Opere di

Kahlil Gibran

Testi tratti da: “Il Profeta”, Kahlil Gibran, Edizioni San Paolo (1989, Milano)


L’ARRIVO DELLA NAVE

Almustafà, l’eletto, l’amato, lu che era un’alba del proprio giorno, dodici anni avevo atteso nella città di Orfalese che la sua nave tornasse per riportarlo all’isola nativa.
E nel dodicesimo anno, il settimo giorno di Ielool, il mese del raccolto, salì sulla collina fuori le mura della città e rivolse gli occhi al mare; e vide giungere la sua nave insieme alla nebbia.
Allora di colpo le porte del cuore gli si spalancarono e la sua gioia volò lontano, sul mare. Chiuse gli occhi e pregò nel silenzio della sua anima.

Ma mentre scendeva dalla collina, una tristezza gli piombò addosso ed egli pensò in cuor suo:
«Come potrò andar via n pace e senza affanno? No, non una ferita nell’anima lascerò questa città.
Lunghi sono stati i giorni del dolore che ho passato tra le sue mura, lunghe le notti di solitudine; e chi senza rimpinato può lasciare le proprie pene e la propria solitudine?
Troppi frammenti del mio spirito ho seminato in queste vie, e troppi sono i figli del mio vivo desiderio che vagano nudi tra queste colline, e io non posso abbandonarli così senza un peso e una sofferenza nel cuore.
Non è vero che oggi mi tolgo di dosso, ma una pelle che mi
strappo con le mani.
Non è un pensiero che io lascio dietro di me, ma un cuore addolcito dalla fame e dalla sete.

Eppure di più non posso aspettare.
Il mare che chiama a sé ogni cosa, mi vuole e mi debbo imbarcare.
Perché il restare, benché brucino le ore nella notte, è farsi ghiaccio e cristallo, è come rimaner prigioniero di una forma.
Sarei felice di portarmi dietro ogni cosa che è qui.
Ma come posso farlo?
Non può una voce tirarsi dietro la lingua e le labbra che le diedero ala. Da sola deve tentare il cielo.
E sola e senza il suo nido volerà l’aquila in alto, dentro il sole».

Non appena giunse ai piedi della collina, si volse ancora verso il mare, e vide la sua nave avvicinarsi al porto, e sulla prua scorse i marinai, gli uomini della sua terra.

E la sua anima gridò forte e disse:
«Figli della mia antica madre, voi cavalieri delle maree, Quante volte avete veleggiato nei miei sogni. E ora approdate al mio risveglio, che è anche il mio sogno più profondo.
Io sono pronto a salpare, e la mia brama, a vele spiegate, aspetta il vento.
Solo un altro respiro leverò in quest’aria calma, solo un ultimo sguardo d’amore volgerò indietro,
E poi sarò tra voi, navigante in mezzo ai naviganti.
e tu, o immenso mare, madre insonne,
Che solo sei pace e libertà per il fiume e per la corrente, Soltanto un’altra curva e un altro mormorio farà il ruscello in questa piana,
E poi verrò da te, goccia senza confini nel mare sconfinato».
E camminando scorse di lontano uomini e donne che abbandonavano i campi e le vigne correndo per raggiungere le porte della città.
E udì le loro voci che invocavano il suo nome e gridavano di campo in campo, raccontando gli uni agli altri che la sua nave era arrivata.

Ed egli disse a se stesso:
«Il giorno della separazione sarà anche giorno della riunione? E si dirà forse che la mia vigilia era in realtà la mia alba? E cosa darò in cambio a chi ha lasciato il suo aratro a metà del solco o a chi ha fermato a mezzo la macina del suo torchio?
Diventerà il mio cuore un albero carico di frutti che io possa cogliere e dare a loro? E scorreranno i miei desideri come una fontana, così che io possa colmare le loro coppe? Sono forse un’arpa che la mano dell’onnipotente possa sfiorare, oppure un flauto attraverso il quale passa il suo soffio? Un creatore di silenzi io sono, e quale tesoro ho mai scoperto in questi silenzi da dispensarlo ali altri pieno di fiducia?
Se questo è il mio giorno di raccolto, in quali campi mai ho sparso il seme, e in quali stagioni dimenticate? Se questa davvero è l’ora in cui sollevo in alto la lanterna, non è mia la fiamma che vi brucia dentro.
Vuota e buia alzerò la mia lanterna. E il guardiano della notte la riempirà d’olio e sarò lui ad accenderla».
A queste cose diede voce. Ma molto di non detto restò in cuor suo. Perché egli stesso non avrebbe potuto esprimere il suo segreto più profondo.

E quando entrò in città, tutta la gente gli venne incontro e gridò forte acclamandolo con una sola voce.
E gli anziani della città vennero avanti a dire: «Non lasciarci, non ancora.
Sei stato giorno pieno nel nostro tramonto, e la tua giovinezza ci ha dato sogni da sognare.
Non sei straniero ospite, tra noi, tu sei nostro figlio e pure il prediletto.
Non lasciare che i nostri occhi abbiano fame del tuo viso».

E i sacerdoti e le sacerdotesse gli dissero:
«Fa’ che non ci separino ore le onde del mare, e non diventino memoria gli anni che hai trascorso in mezzo a noi. Hai camminato come spirito fra noi, e la tua ombra è stata luce per i nostri volti.
Molto ti abbiamo amato. Ma fu senza parole il nostro amore, di veli era velato.
Ma ecco che oggi grida e a piena voce ti si vuole rivelare.
Perché sempre è accaduto che l’amore non conosca la sua profondità fino all’ora del distacco».

E vennero altri ancora a supplicarlo. Ma non rispose loro.
Chinò soltanto il capo; e chi gli stava intorno vide scendergli le lacrime sul petto.
Egli e la gente avanzarono verso la grande piazza di fronte al tempio.

E là dal tempio uscì una donna chiamata Almitra.
Ed era una veggente.
Ed egli la guardò con tenerezza sconfinata, perché era stata lei la prima a cercarlo e aveva creduto in lui fin dal giorno del suo arrivo.
Ed ella lo salutò, dicendo:
«Profeta del Signore, che cerchi l’assoluto, a lungo tu hai spiato l’orizzonte per veder apparire la tua nave.
E ora la tua nave è giunta, e tu per forza devi partire.
Hai nostalgia profonda per la terra dei tuoi ricordi e per la dimora delle tue più grandi speranze; e non ti fermerebbe il nostro amore né il bisogno che noi abbiamo di te.
Ma, prima che tu ci lasci, ti chiediamo di rivelarci la verità.
Noi la daremo ai nostri figli, e questi ai loro figli, così essa non avrà mai fine.
Sui nostri giorni hai vigilato in solitudine, e nella veglia hai ascoltato il pianto e il riso del nostro sonno.
Ora quindi rivela noi a noi stessi, e dicci tutto ciò che a te è stato già mostrato di quanto corre tra vita e morte».

Ed egli rispose:
«Gente di Orfalese, di cos’altro potrei parlarvi se non di quello che proprio ora vi si agita in cuore?».


Testi tratti da: “Il Profeta”, Kahlil Gibran, Edizioni San Paolo (1989, Milano)


L’ARRIVO DELLA NAVE

Almustafà, l’eletto, l’amato, lu che era un’alba del proprio giorno, dodici anni avevo atteso nella città di Orfalese che la sua nave tornasse per riportarlo all’isola nativa.
E nel dodicesimo anno, il settimo giorno di Ielool, il mese del raccolto, salì sulla collina fuori le mura della città e rivolse gli occhi al mare; e vide giungere la sua nave insieme alla nebbia.
Allora di colpo le porte del cuore gli si spalancarono e la sua gioia volò lontano, sul mare. Chiuse gli occhi e pregò nel silenzio della sua anima.

Ma mentre scendeva dalla collina, una tristezza gli piombò addosso ed egli pensò in cuor suo:
«Come potrò andar via n pace e senza affanno? No, non una ferita nell’anima lascerò questa città.
Lunghi sono stati i giorni del dolore che ho passato tra le sue mura, lunghe le notti di solitudine; e chi senza rimpinato può lasciare le proprie pene e la propria solitudine?
Troppi frammenti del mio spirito ho seminato in queste vie, e troppi sono i figli del mio vivo desiderio che vagano nudi tra queste colline, e io non posso abbandonarli così senza un peso e una sofferenza nel cuore.
Non è vero che oggi mi tolgo di dosso, ma una pelle che mi
strappo con le mani.
Non è un pensiero che io lascio dietro di me, ma un cuore addolcito dalla fame e dalla sete.

Eppure di più non posso aspettare.
Il mare che chiama a sé ogni cosa, mi vuole e mi debbo imbarcare.
Perché il restare, benché brucino le ore nella notte, è farsi ghiaccio e cristallo, è come rimaner prigioniero di una forma.
Sarei felice di portarmi dietro ogni cosa che è qui.
Ma come posso farlo?
Non può una voce tirarsi dietro la lingua e le labbra che le diedero ala. Da sola deve tentare il cielo.
E sola e senza il suo nido volerà l’aquila in alto, dentro il sole».

Non appena giunse ai piedi della collina, si volse ancora verso il mare, e vide la sua nave avvicinarsi al porto, e sulla prua scorse i marinai, gli uomini della sua terra.

E la sua anima gridò forte e disse:
«Figli della mia antica madre, voi cavalieri delle maree, Quante volte avete veleggiato nei miei sogni. E ora approdate al mio risveglio, che è anche il mio sogno più profondo.
Io sono pronto a salpare, e la mia brama, a vele spiegate, aspetta il vento.
Solo un altro respiro leverò in quest’aria calma, solo un ultimo sguardo d’amore volgerò indietro,
E poi sarò tra voi, navigante in mezzo ai naviganti.
e tu, o immenso mare, madre insonne,
Che solo sei pace e libertà per il fiume e per la corrente, Soltanto un’altra curva e un altro mormorio farà il ruscello in questa piana,
E poi verrò da te, goccia senza confini nel mare sconfinato».
E camminando scorse di lontano uomini e donne che abbandonavano i campi e le vigne correndo per raggiungere le porte della città.
E udì le loro voci che invocavano il suo nome e gridavano di campo in campo, raccontando gli uni agli altri che la sua nave era arrivata.

Ed egli disse a se stesso:
«Il giorno della separazione sarà anche giorno della riunione? E si dirà forse che la mia vigilia era in realtà la mia alba? E cosa darò in cambio a chi ha lasciato il suo aratro a metà del solco o a chi ha fermato a mezzo la macina del suo torchio?
Diventerà il mio cuore un albero carico di frutti che io possa cogliere e dare a loro? E scorreranno i miei desideri come una fontana, così che io possa colmare le loro coppe? Sono forse un’arpa che la mano dell’onnipotente possa sfiorare, oppure un flauto attraverso il quale passa il suo soffio? Un creatore di silenzi io sono, e quale tesoro ho mai scoperto in questi silenzi da dispensarlo ali altri pieno di fiducia?
Se questo è il mio giorno di raccolto, in quali campi mai ho sparso il seme, e in quali stagioni dimenticate? Se questa davvero è l’ora in cui sollevo in alto la lanterna, non è mia la fiamma che vi brucia dentro.
Vuota e buia alzerò la mia lanterna. E il guardiano della notte la riempirà d’olio e sarò lui ad accenderla».
A queste cose diede voce. Ma molto di non detto restò in cuor suo. Perché egli stesso non avrebbe potuto esprimere il suo segreto più profondo.

E quando entrò in città, tutta la gente gli venne incontro e gridò forte acclamandolo con una sola voce.
E gli anziani della città vennero avanti a dire: «Non lasciarci, non ancora.
Sei stato giorno pieno nel nostro tramonto, e la tua giovinezza ci ha dato sogni da sognare.
Non sei straniero ospite, tra noi, tu sei nostro figlio e pure il prediletto.
Non lasciare che i nostri occhi abbiano fame del tuo viso».

E i sacerdoti e le sacerdotesse gli dissero:
«Fa’ che non ci separino ore le onde del mare, e non diventino memoria gli anni che hai trascorso in mezzo a noi. Hai camminato come spirito fra noi, e la tua ombra è stata luce per i nostri volti.
Molto ti abbiamo amato. Ma fu senza parole il nostro amore, di veli era velato.
Ma ecco che oggi grida e a piena voce ti si vuole rivelare.
Perché sempre è accaduto che l’amore non conosca la sua profondità fino all’ora del distacco».

E vennero altri ancora a supplicarlo. Ma non rispose loro.
Chinò soltanto il capo; e chi gli stava intorno vide scendergli le lacrime sul petto.
Egli e la gente avanzarono verso la grande piazza di fronte al tempio.

E là dal tempio uscì una donna chiamata Almitra.
Ed era una veggente.
Ed egli la guardò con tenerezza sconfinata, perché era stata lei la prima a cercarlo e aveva creduto in lui fin dal giorno del suo arrivo.
Ed ella lo salutò, dicendo:
«Profeta del Signore, che cerchi l’assoluto, a lungo tu hai spiato l’orizzonte per veder apparire la tua nave.
E ora la tua nave è giunta, e tu per forza devi partire.
Hai nostalgia profonda per la terra dei tuoi ricordi e per la dimora delle tue più grandi speranze; e non ti fermerebbe il nostro amore né il bisogno che noi abbiamo di te.
Ma, prima che tu ci lasci, ti chiediamo di rivelarci la verità.
Noi la daremo ai nostri figli, e questi ai loro figli, così essa non avrà mai fine.
Sui nostri giorni hai vigilato in solitudine, e nella veglia hai ascoltato il pianto e il riso del nostro sonno.
Ora quindi rivela noi a noi stessi, e dicci tutto ciò che a te è stato già mostrato di quanto corre tra vita e morte».

Ed egli rispose:
«Gente di Orfalese, di cos’altro potrei parlarvi se non di quello che proprio ora vi si agita in cuore?».


L’AMORE

Allora Almitra disse: «Parlaci dell’Amore».
Ed egli alzò la testa e girò gli occhi sulla folla, e cadde un’improvvisa pace su di loro. E a gran voce egli disse:
«Quando l’amore vi comanda, seguitelo, Anche se le sue vie sono dure e scoscese.
E quando le sue ali vi abbracciano, arrendetevi a lui, Anche se la lama, nascosta tra le sue piume, vi potrà ferire.
E, quando vi parla, credete in lui, Anche se la sua voce può cancellare i vostri sogni,
come il vento del nord scompiglia il giardino.

Perché l’amore come vi incorona, così vi mette in croce. E come vi fa nascere, così vi porterà allo stesso modo.
Come sale fino in cima e accarezza i rami più teneri che palpitano al sole,
Cos’ scenderò nelle vostre radici e le scuoterò fin dove più a fondo si aggrappano alla terra.

Come covoni di grano, vi raccoglie in sé.
Vi batte fino a farvi spogli.
Vi setaccia per liberarvi dalla pula.
Vi macina per farvi bianca farina.
Vi impasta finche non siete docili alle mani;
E vi consegna al suo fuoco sacro, perché siate il pane consacrato alla mensa del Signore.

Questo deve compiere in voi l’amore, così che conosciate i segreti del vostro cuore e, conoscendoli, diventiate un frammento del cuore stesso della Vita.
Ma se per vostra paura cercherete nell’amore soltanto la quiete e il piacere,
Allora meglio per voi che copriate la vostra nudità e che lasciate l’aia dell’amore,
Per il mondo senza stagioni dove riderete, ma non tutto il vostro riso, e piangerete, ma non tutto il vostro pianto.

L’amore non dà altro che se stesso e non prende niente se non da sé.
L’amore non possiede né vuol essere posseduto;
Perché l’amore basta all’amore.

Quando amate, non dovreste dire: «Dio è nel mio cuore», ma piuttosto: «Io sono nel cuore del Signore».
E non crediate di guidare la rotta dell’amore, perché è l’amore, se vi trova degni, a indicarvi il cammino.

L’amore non ha altro desiderio che consumarsi.
Ma se amate e dovete inevitabilmente avere desideri, siano questi i vostri desideri:
Sciogliersi ed essere come il ruscello che scorre e canta la sua canzone alla notte.
Conoscere la pena di troppa tenerezza.
Essere feriti dalla vostra stessa sensazione d’amore;
E sanguinare di buon grado, con gioia.
Destarsi all’alba con un cuore alato e rendere grazie per un altro giorno d’amore;
Riposare il pomeriggio e, intanto, meditare sull’estasi d’amore;
Con gratitudine tornare a casa, a sera;
E addormentarsi con in cuore una preghiera per l’amato e un canto di lode sulle labbra».


LA GIOIA E IL DOLORE

Allora una donna chiese: «Parlaci della Gioia e del Dolore».
Ed egli rispose:
«La vostra gioia è il dolore stesso senza maschera. E la fonte stessa dalla quale scaturisce il vostro riso, è stata spesso piena di lacrime.
E come potrebbe essere diversamente?
Quanto più a fondo scava il dolore nel vostro essere, tanta più gioia potrete contenere.
La coppa che contiene il vostro vino non è la stessa che è stata cotta nel forno del vasaio?
E non è forse il liuto che placa il vostro spirito, lo stesso legno che è stato svuotato dal coltello?
Quando siete felici, guardate in fondo al vostro cuore e scoprirete che è solo quello che vi ha procurato dolore a darvi gioia.
Quando siete tristi, guardate ancora dentro di voi e scoprirete di piangere per quella che è stata la vostra gioia.

Alcuni di voi dicono. «La gioia è più grande del dolor», altri invece. «No, è più grande il dolore»
Ma io vi dico che sono inseparabili.
Procedono di pari passo, e se l’una, a tavola, siede accanto a voi, ricordatevi che l’altro dorme sul vostro letto.
In verità, siete bilance che oscillano tra il dolore e la gioia.
Soltanto quando siete vuoti, state fermi in equilibrio.
Se il tesoriere vi alza per pesare l’oro e l’argento, necessariamente gioia e dolore devono a turno alzarsi o ricadere».


LA RAGIONE LA PASSIONE

E di nuovo intervenne la sacerdotessa e chiese: «Parlaci della Ragione e della Passione».
Ed egli rispose, dicendo:
«La vostra anima è spesso un campo di battaglia, sul quale il giudizio e la ragione fanno la guerra al desiderio e alla passione.
Potessi conciliarli io, così da volgere la rivalità degli elementi in unione e armonia dentro di voi.
Ma come farlo, a meno che non siate voi a dar pace e anzi amore a tutti gli elementi?

La ragione e la passione sono il timone e la vela dell’anima vostra che va per mare.

Se le vele o il timone si spezzano, non potete che andare sballottati alla deriva o restare fermi in mezzo al mare.
Perché, se la ragione domina da sola, è una forza che imprigiona.
E la passione, quando è incustodita, è una fiamma che brucia fino alla sua stessa distruzione.
Perciò la vostra anima esalti la ragione al colmo della passione, affinché essa canti;
E con la ragione imbrigli la passione, così che questa viva la sua risurrezione quotidiana, e come la fenice rinasca dalle ceneri.
Vorrei che giudicaste ragione e desiderio come due ospiti graditi che avete in casa vostra.
Di certo non avreste riguardi più per l’uno che per l’altro; perché chi ha più attenzioni per uno solo perde l’affetto e la fiducia di entrambi.

Quando, sui colli sedete al fresco e all’ombra dei bianchi pioppi, condividendo la pace e la serenità dei campi lontani e dei prati, allora vi suggerisca il cuore: «Dio riposa nella ragione».
E quando scoppia la tempesta e il forte vento scuote la foresta, e tuoni e lampi proclamano la maestà del cielo, allora dite nel cuore con timore reverenziale: «Dio agisce nella passione».
E poiché siete un alito nella sfera di Dio e una foglia nella sua foresta, nella ragione anche voi riposerete e nella passione anche voi agirete.


LA SOFFERENZA

E una donna chiese: «Parlaci della Sofferenza».
Ed egli disse:
«La vostra sofferenza è il rompersi del guscio che chiude la vostra conoscenza.
Come il nocciolo del frutto deve rompersi perché il suo cuore possa esporsi al sole, così voi dovete conoscere il dolore.
E se voi sapeste custodire in cuore la meraviglia dei prodigi quotidiani della vita, la sofferenza non vi stupirebbe meno della gioia;
E accogliereste le stagioni del vostro cuore, come avete sempre accolto quelle che passano sui campi.
E veglierete con serenità negli stessi inverni del vostro affanno.

Gran parte del vostro dolore l’avete scelto voi.
E’ la pozione amare con cui il medico che è in voi guarisce il vostro male.
Perciò dategli retta, e bevete il suo rimedio, tranquilli e fiduciosi:
Perché la sua mano, benché pesante e dura, è retta dalla tenera mano dell’Invisibile,
E la coppa che vi porge, anche se brucia le vostra labbra, è stata fatta con la creta che il Vasaio ha inumidito con le sue sacre lacrime».


LA CONOSCENZA

E un uomo chiese: «Parlaci della Conoscenza».
Ed egli rispose, dicendo:
«I vostri cuori conoscono in silenzio i segreti del giorno e della notte.
Ma le vostre orecchie hanno sete di sentir pronunciare ciò
Vorreste esprimere a parole ciò che avete sempre saputo nel pensiero.
Vorreste toccare con le dita il corpo nudo dei vostri sogni.

Ed è bene che sia così.
La nascosta sorgente della vostra anima dovrà certo scaturire un giorno e correre mormorando verso il mare;
E il tesoro della vostra infinita immensità dovrà svelarsi ai vostri occhi.
Ma non lasciate che la bilancia pesi questo tesoro ignoto;
E non sondate le profondità della vostra conoscenza con l’asta o lo scandaglio.
Perché l’io è un mare immenso e sconfinato.

Non dite: «Ho trovato la verità», ma piuttosto: «Ho trovato una verità».
Non dite: «Ho trovato la via dell’anima». Dite piuttosto. «Ho incontrato l’anima sul mio sentiero».
Perché l’anima cammina su ogni strada.
L’anima non segue una linea retta, e neppure cresce dritta come una canna.
L’anima si chiude come un fiore di loto dai mille petali».


LA PAROLA

E allora uno studioso chiese: «Parlaci della Parola».
Ed egli rispose, dicendo:
«Voi parlate quando non siete più in pace con i vostri pensieri;
E quando non potete più restare nella solitudine del vostro cuore, vivete con le labbra, e il suono è uno svago e un passatempo.
E in molte delle vostre parole il pensiero è quasi ucciso.
Perché il pensiero è un uccello leggero, che in una gabbia di parole può spiegare le ali, ma non può volare.

Vi sono quelli tra voi che cercano gli uomini loquaci per paura di restare soli.
Il silenzio della solitudine rivela a essi la loro nudità, e vorrebbero sfuggirla.
E vi sono quelli che senza consapevolezza o cognizione parlano di verità incomprese a loro stessi.
E ci sono quelli invece che hanno in sé la verità, ma non la esprimono a parole.
Nel loro petto lo spirito dimora in un silenzio pieno di armonie.
Quando per strada o in piazza vi imbattete in un amico, lasciate che lo spirito vi muova le labbra e vi guidi la lingua.
Lasciate che la voce della vostra voce parli all’orecchio del suo orecchio;
Perché la sua anima custodirà la verità del vostro cuore, come si ricorda il sapore del vino.
Quando si è dimenticato il suo colore e il bicchiere ormai non c‘è più».

Kahlil Gibran


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