Opere di

Katia Brentani

Con questo racconto si è classificata al nono posto al Concorso Città di Melegnano 2008 sezione narrativa


Questa la motivazione della Giuria: «Il Liberty Hotel è una casa di riposo per anziani, descritta dal vecchio Cosimo con sconsolata e inquieta rassegnazione. Ma gli odori, le vibrazioni e la mestizia del luogo, susciteranno una ribellione in Cosimo, che tenterà una fuga già sventata dall’inizio: la sua mancanza inconsapevole di memoria lo farà fallire. Riflessione amara sulla vecchiaia tradita dal tempo e i suoi mali». Alessandra Crabbia


Liberty Hotel

Non conosco il burlone che ha 
 scelto il nome dell’hotel.
Alcuni sostengono che in realtà fosse nato come albergo ad ore e solo in un secondo tempo trasformato in casa di riposo.
Il proprietario, troppo pigro e taccagno non si è scomodato a cambiare l’insegna.
Così la luce al neon illumina le lettere cubitali del Liberty Hotel e una scritta, in basso, malamente illuminata, segnala che si tratta di una casa di riposo.
Sporadicamente qualche turista, un po’ alticcio, tenta di entrare per prenotare una camera.
Cederei volentieri la mia.
Mi chiamo Cosimo e vivo all’albergo della libertà da cinque anni.
Devo ringraziare i miei nipoti, i figli di mia sorella Alma, buonanima.
I ragazzi d’oggi sono irrequieti, attendere che lo zio scapolo morisse richiedeva una dose di pazienza superiore alle loro capacità.
Per accelerare i tempi hanno chiesto l’interdizione. Non sono matto e ho una memoria di ferro, ma soldi distribuiti alle persone giuste e una scenata da parte mia con spintone al medico, che francamente, con il senno di poi, mi risparmierei, hanno decretato la mia condanna.
La villetta a tre piani con giardino insieme alla casa al mare a loro e a me un posto a vita al Liberty Hotel.
Non tocchi con mano la vecchiaia fino a quando non entri in una casa di riposo.
L’odore di stantio, di vecchiume mischiato a quello dei medicinali, del disinfettante e dell’urina alberga in ogni angolo.
Fuori non ti rendi conto di puzzare da “vecchio”, mischiato a giovani dalla pelle ambrata, signore con veletta e bambini al borotalco.
Al Liberty Hotel ogni ruga, ogni bocca sdentata, ogni incespicare ricorda che, come relitti, galleggiamo alla deriva in attesa della signora vestita di nero.
La pazzia, un perenne stato confusionale provvedono benefiche a cancellare pensieri funerei.
Ciondolare su poltrone o sedie impagliate davanti a un televisore perennemente acceso, l’unica attività possibile.
Chi continua a navigare a vista, conscio di trovarsi su una zattera senza terra d’approdo in vista, ha un obiettivo.
Marcello, ex generale, passa il tempo catalogando cartoline che gli inviano da ogni parte del mondo e che rappresentano monumenti ai caduti, caserme, ufficiali in alta uniforme.
Un nipote ha lanciato l’appello via internet, dando l’indirizzo del Liberty Hotel.
Il postino è di casa da noi e ogni mattina non manca di consegnare preziosi reperti che Marcello cataloga su un quaderno con la precisione di un militare, quale è.
Suo figlio, che viene a trovarlo ogni quindici giorni, la domenica pomeriggio, ritira le cartoline e le “conserva” in scatoloni nell’ordine esatto in cui le colloca il padre.
Sospetto che le getti nel primo bidone della spazzatura, appena uscito dalla casa di riposo o le rivenda a qualche collezionista.
Non ho mai esternato i miei sospetti a Marcello con cui scambio opinioni ogni mattina a colazione, e ogni giorno a pranzo e cena.
Non è facile trovare al Liberty Hotel persone in grado di sostenere una conversazione sensata, la demenza senile impera.
Quelli che sono ancora in grado di ragionare perdono a poco a poco la capacità di conversare, come un muscolo, non sollecitato, che si atrofizza.
Per questo io e Marcello ci divertiamo a ripetere date di importanti avvenimenti storici, poesie imparate a scuola o l’ordine delle pietanze del menù della settimana.
Non che sia complicato, in questo ultimo caso.
Vige un menù standard, studiato per mal dentati, dove il riso cotto nel latte regna sovrano.
Se Marcello allena le cellule grigie con le cartoline, Miss Acchiapparella si mantiene in esercizio fisico tentando la fuga.
Il suo vero nome è Gertrude Boldrini, vedova da tempo immemorabile, il suo sogno è raggiungere il cimitero dove è sepolto il marito.
Il soprannome le è stato appioppato da un’infermiera dotata di senso dell’umorismo che purtroppo non lavora più qui.
La nuova infermiera, sfiancata da settimane di tentativi di fuga, la intontisce con pastiglie di sonnifero che la riducono in stato catatonico per qualche giorno.
Miss Acchiapparella però non si arrende mai e appena è in grado di reggersi sulle gambe ricomincia la sua missione.
Credo che tutti quelli che vivono al Liberty Hotel comprendano il suo desiderio di fuggire e in qualche modo l’ammirino per il suo spirito indomito.
Purtroppo manca di metodo e nelle grandi imprese il metodo è tutto.
Fuggire dal Liberty Hotel è anche il mio obiettivo. Mi sono arreso all’evidenza, ogni altro passatempo, come leggere, guardare la televisione o fare collezione di francobolli non mi distolgono dalla certezza di essere in questo luogo non per libera scelta, ma per costrizione.
Sono convinto di poter ancora gioire di qualche piacere della vita, non imprese titaniche, ma semplici piaceri come immergere l’amo in un laghetto, camminare in un prato in una giornata di sole, mangiare pane fresco e addormentarmi e svegliarmi all’ora che più mi aggrada.
Così ho elaborato un piano. Al contrario di Miss Acchiapparella reputo che prendere il problema di petto non porti a nessun risultato pratico.
Il “piano di battaglia” è racchiuso dentro la mia testa, l’unico posto sicuro dove non possono rubare nulla.
Al Liberty Hotel il vizio di rubare oggetti di proprietà di altri è consuetudine. Vuoi per poca memoria, vuoi per invidia o per semplice noia.
Sono all’ordine del giorno litigate, che spesso degenerano in graffi e spintoni.
È brutto doverlo confessare, ma molto spesso riguardano donne che si contendono ciabatte, fiori, pettini per capelli.
Di questo mio “piano” non ho parlato neppure con Marcello. Sono stato tentato di farlo molte volte, ma il terrore che le regole ferree che hanno regolato la sua vita lo portino a raccontare tutto alla direzione mi ha fatto desistere.
Lui però è il filo che mi lega all’agognata libertà.
Sono un uomo tranquillo e la direzione da due anni mi ha affidato il compito di distribuire la posta.
Ettore, il postino, è ormai un mio amico. Quando arriva al Liberty Hotel non manca mai di fermarsi a fare due chiacchiere e bere qualcosa.
La casa di riposo si trova ai margini del paese ed è l’ultima consegna prima di smontare dal servizio.
Dopo ore di pedalate in discesa e salita, lungo le stradine strette del paese, Ettore, soprattutto d’estate, gradisce una bibita fresca.
Organizzare una fuga da un luogo come questo non è semplice.
Quando si accorgono che serpeggia agitazione collettiva usano i calmanti, sotto forma di pastiglie.
Nei giorni di “tempesta”, così li chiamano le infermiere, il mare delle nostre inquietudini viene acquietato da compresse colorate.
In questi anni sono riuscito a mettere da parte una dose consistente di calmante, simulando di ingoiare pastiglie bloccate invece sotto la lingua.
Ormai sono un mago nel fingere.
Oggi però un brivido di eccitazione mi pervade.
Dopo tanta attesa il grande giorno è arrivato. Come Papillon sto per fuggire dalla mia prigione.
Quale occasione migliore?
Cinque nuovi arrivi con parenti al seguito in un solo giorno hanno creato grossi buchi nella maglia di controllo.
Gli affari in compenso vanno a gonfie vele, liberarsi dei parenti anziani è diventata una moda consolidata.
Le infermiere più esperte scodinzolano dietro i dottori intenti a convincere i parenti, ancora titubanti e con un latente senso di colpa, che i loro congiunti si divertiranno più che a Las Vegas.
Per risultare convincenti hanno rinchiuso Miss Acchiaparella nella sua stanza guardata a vista da una volontaria, una delle tante ragazzine pallide e giudiziose che vengono una volta alla settimana al Liberty Hotel a dare prova del proprio altruismo.
Anche Floriano, alias Fred Astaire, che con minuscoli passetti, gira rasente i muri, è scomparso.
E con lui i catatonici, gli attaccabrighe e chiunque possa rovinare l’effetto cartolina.
È rimasta solo qualche vecchietta intenta a lavorare all’uncinetto.
Notare che nei giorni normali è severamente vietato, dopo che Matilde ha piantato l’uncinetto nell’occhio a Palmira.
Il motivo di un gesto così sconsiderato resta ancora un mistero.
L’anziana donna si è sempre rifiutata di fornire spiegazioni.
Alcune piante tropicali fanno bella mostra di sé all’entrata dell’albergo e il bancone della reception brilla come una cadillac nuova di zecca.
In questa realtà virtuale, dove sembrano scomparsi anche gli odori sgradevoli, coperti da un intenso profumo di rose, siedo tranquillo su una poltrona che mi permette di osservare il passaggio del direttore con i parenti al seguito.
Si sposteranno nell’ala dormitorio, dove all’occorrenza, sarà illustrato il funzionamento dell’aria condizionata che in realtà non viene mai usata.
Il direttore si allontana insieme ai parenti che lo seguono come gli anatroccoli accodati a mamma oca.
Dietro il bancone della reception c’è un’infermiera nuova, scelta per il suo piacevole aspetto, al posto di Lucinda detta il Sergente.
Non sa come comportarsi, si nota che è nervosa e mi lancia fugaci sorrisi che ricambio con sguardo innocente.
Ettore fra cinque minuti spunterà da dietro la curva, puntuale come un cronometro svizzero.
Eccolo infatti pedalare allegro.
«Ettore il postino» comunico all’infermiera dietro al bancone che sollecita apre la porta.
Nello stesso istante Marcello, il generale, arriva con l’aria stravolta.
«Qualcuno ha rubato le mie cartoline» comunica con un tono di voce che si usa quando muore un parente.
«Forse non ha cercato attentamente» azzarda l’infermiera bionda che da vicino è proprio carina.
«Venga a controllare lei stessa» il tono di Marcello è perentorio.
L’infermiera lo segue venendo meno al principio di non lasciare mai la reception sguarnita.
Una mossa da pivella.
Guardo il postino e mi accorgo che non è Ettore.
È un giovane snello, dalla faccia simpatica e la barba rada.
Valuto l’ipotesi di rimandare il piano, ma quando capiterà di nuovo un’occasione così propizia?
Gli sorrido, amichevole.
«Le va qualcosa da bere?» chiedo, notando le goccioline di sudore sulla sua fronte.
«Qualcosa di fresco la berrei volentieri» ammette.
Mi avvicino al piccolo frigo bar posizionato dietro il bancone dove le infermiere tengono le bibite.
Scelgo tè alla pesca e faccio scivolare alcune pastiglie di calmante.
L’effetto sarà immediato, l’ho sperimentato di persona.
Quando rialzo la testa Lucinda, il Sergente, mi osserva ironica.
«Cosimo, ci risiamo?» domanda, prendendo il bicchiere di tè dalle mie mani.
Versa il contenuto in una delle piante tropicali che ornano l’atrio.
Quale effetto produrrà il calmante sulla pianta? Dormirà, avvertirà un senso di torpore? Le sue foglie ingialliranno?
Assurdi interrogativi, mentre la confusione alberga nella mia mente.
Lucinda il Sergente mezz’ora prima seguiva i dottori e i parenti dei nuovi degenti come i Re Magi la Stella Cometa.
Cosa fa qui? Penso irritato.
Il giovane postino mi osserva perplesso.
«È un vecchietto molto simpatico il nostro Cosimo” sentenzia Lucinda prendendomi a braccetto “peccato che ogni tanto tenti la fuga».
«Fuga?» le fa il verso il postino, sorpreso.
Lucinda annuisce.
«Tre anni fa il postino era Ettore, un gioviale signore a cui mancava un anno di servizio per andare in pensione» spiega, continuando a lanciarmi occhiate guardinghe «il nostro Cosimo scambiava sempre qualche parola con lui, si trovava con noi già da due anni ed era così tranquillo che svolgeva piccole incombenze, come distribuire la posta».
«Poi cosa è successo?» chiese il postino, curioso.
Lucinda aumenta la stretta attorno al mio braccio.
«È successo che questo signore dall’aria innocente ha sciolto del calmante nel tè, Ettore l’ha bevuto e si è addormentato e lui gli ha sfilato la giacca e la borsa a tracolla, l’abbiamo riacciuffato mentre tentava di salire su un treno».
Il panico mi assale, tento di divincolarmi ma la morsa di Lucinda è ferrea.
Tre anni? Come è possibile.
Ho già provato a fuggire e il piano è fallito miseramente?
Il postino mi studia, con aria sospettosa.
«Perché se ha fallito ci ha riprovato nello stesso modo» chiede, meravigliato.
Lucinda, Il Sergente, mi sorride magnanima.
«Perché non lo ricorda, soffre di vuoti di memoria».
Vuoti di memoria? La rabbia mi invade, posso recitare il primo canto della Divina Commedia senza difficoltà.
«Il paradosso» confessa Lucinda, «è che a parte queste dimenticanze improvvise, la sua memoria è superlativa» il tono della sua voce è amareggiato.
Ho una fans e non me ne sono mai accorto?
«E questa è la prima volta che tenta di scappare, dopo la fuga quasi riuscita?» dal tono di voce del postino comprendo che si sta appassionando alla vicenda.
«La seconda» puntualizza Lucinda, «ha provato un anno fa».
Alle parole di Lucinda sento le lacrime pungermi gli occhi. Sono solo un povero disperato come Miss Acchiapparella.
«Ma non è pericoloso» si affretta a precisare Lucinda «basta non bere il tè».
Il postino ride, si aggiusta meglio la tracolla sulla spalla e mi fa ciao ciao con la mano, come a un bambino birichino.
«Ci vediamo domani alla solita ora» promette e mentre esce dal Liberty Hotel scuote la testa.
Avrà un aneddoto gustoso da raccontare ai colleghi.
«Vieni, Cosimo».
Lucinda paziente mi accompagna in camera. Il groppo alla gola è ancora lì, non va né su né già, ma il momento peggiore è passato.
Ragionandoci sopra non ricordare è un vantaggio.
Crederò ancora possibile un sogno impossibile: fuggire dal Liberty Hotel.


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