Maistefureb, dieci volte

di

Lauro Zuffolini


Lauro Zuffolini - Maistefureb, dieci volte
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 132 - Euro 11,50
ISBN 978-88-6587-7128

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In copertina «Alter ego» fotografia dell’autore


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2016


Prefazione

Il romanzo di Lauro Zuffolini rappresenta il resoconto di un viaggio esistenziale, autentico e sofferto, fino all’insperata rinascita quando tutto sembrerà ormai perduto.
La coinvolgente narrazione trasporta nella vita di un uomo, che diventa una figura simbolica, esempio lampante delle contraddizioni della vita e del ruolo dominante del destino nella vita di tutti noi.
La trama narrativa che, a prima vista, può apparire una sorta di gioco romanzesco, si rivela al contrario un complesso e pregnante racconto esistenziale che penetra numerosi aspetti dell’animo del protagonista, delle relazioni sentimentali, della vita matrimoniale, delle riflessioni sul proprio agire e della necessità vitale di condividere la propria esistenza con una persona che offre il suo amore sincero.
Tutto questo malstrom, vortice dell’umano vivere e tempesta sentimentale, è reso da Lauro Zuffolini con una forza affabulatoria che non conosce sosta e l’atmosfera risulta sempre alimentata da effervescente scrittura.
La storia raccontata diventa un percorso umano, cosparso di numerose problematiche del consueto vivere, di quotidiani affanni per sopravvivere e dell’agognata ricerca dell’amore autentico, che emergerà prepotentemente nella parte finale del romanzo, offrendo la giusta chiave di lettura dell’intera trama.
Il dominus della storia si chiama Michele Maistefureb e, come premurosamente mi avvisa Lauro Zuffolini, il cognome del protagonista del suo romanzo, è un’espressione carpigiana che significa “mai stato furbo”.
Lui è un trentenne “incastrato” in una vita piena di problemi, oltre al fatto che, per mantenere la promessa fatta a sua madre, si trova a dover fare il detective e pedinare suo padre che se la spassa con l’amante: in quel periodo della vita, lui decide che “vuole essere migliore di suo padre”.
Dopo un matrimonio fallito alle spalle, la sua esistenza è alquanto difficile ed è totalmente assorbito dagli impegni di lavoro nella sua azienda, “Dettagli Moda”, di Carpi, perché deve mantenere i due figli, l’ex moglie oltre a dover pagare l’affitto della nuova casa.
Poco tempo dopo la separazione decide di rivolgersi persino ad un’agenzia matrimoniale per conoscere alcune ragazze, ma senza risultati positivi perché lui cerca l’amore vero, la donna della sua vita.
Michele Maistefureb sprofonda nella depressione quando la sua azienda cessa l’attività a causa della profonda crisi e si ritrova disoccupato a vivere in un monolocale: la sua vita da cinquantenne diventa un pesante fardello oltre a dover far fronte a gravi problemi economici.
Nelle pagine che si riferiscono a questo periodo si avverte l’estrema attenzione di Lauro Zuffolini nell’offrire fedele immagine della condizione precaria d’un uomo che vive un profondo dissidio seppur accompagnato dalla speranza di ritrovare se stesso e raggiungere, infine, il porto sicuro dell’amore.
Quando viene assunto in comune con un lavoro a tempo determinato, grazie ad un compagno di liceo, riceve la foto d’una compagna di classe e, casualmente, rivede Maria, donna sempre bella ed attraente.
È il punto di svolta e, finalmente, trova l’amore della sua vita ed è felice. Lei entra nella sua vita come un uragano positivo, con la sua energia ed il suo “sorriso radioso”: e lui si abbandona alla storia d’amore che lo avvolge con il suo calore.
Il tormentato percorso del protagonista viene scandagliato da Lauro Zuffolini fin nelle minime percezioni e nelle fugaci rivisitazioni interiori come ad alimentare la figura di un uomo “mai stato furbo”: dopo il fallimento del matrimonio, decenni di faticoso e solitario cammino nel deserto esistenziale cercando l’amore come unico atto salvifico, confessa all’amata Maria di “aver voluto essere migliore e offrire tutto l’amore che poteva”.
Lauro Zuffolini dimostra di possedere grande capacità nel raccontare la sua storia e la scrittura è fluida, sempre attenta a penetrare gli stati d’animo che si susseguono, ad esaltare il flusso continuo degli eventi, le vicende esistenziali e le relazioni sentimentali, costantemente illuminate da profonde riflessioni ed addolcite da recuperi memoriali.
Un’autentica vertigine letteraria che si nutre della linfa creativa di Lauro Zuffolini, sempre desideroso di attingere alla fonte dell’ispirazione, come degno alchimista d’un gioco alterno tra mondo reale e dimensione sognante, quasi a decretare un lento abbandono alla voglia di scrivere.

Massimo Barile


Maistefureb, dieci volte


Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono immaginari. Qualsiasi rassomiglianza o riferimento con persone, cose, fatti o località realmente esistenti o esistiti, è puramente casuale.

Scrivere
spesso è la sola cosa
tra te e l’impossibilità
chi scrive
ride di se stesso
e del dolore
è l’ultima speranza
l’ultima spiegazione

Charles Bukowski


1. IL PEDINAMENTO

Squillò il telefono di casa.
Michele era stravaccato sul divano del soggiorno di casa sua, dopo una cena consumata con soddisfazione insieme alla sua famigliola. Era terminata una giornata di lavoro come sempre estenuante nella sua piccola ditta di accessori per abbigliamento. La televisione era accesa ma lui non seguiva affatto il programma, anche se ce l’aveva proprio davanti agli occhi.
Si alzò pigramente per rispondere e la voce di sua madre lanciò l’appello.
“Vieni Michele, tuo padre si sta preparando per uscire proprio adesso!”
Tanti saluti al riposo che già pregustava. Lui non teneva mai conto che la vita faceva quello che voleva dei suoi progetti. Ma aveva fatto una promessa a sua madre e non poteva tirarsi indietro. Quella promessa.
Salutò sbrigativamente la moglie, che era al corrente di tutto quello che lo riguardava e aveva già capito quello che stava succedendo.
“È arrivata la chiamata…” le disse.
Michele sollevò da terra la piccola Laura, tre anni, le stampò un tenero bacione sulla guancia tonda, gridò da lontano un maschio “ciao bomber!” al suo primogenito Lorenzo, cinque anni, chiuse la porta alle sue spalle e si precipitò giù dalle scale senza attendere l’ascensore. Che quando aveva fretta non si trovava mai al posto giusto. Si trattava solo di due piani e non voleva perdere neanche un secondo per non compromettere l’intera operazione.
Il primo pensiero che gli svolazzava per la testa come un pipistrello cieco era ma chi me lo fa fare? accompagnato da chi sono io? Il tenente Colombo? Tom Ponzi? Invece era solamente Michele Maistefureb, un trentenne incastrato in una vita farcita di ogni tipo di problema, che di tutto aveva bisogno meno che di immergersi in una storia che non poteva capire né giudicare. Sebbene fosse quella dei suoi genitori.

Salito sulla sua auto, quella sera ben parcheggiata nello spazio davanti al condominio, privilegio di cui raramente godeva e a cui dovette subito rinunciare, inserì la chiave e avviò il motore con una certa frenesia. Ma aveva i suoi fondati motivi. Se non fosse arrivato in tempo ad agganciare visivamente la Bmw di suo padre, tutto sarebbe andato all’aria.
Il pedinamento.
I libri e i film gialli erano la sua passione e in questo consisteva l’unico appiglio del suo istinto con quello che stava facendo quella sera di autunno inoltrato. Cominciando da Sherlock Holmes e proseguendo con Maigret, Perry Mason, Philo Vance e Nero Wolfe, i libri di quei personaggi costituivano una buona parte del suo patrimonio letterario. E lo appassionavano non poco gli episodi televisivi del tenente Colombo che aveva rivisto più volte. Sul piano teorico almeno si riteneva preparatissimo e pensava che un pedinamento per lui sarebbe stato un gioco da ragazzi.
All’imbocco di viale Buozzi scorse da lontano l’auto di suo padre ferma con il motore acceso e la sagoma dalla testa canuta di lui che abbassava la saracinesca basculante del garage. Rallentò e dovette accostare per non finirgli davanti. Rimase così a una giusta distanza. Ed ecco che la vide partire. Prese la direzione di Modena.
Ma in pratica, Michele sarebbe poi stato capace di portare a termine l’impresa? Già non era affatto convinto che avesse senso o utilità alcuna ciò che stava facendo. Se non ce l’avesse fatta, si sarebbe trattato di una sera buttata via in modo oltretutto ridicolo.
Suo padre viaggiava come al solito a bassa velocità di crociera, da automobilista della domenica come era sempre stato. Questo forniva in partenza molte probabilità all’utilitaria di Michele di non farsi seminare. Così permise abbastanza tranquillamente che tra la Bmw e la sua Fiat si infilassero anche due o tre macchine estranee, purché gli rimanesse la visuale aperta sul suo oggetto. Dopo i primi chilometri, nonostante la statale Carpi-Modena fosse come sempre molto trafficata, constatò che anche quella sera suo padre non si comportava come un pilota da gran premio. Si sentì tranquillo sull’esito positivo del pedinamento, almeno per quanto riguardava il non mollare la presa.
Sua madre gli chiese esplicitamente di seguire suo padre. Qualche giorno prima era passato a farle visita, dovendo sbrigare una faccenda in centro città, dove lei abitava. Aveva bisogno del calzolaio, una sorta di specie artigiana in via di estinzione che ormai si poteva rinvenire solo nei centri storici antichi delle città. Lui non buttava mai le sue scarpe finché poteva tenerci i piedi dentro. Erano passati alcuni mesi dall’ultima volta che si era fatto vivo da lei. E non si sentivano neanche spesso per telefono. Suo padre era più premuroso e lo chiamava per sapere come gli andavano le cose sul lavoro e in famiglia. La casa era rimasta quella della sua infanzia, e lui non sentiva in verità alcuna nostalgia nel ritornarvi.
Dopo aver suonato alla porta, si girò ad osservare il grande portone in legno della casa di fronte. Era rimasto tale e quale si presentava quando lui era bambino. Quando il lattoniere che lavorava là dentro smetteva la sera e chiudeva tutto, diventava improvvisamente il bersaglio di mille pallonate, perché si trasformava nella porta di un campo di calcio per Michele e i suoi amici di strada, che si contentavano dell’asfalto al posto di una soffice erbetta difficile da reperire. Eh sì, passavano di lì poche automobili in quegli anni…
“Ti devo chiedere una cosa”.
Esordì sua madre con un tono insolitamente perentorio e un’espressione turbata. E dopo aver concluso quella breve frase scoppiò in lacrime. Un comportamento ai suoi occhi più unico che raro, per lei, che sembrava sempre impassibile di fronte a qualsiasi evento della vita quotidiana. Michele rimase di sasso.
“Non ce la faccio più… tuo padre esagera stavolta… esce spesso la sera… non dice dove va… ho la sensazione che spenda molti soldi… lo so che ha un’altra… ma non deve esagerare così… non mi deve trattare così!” E giù un altro scroscio di pianto.
“Voglio che tu lo sappia… devi dirgli qualcosa… sèguilo una sera… vedrai che non m’invento nulla… voglio che tu lo segua…”
Michele non sapeva cosa dire o come fare a consolarla. Davanti ai suoi occhi la sofferenza della madre che gli si riversava addosso. Lui come poteva infilarsi nella vita di coppia dei suoi genitori? A quale titolo? Che ne poteva sapere dei loro problemi coniugali? Ma vedere sua madre stare così male, gli strappò la decisione di assecondare il suo desiderio, espresso con una richiesta precisa.

Ed eccolo lì, lungo quel tratto di strada di 16 km che separava la sua città dal capoluogo, che aveva percorso tante volte in vita sua, ma mai di certo in una circostanza simile. E se suo padre si fosse accorto di averlo alle spalle? Avrebbe potuto giustificarsi dicendo che si recava a Modena alla redazione della rivista con la quale collaborava. Aveva ancora velleità di fare il giornalista da grande. Si chiedeva anche che uso avrebbe poi fatto della scoperta che lo attendeva. Comunque, cercò di fissarsi su un pensiero alla volta, anzi era meglio che non pensasse troppo, altrimenti rischiava di perdere di vista il pedinato o di sbagliare strada. Michele era uno che quando pensava si concentrava al punto da non vedere quello che gli stava davanti.
Al semaforo di Lesignana la fila delle auto aumentò di lunghezza, ma gli riusciva ancora di intravedere la Bmw nera del padre. La parte più complessa del tragitto iniziava con l’ingresso in Modena e la circolazione in città, tra semafori, sensi unici e traffico intenso. E poi doveva fare attenzione e accorgersi in tempo quando la Bmw si fosse fermata, per non trovarsi troppo vicino ed essere riconosciuto o troppo lontano e non vederla più. Al semaforo di viale Tassoni solo una macchina li divideva. A questo punto occorreva la massima prontezza di riflessi, perché esisteva una ragnatela di vie laterali sia a destra che a sinistra e la Bmw poteva svoltare all’improvviso. Per di più il viale era disseminato di semafori ed era necessario evitare che un rosso potesse bloccargli la strada comparendo improvvisamente subito dopo il passaggio di suo padre.
Ed ecco che quel macchinone sprecato nelle mani insicure di quel modesto pilota sterzò prima a sinistra poi subito a destra. Michele cominciò a sentirsi in affanno. Ora si procedeva lentamente, sui 30 all’ora e Michele rallentò. A metà di via Manzoni, la Bmw indicò con la freccia la direzione destra e diminuì la velocità fino a fermarsi. Michele se ne accorse in tempo e deviò dalla carreggiata sulla sua destra. Per fortuna c’era un parcheggio davanti a un fast food o un locale del genere proprio in quel punto. Si trovava così a meno di 20 metri di distanza da suo padre, con buona visibilità, nonostante la sera, grazie ai lampioni molto luminosi. La Bmw aveva spento il motore. Vide suo padre scendere dall’auto ed entrare in un condominio di parecchi piani, di costruzione abbastanza recente.
Dove andava? Da chi? Per quanto tempo si sarebbe trattenuto? Che doveva fare a questo punto il suo improvvisato segugio? Mica poteva aspettare rincantucciato in auto fino a notte fonda ed oltre. Non aveva affatto voglia di ammirare un’alba d’autunno in centro a Modena. Altrimenti che alternative aveva? Scendere forse dalla macchina, dirigersi verso il condominio incriminato, piazzarsi davanti alla tastiera dei campanelli, contemplare i nomi, pigiarne uno a caso e poi un altro per chiedere se si trovasse lì suo padre? Che situazione avrebbe trovato, a chi faceva visita suo padre? A un amico, a un parente, a una donna? Perché poi pensare a priori che stesse per smascherare un tradimento coniugale e non invece che quella visita fosse l’occasione di una rimpatriata tra amici, o un atto di cortesia a qualcuno, o una serata di lavoro, un torneo di ramino.
Provò a pensarle tutte. Tentava dentro di sé, con poca fiducia di prenderci, di scagionare suo padre dall’accusa di infedeltà che sua madre sconvolta gli rivolgeva. Mentre brancolava con la mente alla ricerca dell’ipotesi giusta, Michele scese dall’auto e si avvicinò a piccoli passi al luogo del presunto delitto. Si piazzò dietro l’angolo del condominio stesso, allungando ogni tanto la testa, con circospezione.

Ma il tempo passava e non succedeva nulla. Si seccò di fare il palo. Buttò l’occhio al fast food e valutò che stando dentro a quel locale riusciva a inquadrare l’ingresso del condominio. A un certo punto vide illuminarsi l’atrio dell’edificio. Qualcuno stava per arrivare. Dopo una certa attesa comparve fuori dalla porta una donna anziana con in mano il sacchetto dell’immondizia. Falso allarme.
Decise di incamminarsi per entrare in quel locale. Non aveva fame veramente, perché aveva cenato, ma la tensione che provava in quella situazione andava un po’ ingannata. Ordinò uno di quei tipici paninazzi debordanti di verdura, carne e pomodori e si piazzò ad un tavolo con vista sul condominio. Gli venne in mente Archie Goodwin, il fido tuttofare di Nero Wolfe, quello che faceva sempre ogni tipo di lavoro sporco per raccogliere indizi e informazioni, con le buone o con le cattive, che il suo illuminato principale trasformava poi nella versione ineccepibile e definitiva di ogni delitto, mettendo il colpevole con le spalle al muro. Con quel panino tra le mani, entrato in quel locale a caso, e scrutando al di là dei vetri, si sentì nei panni di un detective professionista. Gli mancava solo il binocolo per essere perfetto, ma era sufficiente che stesse attento a quando si accendeva la luce nell’atrio. Il tempo che intercorreva prima che apparisse qualcuno bastava perché lui si precipitasse fuori e riprendesse posto di fianco all’edificio per vedere bene le persone.
A un certo momento, mentre era intento ad osservare quel condominio, un episodio della sua infanzia emerse dai fondali dei suoi ricordi. Avrà avuto sette oppure otto anni. Una domenica mattina stava giocando nel cortile di casa, tirando calci a una palla di plastica e immaginando di trovarsi su un campo di calcio. All’improvviso arrivò suo padre molto agitato, lo prese per mano, lo trascinò lungo la sala e il corridoio fino alla porta di casa e mentre uscivano gli disse “Adesso tu vieni con me e ce ne andiamo di qui” mentre sua madre dal corridoio gridava “No, Michele resta con me!” e suo padre rivolto a lui “Con chi vuoi stare, con me o con tua madre?” Fu per lui un vero trauma. Perché doveva scegliere tra la mamma e il papà? Che roba era? Cos’era successo tra loro? Per lui bambino era impensabile che la coppia dei suoi genitori si potesse dividere e mai in vita sua aveva pensato chi amasse di più tra loro e con chi dei due avrebbe dovuto restare abbandonando l’altro. Quella mattina ebbe poi una conclusione normale: suo padre lo trascinò normalmente a messa in duomo come sempre. Ma fino all’ultimo Michele temette che non sarebbero rientrati a casa.
Ancora non si vedeva nulla all’ingresso dell’edificio e il locale si stava affollando sempre più. Ragazzi e ragazze entravano rumorosamente e cresceva il casino intorno a lui. Il panino era finito tutto nel suo stomaco insieme a un bicchiere di coca gelida. Stava masticando i cubetti di ghiaccio rimanenti, quando vide l’atrio illuminarsi ancora. Allora uscì con impeto, attraversò la strada di corsa e si appostò. Si trattava di un uomo ben più alto di suo padre, giovane e dalle spalle quadrate, che aveva al guinzaglio un cane di grossa taglia, adeguato alle dimensioni del suo padrone. Di suo padre ancora nessun indizio. Un altro falso allarme.
Il tempo dell’attesa cominciò a pesargli. Riprese la direzione del locale a piccoli passi, guardando distrattamente le macchine che transitavano per la strada e la gente che c’era dentro. Il pensiero corse veloce alla moglie e ai figli e si proiettò nello schermo della mente un film dal titolo Fra dieci anni, vita familiare. Si riteneva uno scarso di fantasia e ancor più di preveggenza, infatti non riuscì a produrre alcuna immagine su quello schermo, ma avvertì chiaramente dei rumori di passi alle sue spalle. Si girò di scatto e con buoni riflessi girò a sinistra dietro l’angolo dell’edificio. Così poté sbirciare.

Era suo padre. Si dirigeva spedito verso la portiera accanto a quella di guida della macchina. L’aprì e vi fece accomodare con insolita gentilezza una donna alta, dai capelli scuri e vestita con eleganza che apparve dietro di lui. Michele sgranò gli occhi e li puntò su di lei. Non si trattava né di un amico né di una vecchia parente. Quella donna non poteva essere che l’amante. Difficile sbagliarsi. Il suo vecchio non aveva mai aperto così servilmente la portiera a nessuna persona, moglie compresa. Quel gesto da damerino lo colpì. Fino a quel momento aveva sempre lasciato a chiunque di compiere da sé quella semplice operazione. Chiunque, tranne quella donna. La macchina ripartì subito.
Michele non riuscì a vedere bene il volto di lei, né con precisione il suo abbigliamento. Gli rimase l’impressione che avesse una capigliatura folta e scura e non poté non notare i vistosi orecchini. Indossava un pellicciotto corto adeguato alla stagione non troppo fredda e una lunga gonna forse nera.
L’amante.
Senza fretta Michele risalì sulla sua auto e riavviò il motore. Adesso che altro fare? Seguirli non gli parve il caso. Quello che doveva vedere l’aveva visto. Quello che doveva capire l’aveva capito. Michele ripensò al suo precoce matrimonio, era molto giovane, poco più che ventenne. Molti sospettarono che lui avesse messo incinta la sua ragazza. Invece voleva andarsene al più presto dalla sua famiglia, dove non c’era amore.

Decise di rientrare subito a casa. Lungo la strada non riu­scì a togliersi dagli occhi l’immagine di suo padre che apriva la portiera a quella donna e nemmeno il flash di lei, elegante e agghindata. L’itinerario lo conosceva a memoria, così che la sua vecchia Fiat andava quasi in automatico. Grazie a questi misteriosi automatismi si schivò un incidente sicuro.
Chissà dove erano diretti quei due. Alla larga da casa sua, da Carpi, di sicuro, perché suo padre era molto conosciuto per la sua attività imprenditoriale e diceva sempre di tenere alla sua famiglia, che la famiglia era al primo posto, il primo valore per lui, che si dichiarava un buon cattolico e che sosteneva di avere sempre dimostrato di esserlo. Quella classica ipocrisia di parlare bene e razzolare male, quell’etica delle parole e non dei fatti, dei discorsi e non della vita di tanti buoni cattolici.
All’altezza della località Appalto riuscì a scorgere, in un momento di attenzione totale alla strada, un posto di blocco dei carabinieri. In quel frangente si sentiva confuso al punto da non ricordare nemmeno dove teneva il libretto di circolazione. Allora ricorse a un metodo che utilizzava quando era in giro per lavoro e che dava spesso buoni risultati. Rallentò la velocità e nel passare accanto all’agente con la paletta a mezza via, incerto se fermarlo o no, si mise a fissarlo intensamente, come per dirgli dài, bloccami, ti va di fermarmi? Fàllo, sono qui, non ho niente da nascondere. Funzionò anche quella volta, la paletta dell’agente armato si abbassò del tutto e il suo sguardo poliziesco si posò sull’auto successiva alla sua. Michele pensò anche che in certe circostanze è una fortuna non essere né bionde né femmine, per essere lasciati in pace dalle forze dell’ordine.
E ancora ricordava che suo padre usciva da solo il sabato sera per rientrare tardi la notte. La domenica sua madre era spesso arrabbiata, cupa e scostante nei confronti di lui. Tante volte lui si avvicinava a lei per abbracciarla, ma lei lo cacciava indietro bruscamente, senza mai ricambiare i suoi gesti di affetto. E a volte certi silenzi anomali si trasformavano in litigi tonanti. Da questi episodi imparò che le manifestazioni d’affetto tra genitori erano sconvenienti. Gli occorsero degli anni per convincersi del contrario.
Intanto davanti al parabrezza si era formato un muro impenetrabile. La nebbia era calata giù fitta, sebbene non ce ne fosse stata alcuna traccia durante il viaggio di andata. Ma non c’era da stupirsi, perché quella bianca caligine abitava da quelle parti.
Ringraziò la sua macchina di averlo ormai riconsegnato a casa indenne, mentre lui era immerso, anzi sommerso dai suoi pensieri. Non si era accorto fino ad allora che quel vecchio modello di Fiat avesse incorporato anche il pilota automatico. Non trovò più libero il posto auto davanti a casa e dovette allontanarsi di una trentina di metri fino al parcheggio davanti al supermercato Ma lo aveva previsto e in quel momento non gliene fregava nulla. Più che altro la mattina seguente avrebbe poi dovuto ricordarsene per non rimanerci secco rinvenendo un’altra vettura invece della sua. La prima volta che accadde un fatto simile aveva temuto che gliel’avessero rubata.

A quel punto la domanda era cosa farne del risultato del suo pedinamento. Prima di tutto veniva sua madre e la necessità di fare rapporto. Ma non subito. Per quella sera bastava così. Non gli pareva adeguato cavarsela con una telefonata. Forse sua madre se l’aspettava. Ma così avrebbe anche evitato il grande litigio dei suoi vecchi al rientro di suo padre quella notte stessa. Il rapporto andava rimandato al giorno dopo. Dormirci sopra serviva a stirare un po’ le idee, se non proprio a chiarirle.
Salì in casa. Entrò subito in camera silenziosamente. Raffaella, sua moglie, era già addormentata. La guardò. Si infilò nel letto cercando di non svegliarla. Pensò in quel momento che lui, Michele, come minimo avrebbe dovuto fare meglio di suo padre, con il suo matrimonio. Rimase a contemplarla per vari attimi. Si era assopita appoggiandosi sul fianco sinistro e lui la intravvedeva di schiena, con i suoi capelli scuri sciolti sulle spalle e una gamba nuda e bianca fuori dalle coperte. La accarezzò a lungo con lo sguardo, con più amore del solito, prima di cedere anche lui al sonno.

[continua]


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