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Lidia Conace

Lidia Conace è nata ad Alba il 7 gennaio 1980. Diplomata Ragioniera, lavora in Banca da sei anni. Sin da bambina, però, la sua vera passione è la lettura. Sui banchi di scuola scopre nella scrittura una certa propensione naturale e un valido ausilio per comunicare senza filtri i suoi pensieri. Per anni ha scritto racconti solo per se stessa, condividendoli unicamente con la sua famiglia e con pochissimi altri. Nel 2006, spinta dal desiderio di avere un giudizio professionale sui suoi lavori, partecipa per la prima volta a un concorso letterario. Non vince niente, ma il suo racconto viene segnalato dalla Giuria. È una piccola soddisfazione personale a cui si aggiunge, l'anno dopo, quello per la qualificazione al quarto posto in un altro concorso. Con "Poco più che un'ombra", opera prima pubblicata da Montedit, Lidia Conace raccoglie quattro racconti uniti dal leitmotiv della solitudine interiore.

Lidia Conace nel mese di marzo 2008 ha pubblicato con Montedit
"Poco più che un'ombra" - Collana Le schegge d'oro (Narrativa) - 12x17 - pp. 38 - Euro 5,00
- ISBN 978-88-6037-5223

Cioccolata con panna
 
 
"Una cioccolata con panna, grazie!"
"Due."
 
Ci ritroviamo a parlare sempre quando ne avremmo meno voglia.
Ci ritroviamo a parlare sempre nei bar e, quasi per una legge di natura, sempre nei bar più squallidi, di quelli con le pareti verdine, i liquori mignon sulle casse e il solito cliente catarroso attaccato ad una macchinetta mangiasoldi.
Ci ritroviamo a parlare proprio quando desidereremmo essere altrove, impegnati in altre mille attività più noiose, pur di non essere costretti a rivelare qualcosa di noi.
 
"Le vostre cioccolate!"
 
E il gesto automatico di strappare la bustina di zucchero, senza pensare di assaggiare prima, come se invece nella vita reale mettessimo sempre un piede davanti all‚altro, invece di buttarci sempre a capofitto nelle situazioni, come sempre e comunque faremo, nonostante le cantonate che dovrebbero servirci. "Ah, quelle vedrai che ti aiuteranno a crescere". E invece, eccoci ancora qui, a vivere situazioni che in fondo abbiamo già vissuto.
 
"Scusate, le cioccolate sono già zuccherate. Vi consiglio di assaggiarle prima o saranno imbevibili".
 
E mi chiedo cosa serva allora quella bustina che ho già strappato. Cosa serva essere qui seduta di fronte a lui, che so già che non dirà le cose che vorrei sentire.
 
Un sms per spiegarsi, una peugeot 106 che aspetta paziente sotto il mio palazzo. Ore 12:30, perché chi vuole parlare non ha quasi mai fame. Poi, appena udibile, il rombo di motore di una peugeot 106 che riparte. E al terzo piano io, ad aspettare con le scarpe indosso, in attesa di quella macchina che invece è già ripartita.
 
Io ti sto aspettando, comunque. Quello ad essere ripartito sei tu, senza uno squillo, senza un suono ad un citofono, neppure un banale suono di clacson. Sei ripartito, lasciandomi ad aspettare, con le scarpe indosso e le gambe impazienti pronte a scendere a rotta di collo giù per le scale. Sei ripartito, per un motivo che non dirai mai.
 
E ora siamo qui. Un appuntamento di ripiego alle 18. Due cioccolate calde, con la panna quasi sciolta. Non sei bello, non hai lo sguardo che brilla, solo due occhi scuri che non sanno guardare oltre le cose più ovvie. Non vesti con gusto, non sei brillante. E io dovrei stare qui, seduta, e dovrei aver voglia di parlare, perché lo hai deciso tu, perché vuoi spiegare cose che mi rifiuto di capire. Cose che non voglio sentire. Di fronte a me, tu. Tu mi guardi di sbieco e sorridi. Sorridi nervoso, perché sai che mi basta uno sguardo e ti ho già letto dentro. E la cosa non ti piace. Non piace a nessuno nascondersi sotto un lenzuolo trasparente. Chiudere i propri segreti a chiave in una stanza e poi scoprire che qualcuno vi ha frugato dentro. Mi guardi e forse ti chiedi quale pagina del tuo io sto leggendo adesso. Non sai che ti basterebbe girarti da un‚altra parte, con una scusa uscire fuori e tornare a casa, nasconderti. Ma resti lì, ti attira capire come ci riesco. Chiederti se bluffo o se tiro a indovinare e poi ci prendo sempre.
Basta che tu esca. Ma non lo fai. Fermo immobile sulla tua sedia di plastica, una tazza di cioccolata tra le mani, a ingannare gli spazi tra una pausa e l‚altra. Perché dovrei essere io a parlare? So già quello che vorrei dire e so che non ti piacerebbe.
Stavolta resto io immobile, ma sui miei pensieri, pensieri che di certo non apprezzeresti se sapessi indovinare. Io non ti sento. Ti sono amica, ma non ti sento. E la cosa non mi piace. Ti guardo e non sono capace di leggerti dentro, come tu pensi che io stia facendo. Ho intravisto qualcosa di grande, dentro, ma tu ti ostini a tenere tutto sotto chiave. E sono arrabbiata con te, perché non mi dirai mai dove la nascondi. Non un solo aiuto da te. Sono arrabbiata perché ti fai bastare persone che ti guarderanno in volto e si accontenteranno di credere che tu sia così come loro ti vedono. Nessuno mai ha provato ad andare oltre il primo strato di pelle, ma ti va bene così e non lo capisco. Ci si nasconde anche per capire chi è disposto a trovarti. E tu non vuoi questo? Ti fa ridere l‚imbarazzo di sapere che ci sto provando e forse ci riuscirò e ti fa ridere sapere che forse mi arrenderò all‚evidenza, che tu non vuoi che io guardi dentro di te. Appropriazione indebita, saresti capace di dire.
 
E ora le cioccolate sono ancora mezze vuote. Dà sicurezza sapere che ci sarà ancora qualcosa da bere quando la tensione si farà alta e ancora una volta nessuno dei due saprà cosa dire.
 
Mi arrendo io per prima. Un sorso, un getto ancora tiepido nella pancia, scaldare le emozioni fredde che viaggiano dentro, mentre ascolto parole in cui non credo.
 
Guarda. Un giallo piccolo di Labrador ciccione scodinzola felice, precipitoso, verso una donna che non conosce al tavolino di fronte, istinto di cucciolo giocoso proteso verso qualcuno che lo accarezzerà e vezzeggerà, giusto la voglia di sentire mani diverse da quelle all‚estremità del suo guinzaglio che lo strapazzino di amore. Lo guardo rapita. E‚ come un bimbo, indifeso e ancora puro. Ma gli animali rimangono sempre puri, anche una volta cresciuti. Tu no, tu non guardi neppure.
 
Non ti piacciono gli animali. Un altro punto fermo alla mia incapacità di capire chi sei. Impreparazione totale alla comprensione. Mi allontana da te.
 
Sempre più buio fuori. Sempre più scuri i tuoi occhi. Non sento quasi quello che dici. Non accetto sentirti così lontano.
 
Eppure la prima volta che ti ho incontrato in quell‚ufficio, mentre scendevo di corsa le scale, mi hai salutato con quello slancio di chi è vivacemente proteso verso la vita. E dopo uno spazio di qualche settimana in cui sono rimasta brevemente sospesa su quel filo del „mi cercherà oppure no‰ è stato piacevole conversare con te, placidamente, senza alcuna fretta, perché tu non salti mai le tappe e ti accompagna sempre un velo di paura, in ogni gesto o breve frase si avverte sempre la tensione, quell‚angosciosa domanda che ti poni, se questa volta rivelare qualcosa di te oppure no. Ti concedi poco, senza slanci, senza emozioni vissute con rapidità. Ti piace parlare, ma a frasi brevi o lasciate a metà.
 
E tu, un altro sorso, un altro sguardo, un altro rapido silenzio. Un sorso, un altro ancora, adesso la voglia forse di finirla con questa stupida forzatura di quella che dovrebbe essere una conversazione tra noi. Tu cosa pensi? Ti dà fastidio la mia invadenza, la caparbietà di sfondare la tua scatola del pensiero? Vedere cosa c‚è dentro.
 
Tu non ti fidi di me. Anche se dici di no. Tu non ti sai fidare, non ti va, non ti piace affidarti anche solo per qualche ora ad un amico. Non mi lasci far scivolare la mano su quel vetro appannato, per guardare dentro, come in una vecchia casa abbandonata lasciata a se stessa, ma ancora piena degli oggetti di chi l‚ha abitata.
E ora della nostra amicizia rimangono solo spazi vuoti. Rimangono le cose di cui si fa a meno, chilometri macinati sulle strade, serate sprecate nelle pizzerie vocianti di gente e frastuoni, a rimpiangere le intimità di conversazioni vissute in auto, tra paesaggi quasi liquidi intravisti tra un‚occhiata timida e uno sguardo distratto al finestrino.
Mi piace guardare le luci della strada, le ombre proiettate dai lampioni sul cemento. Mi affascinano le finestre senza luce. Chissà se un volto si nasconde, un volto che ti guarda. Ci penso e tremo.
 
E tu, pensi mai alle cose che non potrai mai sapere? Alle vite che non sarai mai in grado di sfiorare? Mi guardi, ma hai già lo sguardo perso. Una rapida occhiata alla tua tazza. Col cucchiaino recuperi una goccia di cioccolata sfuggita alle tue labbra. E guardi fuori. Ormai lontano, ormai fuori dal discorso inesistente. Non servono poi tante parole questa sera.

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Agg. 18-09-2008