Opere di

Laura Montuoro


Bianco come il latte

Aveva deciso di rimanere ancora un po’ nel letto quella mattina.
Ripensava alla sera precedente, a Nadia, a Valentino, senza che alcun dettaglio prevalesse sull’altro in modo particolare. Si stupì, colto da un sorriso che gli addolcì le labbra.
Davide si avvicinò poi al comodino per cercare il suo pacchetto di sigarette. Ne sfilò una e iniziò a fumarla. Si alzò quando gli rimase il solo mozzicone tra le dita.
Il tempo di una doccia, poi indossò una camicia e un paio di pantaloni, i primi che vide sbucare dalla valigia, e uscì.
Platania sembra colorarsi a festa la mattina di domenica. Davide camminava lentamente godendosi ogni dettaglio di quel pittoresco paesaggio, anche se un rumore di passi sconnessi, molto meno lenti dei suoi, alle proprie spalle lo allarmò subito.
Si voltò una volta, poi una seconda. Ma non vide nessuno. Eppure erano passi quelli che sentiva. Fece finta di nulla per qualche altro metro, poi si voltò di scatto.
«Ancora tu!» esclamò Davide come lo riconobbe «Totò… ti chiami Totò, ora lo so come ti chiami»
Come sentì pronunciare il suo nome, Totò si mise a correre con gli occhi sbarrati dal terrore.
Ci pensò su qualche secondo, poi Davide decise di seguirlo, per quanto il cappotto che indossava lo rendeva molto più impacciato di quanto non fosse quel ragazzino, che scappava invece come un grillo.
Non l’avrebbe mai raggiunto, se non fosse stato per quel sanpietrino rialzato da terra che lo fece inciampare e cadere.
«Eccoci qua» esordì Davide tirandolo da un braccio. «Allora, mi dici perché mi segui da giorni?»
Totò rimase in silenzio. Immobile.
«Niente. Allora cambiamo la domanda… hai preso tu i miei soldi ieri? Se continui a non rispondere, mi inizio ad arrabbiare sul serio»
«Totò deve comprare il latte» rispose tutto d’un fiato, spaventato.
«Cosa?»
«I gatti piccoli bevono il latte. Ma nessuno dà il latte a Totò. Niente latte per gatti piccoli»
«Dove sono questi gatti piccoli?»
«Signore, i gatti piccoli muoiono come le persone?»
Davide si voltò senza guardarlo, spiazzato da quel fiume di domande senza senso. Posò poi lo sguardo per terra e lì lo lasciò per un bel po’, sentendosi del tutto inadeguato. Tentennò ancora per poco, finché poi non prese il sopravvento uno strano senso di compassione che lo portò a vergognarsi.
Totò si mosse senza perdere un minuto di più. Camminava rapido e sconnesso, assicurandosi di tanto in tanto che Davide lo stesse seguendo. Non gli camminava affianco, gli stava davanti tenendo uno scarto di almeno un paio di metri da lui. Ci teneva a mantenere quella distanza, lo faceva sentire sicuro, lo dicevano i suoi occhi. Occhi neri che non conoscono la bellezza dell’amore, stretti nel più disperato bisogno di sentirsi amati.
Totò continuava a camminare, non gli rispose, ma Davide aveva imparato ad abituarsi a quelle mancate risposte. Continuò a seguirlo senza perdere il ritmo, senza battere ciglio, senza più rompere quel silenzio.
Come raggiunsero il castagneto, Totò non si fermò neppure per riprendere fiato. S’inoltrò nel mezzo di quella terra brulla e popolata di sterpaglie con non poca difficoltà, finché non toccò il tronco di uno dei tanti alberi di castagne. Solo allora si fermò.
Davide lo seguì a fatica, senza per questo cedere neppure di un passo. Lo vide accasciarsi e fu lì che si spaventò. Spavento che però venne scongiurato in un attimo alla vista di quei tre batuffoli tigrati che giacevano raggomitolati l’uno vicino all’altro sulle radici di quell’albero.
Totò si era seduto goffamente per terra, non curandosi del fatto che si stesse sporcando di terriccio e del verde delle erbacce. Li accarezzava e li osservava da vicino, con i suoi occhi stretti e neri, anche questa volta inespressivi, ma che lasciavano immaginare ammirazione e meraviglia come nient’altro in quel momento.
Davide lo guardava dall’alto, non sapeva ancora bene se con tenerezza o pena. Lo guardava. Guardò lui, poi si fece catturare dal fioco miagolio di quei tre gattini, che sembrava piuttosto un cinguettio, e non si trattenne dal piegarsi sulle ginocchia per prenderne uno in mano. Avrebbe sempre voluto avere un gattino da bambino. Non lo aveva mai dimenticato.
«Li hai portati tu qui?»
«È un posto sicuro. Non viene nessuno. I gatti piccoli devono stare al sicuro»
«È importante tenerli al caldo. Sei stato bravo» si sbilanciò Davide, non aspettandosi l’orgoglio di un sorriso, ma immaginandone almeno il doppio su quel viso spento. «Solo che hanno bisogno di cure, sono cuccioli. Tu sei capace di occupartene? Non è facile, lo sai?»
«I gatti piccoli bevono il latte»
Davide, per la prima volta, non si accontentò più di stare in silenzio. Tacque.


Inciampando in uno spicchio di luna

Giorgio teneva ancora le mani nelle tasche, nel modo in cui più si sentiva a proprio agio, scoprendosi, questa volta, realmente incuriosito da quei pochi quadretti che custodivano foto d’epoca e scatti ingialliti di persone mai viste.
Come esaurì quella carrellata di volti sconosciuti e di immagini da raccontare, si trovò riflesso sullo specchio del comò. Non badò molto alla sua immagine, guardava i pomelli in ceramica bianca che spiccavano, con una punta di rosa, ai lati di quei sei larghi cassettoni in noce.
Impugnò i primi due pomelli, poi lasciò stare. C’erano tanti di quegli oggettini sul comò, che Giorgio finì per concentrarsi subito su di essi, per quanto niente, in fondo, lo incuriosì al punto da decidere di toccarlo.
Mentre ancora cercava di definire i contorni di qualche ricordo sbiadito, già aveva mollato due mandate di chiavi dalla toppa di una porta sottile e leggera che dava la piano di sotto. Non tardò a trovare l’interruttore liscio e stretto alla propria destra sulla parete grossolana e graffiante che sapeva di freddo e umido. S’accese una lampadina appesa a un filo elettrico poco più in alto della sua testa. Poi subito le scale di marmo opaco a chiazze grigiastre.
Un po’ del freddo di stagione gli soffiò nell’orecchio. La bocca della piccola finestrella, chiusa in una griglia tanto fitta e spessa da sembrare nera, alla sua sinistra, era aperta.
S’intravedeva appena il livello della strada. Giorgio scansò lo spigolo di una delle due piccole ante in ferro tinto di bianco e in un attimo toccò l’ultimo gradino.
La sola luce delle scale non bastava più. Giorgio cercò un’altra coppia di interruttori. La trovò e tutto prese forma e colore in un breve e timido scatto.
Rimase immobile per qualche istante, cercando di abbracciare con un primo sguardo quanto più poté. Poi Giorgio scelse il primo posto a sedere sulla panca, che faceva tutt’uno con il grosso tavolo in legno, che giaceva defilato in un angolo della stanza.
C’era una credenza alle sue spalle, ricettacolo di barattoli e conserve; così come ce n’era una davanti a lui, vuota.
Giorgio poggiava entrambe le mani a palmo aperto sulla superficie di quel tavolo, a tratti sembrava quasi lo stesse accarezzando. Una premura scivolò fin lungo i bordi di un centrotavola beige che sosteneva il peso di un vaso tozzo e grossolano, senza con ciò perdere nulla dell’eleganza di così tanti esili ricami bianchi. Poi un cigolio. Un cigolio che giocava in controtempo con il vento e da cui Giorgio si lasciò presto distrarre.
Sembrava provenire dalla porta. Quella cucina rustica dava all’esterno passando per una cornice in legno chiaro che teneva ben tesa una zanzariera scura.
Non chiudeva bene. Tremava. Così si decise a tirarla verso di sé, trovandosi al cospetto di una porta grigia in ferro. Sbarrata. Giorgio diede uno sguardo in giro. Non fu difficile trovare la chiave. Era nel primo scompartimento della credenza, quella vuota.
Gli scatti della serratura restituivano suoni duri all’udito, sembrava quasi potessero spezzarsi nell’aria. Poi subito un pugno di vento freddo.
C’era un solo quarto di luna in cielo, nemmeno una stella, ma bastava. Da quello spicchio di satellite pallido e silenzioso colava una scia di luce turchina che si riversò sulle scarpe nere di Giorgio, poco appena fuori la porta.
Era solo un vicoletto. Un piccolo vicoletto in cui poter nascondere sospiri e pensieri a quell’ora della sera, mentre intanto caldi lampioni animavano lontano da lì la piazza, ignara delle tante confidenze di cui la luna si sa fare complice.
Giorgio si poggiò al muro, non molto distante dall’ingresso del seminterrato, solo dopo avere bloccato con una pietra l’anta della porta in ferro. Si strinse nel cappotto, non senza aver prima acceso una sigaretta.
Non ricordava di avere mai visto la luna così tanto da vicino, ne era attratto. La luce rubata al sole che filtrava dallo stretto spicchio di cielo tra le due casupole che chiudevano il viottolo, occupò presto tutta la mente di Giorgio.
Nessun altro pensiero, eccetto l’avvicinarsi svelto di morbidi passi. Non c’era nessuno, solo Giorgio e la sua luna. Nessuno eccetto Giorgio, la luna e quei passi. Nessuno. Nessuno eccetto due ragazzi stretti l’uno nelle mano dell’altra che approfittarono della complicità di quella stessa luna, della luna di Giorgio.
Protetti dall’ombra di un balcone, s’inebriarono presto della benedizione di quel magico satellite, che nulla invidia alle stelle, e colmarono quel viottolo di sogni.
Si guardavano. Si guardavano dritto negli occhi, senza parlare, giurandosi così tutto l’amore che non conosce fine. Perché a quella età l’amore è uno. Eterno.



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