Racconto premiato di Leila Gambaruto


Con questo racconto è risultata 5^ classificata – Sezione narrativa alla XVIII Edizione del Premio Letterario Internazionale Marguerite Yourcenar 2010


«Il figlio dell’angelo»

Si chiamava Giovan Battista, ma gli altri barboni lo avevano soprannominato “Dolcetto”, un po’ perchè amava rievocare instancabilmente i tempi della sua giovinezza, quando andava a vendemmiare sulle colline di Alba ed un po’ per via di una certa svagata dolcezza che annebbiava l’azzurro diluito dei suoi occhi di vecchio bambino, bizzarri occhi sognanti e stupiti in quella sua faccetta sciupata di cinquantenne duramente strapazzato dall’esistenza.
A dire la verità, Dolcetto non era proprio senza fissa dimora, i servizi sociali gli avevano assegnato una stanzetta nel cortile di un austero palazzo, che un tempo era stato signorile.
L’uomo divideva il locale disadorno con altri due emarginati: il Visconte e il Balengo, ma la sua vera dimora era la piazzetta sottostante, con i vecchi ippocastani, la fontanella di ghisa e gli scampoli di prato, un po’ a chiazze.
In qualsiasi stagione, Dolcetto si piazzava nel suo solito angolino, guardava passare la gente e si dedicava alla sua occupazione preferita: collezionava sorrisi.
I suoi amici, che raccoglievano stracci e giornali vecchi, non lo capivano proprio.
“Dolcetto, che te ne fai dei sorrisi?” gli chiedevano spesso, con commiserazione “Non si mangiano e non si bevono.”
Lui s’arrabbiava. “Voi non capite un cavolo!” rispondeva, tutto seccato “I sorrisi sono importanti. A che serve esistere, se poi gli altri non si accorgono di te e ti sfiorano senza nemmeno vederti, come se fossi un’ombra sul muro? Ma se la gente mi vede e mi sorride, allora vuol dire che io valgo ancora qualcosa, che sono un uomo. Vuol dire che sono vivo. Per questo raccolgo tanti sorrisi e li metto da parte.” Si batteva il petto. “Sono tutti qui, tutti! Bene immagazzinati dentro il cuore. Mi fanno coraggio, quando non ce la faccio più a tirare avanti. Voi vi riscaldate con il vino, io mi riscaldo con i sorrisi.”
“Ma va là, matto! Offrici da bere, piuttosto!” sghignazzavano gli altri barboni “Cosa c’è di meglio di una buona bottiglia per riscaldare il cuore? Guarda che per noi va bene tutto, bianco o rosso, basta che paghi tu. E se vuoi dei sorrisi in cambio, te ne diamo a palate, tutti freschi, freschi, belli da collezione.”
E spalancavano speranzosi delle bocche assetate, più o meno sguarnite, ma Dolcetto non si lasciava convincere. “Non voglio i vostri sorrisi, sono monete false!” ribatteva indignato “Voi cercate d’imbobinarmi per scroccarmi la bottiglia. Delinquenti!” e se ne andava col suo passo malfermo di storpio.
Occorreva fare molta attenzione ai sorrisi finti.
Collezionare sorrisi non era facile come poteva sembrare ed il povero Dolcetto lo aveva già constatato a sue spese, parecchie volte.
Quando accostava i passanti e, anzichè l’elemosina, chiedeva un sorriso, spesso rimediava battute oscene o pesanti sarcasmi.
Due giovinastri lo avevano anche malmenato, pensando che volesse sfotterli, una vecchietta gli aveva aizzato contro il cane, scambiandolo per uno scostumato dongiovanni, due spacciatori magrebini s’erano informati, attentissimi, sulle caratteristiche di quella nuova droga che non avevano ancora sentito nominare (Erba-sorriso da fumare? Polvere? Pasticche sintetiche?) e gli avevano assicurato di potergliela procurare senza difficoltà. Però costava un po’ cara? Poteva permetterselo?
Dolcetto non si limitava a collezionare sorrisi, temendo di scordarsi l’ammontare complessivo del suo tesoro, teneva da anni una sua bizzarra e complicata contabilità, registrando le sue entrate sulle pagine a quadretti di un malandato quaderno scolastico. Tre sorrisi femminili…due sorrisi maschili…sorrisi di giovani e di vecchi, di prima e di seconda scelta, tutti scrupolosamente suddivisi ed incolonnati con la grafia un po’ incerta di chi non ha molta dimestichezza con la scrittura.
A volte sedeva in disparte, impugnava una matita rossa tutta mangiucchiata e scriveva, scriveva, attento e concentrato. Annotava, correggeva, cancellava e ricominciava da capo, calcolando e ricalcolando il suo capitale di sorrisi, che aumentava con il tempo. Era quella la sua ricchezza.
Dolcetto si portava sempre appresso il quadernetto sporco e raffazzonato, insieme ad un vecchio medaglione, che teneva appeso al collo, legato ad un pezzo di spago.
Il medaglione aveva suscitato la curiosità del Visconte e del Balengo: raffigurava un bellissimo angelo biondo, tutto vestito di bianco, con le grandi ali spiegate, su uno sfondo azzurro intenso. L’angelo doveva tenere qualcosa tra le mani, forse un giglio o un libro di preghiere, ma col tempo lo smalto s’era scrostato, lasciando solo una chiazza grigiastra. Era partita anche la scritta che correva in tondo sul bordo del medaglione, si distingueva solo una parola “….dell’angelo…”
Dolcetto aveva spiegato che quel medaglione era appartenuto a sua madre, ma non aveva voluto dire di più.
In un altro tempo, in un’altra vita, Dolcetto era stato un bimbo malaticcio, solo con sua madre, Carlina, che si ammazzava di fatica con tanti piccoli lavoretti mal pagati, per non fargli mancare il necessario.
“Mamma, dov’è il mio papà?” chiedeva il piccolo Giovan Battista. Carlina sorrideva vagamente, ma era un sorriso finto. “Il tuo papà era un angelo, un angelo bellissimo” gli rispondeva con occhi sognanti “Aveva le ali così grandi….è volato via.”
Il bambino taceva, sorpreso e disorientato. Certo, era molto lusinghiero avere un papà-angelo che volava alto sopra i tristi casermoni delle case popolari, ma in fondo in fondo, anche se non lo diceva, lui avrebbe preferito avere un genitore più comune, come gli altri papà dei suoi compagni, che non volavano, ma tornavano a casa per cena e giocavano con i figli.
Non era divertente essere il figlio dell’angelo, lui si sentiva emarginato: portava il cognome della mamma.
Lei gli aveva assicurato che il papà-angelo non li aveva dimenticati e sarebbe tornato da loro, ma quando?
Spesso il piccolo Giovan Battista alzava gli occhi al cielo, cercando di cogliere tra il misterioso spumeggiare delle nuvole portate dal vento, il fugace palpitare di due grandi ali bianche e, anche se non riusciva a vedere niente, ad ogni buon conto alzava la manina, per salutare quel distratto papà-angelo, che forse stava passando di lì, frullando alto proprio sopra il suo capo.
Spesso di sera, quando sua madre s’addormentava esausta, Giovan Battista si alzava, tutto furtivo, ed andava a dischiudere la finestra del bagno, giusto due dita, pensando nella sua testa di bimbo che se il padre fosse sceso dal cielo per venire a trovarlo, era necessario fargli trovare la finestra aperta, altrimenti, trovando tutto chiuso, se ne sarebbe volato via.
Insonne, con le orecchie tese, lui restava ad ascoltare i rumori che salivano dal cortile, cercando d’individuare tra le discordanti banalità dei suoni notturni, il fruscio rivelatore di due grosse ali, preannuncianti l’arrivo di quel papà-angelo che non si faceva mai vedere.
Ma gli anni erano passati ed il piccolo Giovan Battista aveva dovuto accettare l’amara realtà: lui era il figlio di un mascalzone che aveva ingannato sua madre e se n’era andato. Il suo papà-angelo aveva ali di pipistrello.
Malgrado l’affetto della madre, era cresciuto amaro ed insicuro, trascurando la scuola, frequentando compagnie discutibili, vivendo di espedienti, perchè non riusciva a tenersi un posto decente.
Quando sua madre era morta, Giovan Battista era partito con il suo medaglione appeso al collo, lasciando qualche debito in giro, ed aveva vissuto lavorando come bracciante stagionale, un po’ qui, un po’ là, senza mai riuscire ad installare rapporti durevoli, nè professionali, nè sentimentali.
Eppure non mancava di un certo fascino ed aveva conosciuto la dolcezza di giovani donne che avrebbero potuto amarlo e consolare la sua solitudine, ma paradossalmente, lui aveva respinto, impaurito, i sentimenti di quelle che lo cercavano ed aveva collezionato brucianti umiliazioni mirando troppo in alto e cercando invano l’amore di donne sbagliate.
Poi c’era stato quel terribile incidente: un’auto l’aveva travolto dopo una curva, mentre camminava sul ciglio della strada ed era fuggita senza soccorrerlo. S’era salvato, ma era rimasto storpio per la vita.
Con l’aiuto dei servizi sociali, Giovan Battista era ritornato a vivere nella sua città natale, in un altro quartiere, dove nessuno lo conosceva. Era diventato “Dolcetto” ed aveva incominciato a collezionare sorrisi.
Tra i barboni della piazzetta c’era un vecchio che tutti chiamavano “Sahara” con timore reverenziale.
Doveva essere sull’ottantina, ma era robusto, bruciato dal sole e duro come una roccia. Non sorrideva mai, se ne stava per conto suo e beveva alcolici forti, ma aveva la sbronza cupa e silenziosa. Ogni tanto spariva, poi ritornava senza dare spiegazioni e si installava nel suo solito angolo.
Su di lui circolavano dicerie e leggende che gli altri barboni commentavano sottovoce, facendo finta di non vederlo: quell’uomo s’era bevuta l’intera azienda vinicola dello suocero ed era scappato in Africa, lasciando moglie e figli…..si era dedicato al traffico d’armi ed era saltato in aria su una mina, mentre trasportava un carico d’oro. S’era salvato per miracolo, ma a vederlo nudo faceva impressione, perchè era tutto una cicatrice….un avventuriero ed un mercenario assassino….la moglie ed i figli lo avevano rinnegato…disprezzava la società e viveva come un barbone, ma si mormorava che fosse ricchissimo……era solo ed alcolizzato.
A parte la solitudine, non c’era proprio nulla che accomunasse il granitico Sahara al fragile Dolcetto, eppure, curiosamente, tra i due emarginati venne ad installarsi un rapporto di simpatia.
Per la prima volta, Dolcetto ebbe la rassicurante sensazione d’essere ascoltato e compreso, Non era più un’ombra sul muro, aveva un amico e poteva confidarsi con lui, parlando liberamente.
Dolcetto aveva mostrato a Sahara il medaglione che portava al collo, rievocando il padre-angelo, la figura della madre ed i tempi duri della sua infanzia. Sahara, dal canto suo, gli aveva parlato con amarezza della moglie morta e dei suoi figli cresciuti agiatamente con i nonni, che non gli avevano mai perdonato la fuga in Africa e dopo tutti quegli anni gli avevano duramente chiuso la porta in faccia, quando lui era tornato da loro, pentito e devastato nel corpo e nello spirito, per chiedere perdono.
Spesso Sahara e Dolcetto si dividevano i pasti frugali: un mezzo pollo arrosto, pane e formaggio, due bicchieri di vino rosso che sapeva di aceto. Dolcetto offriva i bocconi migliori al suo amico ed invariabilmente gli chiedeva tutto speranzoso un bel sorriso da aggiungere alla sua collezione. Ci teneva molto, perchè diceva che i sorrisi dei veri amici erano i più preziosi, essendo molto rari, ma più insisteva, più Sahara diventava cupo e scontroso, rispondendo invariabilmente di no, perchè lui non aveva più sorrisi da offrire agli altri. Aveva solo delle pene, anche troppe, ma quelle non le voleva nessuno.
“Però uno di questi giorni io ti farò un bel regalo” diceva a Dolcetto “Sarà una grossa sorpresa, qualcosa che non ti aspetti.”
“Che sorpresa?” chiedeva Dolcetto, tutto incuriosito.
“Se te lo dico non è più una sorpresa” rispondeva Sahara “Aspetta e vedrai.”
I giorni scorrevano lenti, uno dopo l’altro e Sahara incominciò a non stare bene. Aveva dei malori improvvisi, i suoi movimenti si facevano sempre più lenti ed affaticati.
“Non arriverò a Pasqua” diceva a Dolcetto, respirando affannosamente “Ma non ho dimenticato la mia promessa…..la sorpresa…..vedrai…..”
“Sahara, non parlare così!” gridava Dolcetto, disperato “Tu non devi morire, sei il mio unico amico! Che cosa ne sarà di me? Non lasciarmi, Sahara, non lasciarmi!”
Ma la vita, a volte, si diverte a giocare scherzi bizzarri e crudeli. Un mutevole mattino di marzo, mentre la fioritura solare delle forsizie esplodeva come un inno alla gioia nei giardini, Sahara andò a cercare il suo amico, che riposava nel solito angolo.
“Dolcetto, vieni via” gli disse, toccandogli una spalla “Sta per piovere, andiamo a ripararci.” Poichè l’altro non rispondeva, lo scosse più forte.
Solo quando Dolcetto scivolò di lato e cadde mollemente come un fagotto di stracci, Sahara realizzò, fissando incredulo quella faccetta immobile color del gesso, che il suo amico era morto.
Allora, tra la sorpresa di tutti, scoppiò a piangere come un bambino e lo prese tra le braccia, chiamandolo per nome e chiedendogli perdono.
Facce sbalordite e costernate osservavano la scena. Tutti avevano considerato Sahara come un uomo duro ed arido, uno che non piangeva mai. Ma che cosa ne sapevano di lui?
Quante volte era stato sul punto di parlare con Giovan Battista, ma vigliaccamente non aveva mai trovato il coraggio.
Avrebbe voluto dirgli che il medaglione con l’angelo era soltanto il pezzo di un portachiavi, una trovata pubblicitaria giocata sul cognome di suo suocero, Marco Dell’Angelo. L’angelo teneva in mano un calice di vino e c’era l’indirizzo dell’azienda vinicola.
Era stato proprio lui a dare il portachiavi a Carlina, sua madre, insieme alla chiave della rimessa, dove s’incontravano di nascosto per fare l’amore.
Carlina era così giovane ed ingenua. L’angelo del portachiavi l’affascinava. “Rassomiglia a te” gli diceva, abbracciandolo con passione “Sei così bello! Sei il mio angelo! Ti amo da morire.”
Ma lui non era innamorato, voleva solo divertirsi ed odiava le responsabilità. Inoltre aveva un sacco di problemi con l’azienda che andava male, le liti continue con la moglie e gli suoceri, i figli……
Quando Carlina gli aveva confessato d’essere incinta, non aveva nemmeno voluto ascoltarla, era volato via, fuggendo lontano da tutti, verso l’Africa……
Perchè Giovan Battista se n’era andato così, in silenzio, senza lasciargli il tempo di dirgli, semplicemente “Io sono tuo padre.”? Perchè proprio lui, che in Africa se ne rideva della morte, aveva avuto paura di parlare con Dolcetto, di confessare a suo figlio le sue debolezze ed i suoi errori, affrontando il suo dolore per essere stato rifiutato ingiustamente e chiedendogli finalmente perdono, mentre lo stringeva tra le braccia?
I suoi tranquilli e benestanti figli legittimi non avevano saputo cancellare il passato e gli avevano chiuso per sempre la porta in faccia, mentre il figlio illegittimo, vissuto nella miseria, storpio e con la mente disturbata, gli aveva offerto spontaneamente il calore del suo affetto, ascoltando i suoi problemi e dividendo con lui i suoi magri pasti, senza nemmeno sapere chi fosse.
Oh crudele ironia di un destino egoista e vigliacco come lui! Quanta gioia, quanto affetto avrebbe potuto ancora offrire e quel povero figlio ritrovato in piazza! Sarebbero bastate quattro parole.
Ma Dolcetto gli aveva schiesto soltanto un sorriso, il sorriso di un amico per sentirsi ancora un uomo. E lui non era stato capace di donargli neppure quello!

Leila Gambaruto


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