella formalina sembrava annusare la vita rimasta tra le pareti piene di muffa, nei cassetti con i ricordi stropicciati dal tempo. Una volta quella casa era contaminata dalle risate dei bambini. Adesso cresciuti. I bambini cresciuti nascondono nelle tasche la vita, i segreti. L’amore no. Quello lo mettono tra i capelli o nel taschino vicino al cuore come fosse un fazzoletto. Ma non per soffiare il naso. Uno a forma di rosa o a tre angoli. Gli uomini eleganti lo fanno. Lei, no. Ginevra, primogenita, portava la sua vita di casalinga separata con una molletta tra i capelli biondi. Non aveva figli. Nonostante questo lei sapeva badare ai bambini. Le ha insegnato la madre. Così si era trovata a prendersi cura dei suoi due fratellini. Terry, il fratello mezzano, aveva la sua vita chiusa nei cassetti. Quelli dello studio di avvocato. Faceva solo quello nella vita. Non aveva tempo per una moglie e dei figli. Il più piccolo, Dek, trascinava la sua vita tra l’ufficio della banca e la casa della fidanzata. Essere il più piccolo dei fratelli non le impediva di dare lezioni di vita. Con la sorella litigava spesso. Di solito quando lui tirava fuori i giudizi sui difetti della fidanzata.
Si trovavano tutti e tre insieme. Nella casa dei loro genitori. Come ai vecchi tempi, con la differenza che i genitori erano morti. Stavano lì, intorno ad un tavolo a guardare le foto di ciò che una volta era la loro famiglia. Forse ognuno rifletteva sulla propria vita. Vita diversa da ciò che la loro madre avrebbe voluto per loro. Più guardavano le foto del padre, più sentivano dolore e rabbia. Quell’uomo lì, in mezzo a loro, sorridente, aveva tradito tutti. La sorella, che teneva la foto, provò a strapparla ma i fratelli la fermarono. “Sono i ricordi, in fondo. Resta solo questo, Ginevra” dissero. Forse pensavano alla madre che non ha mai perdonato il tradimento del loro padre. L’hanno saputo tardi. Avere un fratellastro non era una cosa da poco.
Poi quello era proprio tosto. A 30 anni già imprenditore. Lo conoscevano tutti per la sua anima ribelle, per le stranezze. Geny, lo chiamavano, aveva poco da vivere già quando l’hanno conosciuto.
Nel giorno del suo compleanno lasciò tutto ai senza tetto.




2. GATTO

“Ehi, guardate” disse la sorella, “il naso del nostro fratello si muove. Io penso che era meglio portarlo in un posto conosciuto a lui, non a noi. In fondo lui non era cresciuto con noi in questa casa.” I tre fratelli avvicinavano la loro faccia al naso che girava isterico nel barattolo. Lì, sullo scaffale della casa dove erano cresciuti. Si guardavano disgustati e con timore di essere diventati matti. Pensavano di soffrire tutti all’improvisto di allucinazioni. Volevano lasciar perdere, ma i loro sguardi rimanevano incollati sul barattolo dove giaceva il naso del loro fratellastro. Guardavano le narici e a loro sembravano due valvole che si muovevano di continuo. All’inizio avevano dei brividi, faceva loro proprio schifo guardare un naso senza faccia e poi anche di un morto. Più guardavano più si abituavano. Quasi volevano bene a quel che era rimasto del loro fratellastro. In fondo sono stati poco insieme a lui. L’unica cosa rimasta era il suo naso in un barattolo pieno di formalina.
“Voi pensate che può essere vivo? Chiese la sorella ai suoi fratelli. “È una cosa strana che un naso di un morto si muove da solo” continuò lei guardando tutti.
“Apriamo il barattolo!” disse uno dei fratelli. “No, che dici?” replicava un altro.
Giravano tutti e quattro intorno a quel naso pallido e delicato. Chiuso lì, privo della sua libertà, ispirava tenerezza. “Andiamo a sederci tutti!” lasciamolo solo, vediamo cosa succede” disse il più grande di loro, Terry. Si sedettero sul divano color ciliegia. Il divano della loro gara dei salti. A loro sembrava di sentire la voce della mamma “Ragazzi, basta! Lo rompete!” si ricordavano bene. “Più diceva di smettere, più noi saltavamo, vi ricordate?” Annuirono e tutti cercavano di nascondere quella soffice malinconia. Sotto le palpebre c’era il più bel nascondiglio. Le lasciavi cadere e loro, le palpebre, coprivano come una coperta l’animo. “Papà, vi ricordate, ritornava una volta al mese, pieno di regali per noi e mamma” disse il fratello più piccolo, Dek, “gli dispiaceva sempre di non aver tempo per giocare, per ascoltare. Pensava che i soldi sono l’unica cosa per far crescere i figli” continuò lui. I fratelli lo guardavano e forse, nel loro silenzio, approvarono.
Ogni tanto spiavano lo scaffale, la nuova residenza del loro fratellastro.
Si guardavano, sorridevano e versavano del whisky nei bicchieri di cristallo. I bicchieri preferiti della loro mamma. Forse per il disegno di triangoli o forse perché erano un ricordo abbastanza costoso.
“Mamma raccontava che i bicchieri li aveva ricevuti in regalo di nozze. Un regalo di sua madre. Insomma, avevano un significato affettivo per lei” disse Ginevra. “Li tirava fuori dalla credenza solamente nel giorno di festa” continuò lei.
“Ragazzi, voi avete visto Gerardo, il matto di quel gatto che non sta mai a casa?”




3. GATTO

domandò la sorella, Ginevra. Fece loro segno di no con la testa. Poi lei non ritornò sull’argomento, sapeva meglio dei fratelli che il gatto ritornava sempre. “Voi pensate che abbiamo fatto le cose giuste?” continuò lei a chiedere ai fratelli che stavano quasi in letargo sul divano dell’infanzia. “Cioè, forse non dovevamo mettergli il naso nella formalina. Se qualcuno viene a sapere chissà cosa ci farà la polizia” continuò lei alzandosi per controllare lo scaffale. Nel barattolo c’era ancora movimento. “La bara era chiusa. Nessuno ha visto che al morto mancava il naso” disse uno di loro. In questa casa entriamo solo noi. Non vedo il problema, Ginevra. “Forse abbiamo sbagliato seguendo il suo ultimo desiderio” disse lei guardando da vicino il movimento nella formalina. “Non si è mai sentita una richiesta cosi strana come questa” continuò lei.
Ginevra prese dalla raccolta dei dischi quello preferito dalla loro mamma “Follia” di Vivaldi. Lo mise senza chiedere ai fratelli se per loro andava bene poi riprese il suo posto sul divano, tra i fratelli. Chiuse gli occhi e rimase in silenzio ad ascoltare. La testa si riempì dei ricordi di quelle sere con il camino acceso. La loro mamma che portava la cioccolata calda e i biscotti con le mandorle fatti in casa. Si sedevano tutti, ascoltavano la musica di Vivaldi per far piacere alla mamma. Loro volevano ben altro a quell’età.
“Ormai sono passati dieci anni da quando abbiamo fatto entrare nelle nostre vite lui, il fratellastro” disse la sorella. “Vi ricordate, era ai funerali della mamma. Che shock!” continuò lei.
Cominciò a piovere. La pioggia batteva sui vetri delle finestre come fosse delle mani giganti che bussavano per entrare. Lei, Ginevra, era l’unica ad amare le serate di pioggia.
Continuarono a sorseggiare lo Scotch ed i ricordi. Ridevano quando parlavano del loro fratellastro morto.
Ogni tanto davano un’occhiata al suo naso ribelle, o forse arrabbiato chissà per quale motivo. Tanto non importava a nessuno una cosa del genere. Era da matti e da non raccontare, nemmeno fosse una storia di fantascienza. E comunque il naso si moveva e lo vedevano tutti loro.
La macchina da caffè fischiava in cucina. Il profumo avvolgeva tutti quanti. Non pensavano che c’è una dolcezza anche in quei momenti. Meglio, da una parte, se quel naso vede e sente, tanto è contento dell’atmosfera di fratellanza.
“Cosa faremo adesso? Chiese la sorella ai suoi fratelli mentre guardava da vicino il barattolo che riusciva ancora a contenere la vivacità di un naso. Pensò a quanti odori, profumi, a quante fragranze sono rimaste nelle sue narici.
“Lo lasceremo qui” rispose uno di loro “cos’altro vuoi fare? Quando venderemo la casa seppelliremo anche il naso. Non è che lo possiamo lasciare così” continuò lui.




4. GATTO

“Io direi di andare adesso. Ognuno a casa sua, cosa dite?” propose il fratello mezzano, Terry. “Sì, forse è una buona idea andare via” rispose la sorella e loro sembravano d’accordo. Si alzarono e lasciarono con nostalgia le coccole del divano color ciliegia. Rimasero immobili. Sentirono un rumore fuori dalla porta. “Sentite, vero?” chiese sotto voce la sorella. “C’è qualcuno o qualcosa alla porta” continuò uno di loro. Si avvicinarono in silenzio all’entrata. Il fratello più grande aprì. “Ah, eccoti! Sei tu Gerardo, bestiaccia vagabonda!” dissero loro. Il gatto entrò senza guardarli. “Manca da una settimana” continuò a parlare del gatto il fratello mezzano, Terry, “ho dovuto buttare via le crocchette. Ogni tanto gli prende il matto. Va e viene” continuò lui. Si guardarono e si misero a ridere.
“Sembriamo finiti in una scena surreale” rifletté ad voce alta Ginevra e continuavano a ridere. La risata li faceva star bene. Era come un viaggio nel tempo dell’infanzia. Quel tempo di spensieratezze. Si misero ad inseguire il gatto.
Questo si fermò davanti allo scaffale. Inclinava la testa a destra e a sinistra, come stesse ad osservare al meglio la cosa strana che si muoveva dietro al vetro di quel barattolo. Miagolava e graffiava la zampa dello scaffale. I fratelli si guardarono e pensarono che il barattolo non poteva cadere. Lo scaffale era ben solido. Il gatto non poteva arrivare lassù. “Se cadesse?” domandò la sorella, continuando a guardare il gatto ed i fratelli. Pensava che non era normale il movimento del naso d’un morto in un barattolo.
“Sembra aver paura” disse lei, ma il fratello piccolo, Dek si mise a ridere “non essere sciocca. È solo una cosa strana. Forse abbiamo tutti un’allucinazione visiva. Forse, in realtà, quel naso non si muove nemmeno. Sta fermo come sta ogni naso di ogni morto”.
“State zitti, siete impazziti” disse il fratello mezzano, Terry. Facciamo una cosa, rimaniamo qui per la notte. Ci prepariamo la cena. Stiamo tutti insieme, come ai tempi d’allora” propose lui.
“Non c’è niente qua, solo le crocchette per Gerardo” rispose la sorella”. “Due di noi vanno a fare la spesa, altri due rimangono ad ordinare la casa” disse Dek, il più piccolo dei tre fratelli. Annuirono e divisero i compiti.
La sorella, Ginevra, accese la tv. Girò sul canale di musica. Si mise, insieme al fratello piccolo a sistemare la casa. Ogni tanto dava un’occhiata al gatto. Stava sempre nello stesso punto a miagolare e a guardare il barattolo.
“Il gatto non mangerebbe il naso, vero?” domandò lei al fratello. Lui la guardò e si misero a ridere.
Nella trasparenza del vetro si vedeva il movimento di un naso. Forse aveva paura di un gatto che non lo mollava nemmeno con lo sguardo.




5. GATTO

Stavano tutti a tavola. L’odore di pollo arrosto e patate al rosmarino riempiva ogni particella d’aria. La casa sembrava abitata da sempre. Gerardo, il gatto, stava sempre a testa in sù. Guardava curioso la cosa strana nel barattolo. Né le crocchette, né i resti del pollo attiravano la sua attenzione in quel momento. “Peccato che non siamo tutti” dissero loro versando del vino rosso nei bicchieri. “Un brindisi!” disse la sorella alzando il bicchiere: “all’anima del nostro fratellastro e dei nostri genitori!” “ A loro” dissero tutti bevendo del vino.
Non si resero conto di come il tempo li ingannava. Tra i ricordi tirati fuori dai cassetti, tra le risate e progetti si resero conto che dovevano anche dormire. “Le nostre stanze, ragazzi, sono rimaste come nell’ultimo giorno vissuto in questa casa” disse la sorella, Ginevra, “andiamo a dormire. È tardi” continuò lei sbadigliando. “Buona idea” rispose uno di loro. “Aspettate, forse è meglio che facciamo la guardia. Magari uno alla volta con cambio ogni due ore” propose lei, la sorella. Girò la testa e vide il gatto sempre lì. Continuava a miagolare e a graffiare la zampa dello scaffale. “Gerardo, sei impazzito, cosa ti prende” disse lei provando a prenderlo tra le braccia e portarlo in cucina. Il gatto scappò graffiandola. “Stai lì, stupido gatto” continuò lei e guardò il graffio lasciato dagli artigli. Una goccia di sangue le scivolò fino al polso. Prese una garza dalla borsa e spruzzò dell’amuchina. Coprì con un cerotto e ritornò dai fratelli. Questi erano ancora impegnati in cucina. “Basta, ragazzi, finiamo domani mattina, adesso si va a dormire. È molto tardi” continuò lei. Il gatto le passò davanti, fece un salto verso lo scaffale e cadde. Nella sua caduta sbatté sulla zampa dello scaffale. Lo scaffale si sbilanciò senza cadere. Quel che finì per terra fu proprio il barattolo. Sotto lo sguardo di tutti. Rimasero impietriti. Guardavano la macchia di formalina che cresceva sul parquet. In mezzo alla macchia un naso si muoveva come un pesce fuor d’acqua. In un battito di ciglia il gatto saltò e lo prese come fosse un topo. Finalmente Gerardo, il gatto bastardo, aveva la sua preda tra i denti. Girò la sua testa grigia verso i padroni e scappò via dalla porta socchiusa.
I tre fratelli rimasero impietriti per l’accaduto. La sorella, Ginevra, si rese conto per prima di quanto era assurda la situazione in cui si trovavano e uscì di corsa a cercare il gatto. I fratelli seguirono l’esempio dalla sorella. Si resero conto che il buio e la grandezza del giardino con la sua vegetazione fitta non potevano essere d’aiuto. Avevano preso anche le torce a batteria, quelle che usavano quando andava via la luce dentro casa. Cercavano in ogni angolo chiamando il gatto per nome. Hanno girato per ore in quel giardino senza trovare traccia di Gerardo, gatto bastardo che fregò il naso di un morto. “Povero Geny, teneva così tanto a lasciare il naso nella formalina e adesso?” disse Ginevra guardando delusa i suoi fratelli. Entrarono in casa.




6. GATTO

Non chiusero la porta. Speravano ancora che il gatto ritornasse portando indietro la sua preda. “Io dico di andare ciascuno a casa e dimenticare la nostra assurda esperienza” propose il fratello piccolo, Dek. Si guardarono e annuirono. Era quasi l’alba e loro erano esausti dalle ricerche per tutta quella notte. Del gatto ormai non c’era nessuna traccia e neanche del naso di quel morto che era il loro fratellastro. “Scusate, vi siete mai chiesto perché Geny voleva il suo naso in un barattolo?” chiese il mezzano dei fratelli, Terry. “Come ultimo desiderio mi sembra una presa in giro. Secondo me, il nostro caro fratellastro voleva proprio prenderci in giro “continuò lui.
“Smetti, ormai cosa importa? Gli ultimi desideri sono sempre strani ed insensati. Forse voleva essere solo eccentrico, forse voleva sapere se veramente gli volevamo bene. Chissà cosa aveva in mente” concluse Ginevra mettendo la chiave in tasca. “Sapete una cosa? Penso che sarà il nostro segreto. In più, ragazzi, il gatto mangia solo le crocchette.”




ZIA DOROTHY

La testa di zia Dorothy era come una casa con poche lampadine accese. Pensava così suo marito Redy, nel giorno in cui il dottore le ha diagnosticato l’Alzheimer. Zio ricordava bene le parole di quel medico “la memoria di sua moglie sta scomparendo”. Ha capito già nel giorno in cui trovò zia nel cortile del vicino. Cercava qualcosa nei cassonetti dell’immondizia. “Dorothy, cosa fai?” le chiese zio Redy guardando da una parte all’altra della strada per assicurarsi che nessuno lo vedesse. Lei lo guardò quasi infastidita e continuò a cercare qualcosa tra i rifiuti. Il vicino lasciava il cancello sempre aperto. Per i ragazzi della ditta delle pulizie. Gli stessi che passavano ogni mattina a ritirare i rifiuti della gente. Per fortuna che il vicino a quell’ora era al lavoro. Altrimenti doveva spiegargli perché sua moglie si trovava nel suo cortile. Zio cercò di staccare zia dal suo impegno immaginario. “Ehi, Dorothy, smetti di fare casino. Cosa mai puoi trovare nei rifiuti del vicino?” continuò zio. Lei, la sua cara moglie, lo guardava e con un certo nervosismo rispose “sto cercando il mio pigiama dai quadrati blu.”
Vidi lo zio mettersi le mani tra i capelli e guardare verso il cielo come fosse lì la soluzione che cercava. “Dory, Dory, amore mio, cosa faremo noi?!” sentii lo zio dire mentre abbracciava la zia e la tirava pian piano verso la loro casa. “Dory, questa non è la nostra casa. È quella di Kevin, te lo ricordi? Il nostro vicino. Lo conosciamo da dieci anni, Dory. Non sei mai entrata nel suo cortile fino ad oggi” cercò zio di ricordare alla zia che non aveva senso quello che aveva appena fatto. La zia annuì e sembrava riprendersi. Abbracciò forte lo zio Redy e aveva gli occhi lucidi. “Tesoro mio, andrà tutto bene” le disse lui accarezzandola sulla fronte.
L’aveva portata da vari dottori, quelli più bravi in malattie mentali. Non c’era niente da fare dicevano loro, a parte prendere i farmaci per rallentare il processo degenerativo.
Zia Dorothy non prendeva mai le sue pillole. Quando era zio a darle, zia Dorothy faceva finta di prenderle. Le teneva sotto la lingua poi, senza che lo zio la vedesse, le sputava. L’ho vista fare questo un paio di volte.
“Dannazione, Dory! Prendi queste maledette pillole!” si innervosiva zio Redy. Zia Dorothy diceva che sono veleno e che lei non voleva morire avvelenata. Non c’era verso di convincerla a prendere i farmaci per la sua demenza galoppante.
Cominciavo a capire il significato delle lampadine accese nella testa. Se zia Dorothy avesse più lampadine accese non farebbe queste cose insensate e neanche i ragionamenti assurdi.
Quell’estate ho capito che la cosa più difficile era trovare motivazioni per stare insieme.
Guardavo loro, zia Dorothy e zio Redy e pensavo che era più facile lasciarsi che andare avanti così. Pensavo poi che la zia era malata e che zio doveva badare a lei.




2. ZIA DOROTHY

Mi era venuta in mente il divorzio dei miei. Litigavano ogni giorno. Io e mia sorella scappavamo tutte le volte. Ci nascondevamo nella casa sull’albero e siccome non ci venivano a cercare ritornavamo da sole. Durò per un paio di anni la loro guerra poi nostro padre se ne andò. Io rimasi con mia madre. Mia sorella è andata a stare con mio padre. Hanno diviso tutto fino all’ultimo granello di polvere. Anche noi. Volevamo tanto stare insieme, ma loro non capivano questo. Eravamo tra le cose da dividere e l’hanno fatto senza chiederci se lo volevamo o cosa pensavamo.
D’estate mia madre mi lasciava sempre dalla zia Dorothy e dallo zio Redy. Lei andava in vacanza con il suo nuovo compagno. Ero contenta di stare con gli zii. Forse meno contenta da quando si era malata zia Dorothy. Mi dispiaceva tanto vederla così. Volevo fare qualcosa per lei, ma a tredici anni si fa poco di importante per gli altri. Almeno così sentivo dire. Sostenevano tutti che c’è tanto da fare a quell’età.
Zio Redy rimandava tutte le sue faccende per tenere d’occhio zia Dorothy. Un giorno, mi ricordo che era scappata di casa e non si ricordava dove abitava. L’ha riconosciuta il vicino e l’ha accompagnata a casa. Io mi ero impegnata quell’estate a dare una mano a zio Redy, ma lì ci voleva altro. Magari un posto per le persone come lei.
I dottori hanno dato allo zio un tipo di capsule. Lui doveva metterle, di nascosto, nel cibo di zia Dorothy. Lei mangiava poco e lui non sapeva come fare a dare la terapia. “Dory, amore, se tu non mangi, non prendi la terapia, questo significa che non guarirai” diceva zio Redy baciando la fronte di zia Dorothy. Lei accarezzava la fronte del marito e sorrideva”.
A volte zia era normale. Forse in quei momenti aveva tutte le lampadine accese nella testa. Preparava il suo plumcake, puliva la casa. Cantava e stirava. Mi coinvolgeva in tutto “vieni Kate, aiutami!” mi chiedeva di continuo di fare le cose insieme a lei.
Quando lo zio la vedeva così si metteva a ridere con grosse lacrime che non poteva più fermare. “Tesoro mio,” diceva lui e l’abbracciava, la stringeva così forte tra le sue braccia che a momenti la soffocava. Si mettevano a ballare come ai tempi della loro gioventù. Io ero contenta e volevo che durasse per sempre la ripresa di zia, ma un giorno dopo era di nuovo nella sua nebbia.
“Lei la deve coinvolgere nelle cose che amava di più. La memoria conserva dei ricordi lontani. Ci provi, a volte funziona!” dicevano i dottori.
Zio si mise ad aiutare zia come fa un genitore, un uomo che amava la sua donna, un amico.
Zio si impegnava a mantenere un po’ di luce a quelle lampadine che zia Dorothy aveva in testa. Qualche giorno funzionava, altre no. Zia Dorothy aveva un carattere forte, non era semplice farla obbedire. Voleva tutto a modo suo e zio metteva tutta la sua pazienza.




3. ZIA DOROTHY

A lei piaceva stare sulla poltrona a dondolo, sulla veranda, e ricamare. Faceva delle cose meravigliose. Ricamava per ore. Non faceva altra mossa. Tranquilla, serena, muoveva le mani a lettera d’arte. Quell’estate aveva fatto almeno cinque tovaglie. Quei fiorellini azzurri, le farfalle e tutti quei disegni precisi erano le cose compiute da una persona sana. Pensavo che la mente era un mistero. Un pianeta diverso.
Quando non ricamava si impegnava ad essere utile. Si metteva a sistemare i cassetti. Prendeva i calzini di zio Redy, che stavano come dei soldatini in coppia, metteva uno in un cassetto, un altro sotto il letto. Tirava giù le tende dalle finestre e le metteva sul tavolo. “Guarda, adesso c’è il sole. Basta!” diceva lei e diventava nervosa per una cosa che solamente lei sapeva. Mi davo tanto da fare e provavo a mettere tutto come era prima, ma lei mi vedeva e cercava di impedirmi “Lascia, cara, ho sistemato io, vieni Kate, vieni, prendiamo un po’ di limonata sulla veranda” diceva lei. Mi chiamava sempre Kate, chissà a chi pensava, visto che il mio nome era sempre stato Lizzy. A volte chiamava anche zio con il nome che non era suo. “Doc, caro mio Doc” diceva lei e zio diventava triste. Sapeva che pian piano avrebbe perso tutta la sua memoria. “Lì, non possono essere cambiate le lampadine fulminate” mi diceva zio.
Zio mi ha fatto vedere il cd della risonanza magnetica fatta alla testa di zia. La prima immagine era quando stava bene. La seconda quando era malata. Ho capito perché parlava delle lampadine. Lì, nella testa di zia Dorothy era uno spettacolo di luci.
Tuti quei neuroni attivi sembravano delle stelle, comete o piccole lampadine come le chiamava zio. Poi ad un tratto le luci erano di meno. Le stelle cadenti, le comete scomparse, quelle piccole lampadine avevano una esile luce. Povera zia, non era facile perdere tutta quella luce che sta nella testa, che nutre i pensieri e i ricordi!.
“Redy, la devi portare in un posto dove stanno le persone come lei. Non puoi tenerla con te. Metti a rischio la sua sicurezza e dove metti la tua vita, la tua sofferenza?” dicevano i parenti dello zio Redy. “Non potrei mai staccarla da me, dalla sua casa. Con me vicino, restando nel suo ambiente, non è detto, ma una piccola speranza c’è, dico, potrebbe conservare una parte dei ricordi.”
Quell’estate zio portò una signora. Un tipo di badante. Doveva stare tutto il tempo con zia. La signora doveva badare alla zia affinché non si facesse del male. Zia forse lo capì.
Cominciò a fare di tutto per mandare via la signora. Era per la prima volta che mi capitò di vedere la cattiveria di zia. La signora, giustamente se ne andò dopo tre giorni. Un giorno mi ricordo che ho seguito di nascosto la zia. Era uscita, come tante volte, da sola. Non ricordava quasi nulla.




4. ZIA DOROTHY

Si fermava davanti alle vetrine, guardava e parlava da sola.
Voleva ritornare e non si ricordava. Allora mi ero affacciata e l’avevo riaccompagnata a casa. Zio ha fatto un braccialetto. Ha scritto il suo nome, telefono e l’indirizzo. Ha detto a lei che era un regalo di compleanno. La zia Dorothy non credeva. Ha letto quello che era inciso sul braccialetto e poi l’ha tolto. Lo ha buttato di nascosto. Zia Dorothy non usciva più sulla strada. Chissà cosa pensava. Forse per lei era una cosa diversa dal concetto di una strada. Si metteva sulla veranda e ricamava. Canticchiava e raccontava a me di quando era piccola. Mi meravigliavo di sentire tutti quei dettagli di una vita lontana e magari che zia non ricordava il nome del marito. Ma dicono che la malattia della zia era così.
Zio Redy ha lasciato tutto per stare più tempo con la zia. Lei era contenta. Sorrideva sempre quando lo vedeva anche se diceva cose senza senso. Lui baciava la fronte di lei, le parlava di loro due, le metteva le canzoni che amava. Zia continuava a ricamare i suoi fiori azzurri e le sue farfalle. Nel giardino mancavano. Sul vialetto aveva piantato dei tulipani. Erano pochi. Zio si era messo a piantare tutti i tipi di fiori con le sfumature azzurre. Lei guardava e sorrideva.
Accarezzava la fronte del marito e la baciava dicendo “mio piccolo Donald, mio bambino”. Nella sua mente zio era un bambino mai avuto.
Era stata l’estate più triste che io avevo mai vissuto, ma anche più ricca delle cose profonde. Sono diventata matura in una sola estate. Vedevo tutto con occhi diversi, persino la vita dei miei. Zia Dorothy oscillava tra le sue lampadine accese e l’oscurità. Quel giorno stava sulla sua sedia a dondolo, ricamava. Parlava appena e non si capiva cosa voleva dire. Penso che nemmeno lei ci faceva caso. Zio stava vicino e leggeva il giornale. Ogni tanto io lasciavo il mio libro e andavo a prendere da bere. Faceva caldo. L’aranciata piaceva tanto a tutti. Misi la bottiglia in mezzo al tavolo. Guardavo zia. Teneva gli occhi chiusi. Sembrava che stesse facendo il suo pisolino pomeridiano. Zio guardò me poi la zia. Si alzò chiamandola. Lei non apriva gli occhi. Zio la scosse e lei non ebbe nessuna reazione. Si rese conto che zia non respirava più. Zio rimase immobile. Io avevo perso ogni parola.
Le lampadine nella testa di zia Dorothy non funzionavano più. C’era l’oscurità e una specie di silenzio che non smetteva di ronzare.




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