Opere di

Jakob Panzeri


Con questo racconto è risultato 2° classificato – Sezione narrativa nella XVI Edizione del Premio letterario Il Club dei Poeti 2012


Questa la motivazione della Giuria: «Jakob Panzeri mette in piena luce le sue capacità nel raccontare la storia di Afareen, giornalista accusato di cospirare contro le autorità iraniane e contro le istanze della rivoluzione islamica. La sua scelta è stata quella di “scrivere e raccontare la verità” sul suo blog, ma è stato arrestato e condannato a morte ed ora è in attesa dell’esecuzione nel carcere di Evin. Jakob Panzeri offre un racconto di denuncia politica e sociale, una testimonianza forte e dolorosa ma pervasa da un profondo senso d’umanità». Massimo Barile


Afareen

Californian State University. Sono appena uscito dall’annosa frequentazione di semiotica e dirigendomi a passo svelto- ormai è alle mie spalle la grigio-azzurra struttura della sede di San Francisco – giungo nel quartiere cinese, la più antica e integrata Chinatown degli Stati Uniti d’America. Colpito dal dolce tintinnio nell’aria del rosso vermiglio di una lampada cinese, decido di entrare in quel ristorante di cui mi aveva parlato la mia Evelyne e provare magari, se ne avrò il coraggio, la tenera anatra laccata alla pechinese che lei tanto apprezza.

Non mi è piaciuta e ho voglia di correre.

Meglio l’Apple Pie che prepara mia nonna materna ogni domenica. Voglio andare sulla baia e là aspirare a pieni polmoni l’aria fresca del mare che profuma di iodio. Attraverso i circa 2 km del Golden State Bridge e all’improvviso non vedo più nulla. Vengo penetrato, risucchiato, divorato dalla nebbia. Bianca. Bianca è la mia stanza senza finestre, bianca è la tela sdrucita di cui sono vestito, bianche sono le inferriate del giaciglio di paglia e bianco è anche il mesto riso appoggiato sul nudo giaciglio bianco. Ma dove sono? Giro i miei occhi incredulo. Non ero sulla bella West Coast lungo il Golden State Bridge? E dove è finito quel sapore acidulo di anatra che tenevo sulle papille della lingua? Adesso ho capito. Mi sono appoggiato rassegnato sul nudo pavimento bianco della mia stanza bianca e ho iniziato a piangere.

Io sono un condannato a morte

Non so né come né quando, so che in giorno mi preleveranno per portarmi nel grande cortile di Evin. Ogni giorno qualcuno è chiamato ad andarci, scelto secondo chissà quali alchimie, e ogni giorno giungono alle orecchie di chi resta i colpi violenti di qualche fucile o gli ultimi gemiti degli impiccati prima di spirare sulla forca . Succederà così; non si può uscire dal supercarcere di Evin, il terribile Evin protagonista della rivoluzione khomeinista. È un labirinto che inghiotte tutti nel suo bianco, e io non sono un nuovo Teseo né ho un filo di Arianna o l’ingegno di Dedalo per uscirne. E sapete perché sono un condannato a morte? Ho scritto nel mio blog: «Dov’è il mio voto?», lo ho scritto in corsivo e poi di nuovo, in grassetto, quasi per gridarlo al mondo degli internauti che mi avrebbero letto. Lo ho scritto a caratteri cubitali. Cosa pensate che fosse? Il tiranno era il numero 4, il nostro Mousavi il 44. Un tocco di mina, un lieve segno di uno scrutatore o uno studente è bastato per cambiarlo. Dov’è il mio voto? È forse volato via lungo i clivi dell’altopiano iranico che profuma di cannella e pistacchio- quella cannella marrone e quel pistacchio verde di cui sento la mancanza in questo bianco eterno, come se fossi al centro di un enorme caleidoscopio che nel suo giro ha assorbito tutti i colori- o si è forse dissolto nel vento caldo che accarezza le acque del Tigri e dell’Eufrate?

Mi chiamo Afareen, master in giornalismo

Ho dichiarato guerra a Allah e cospirato contro la libertà e l’autorità del popolo e delle autorità iraniane ma in realtà ho solo scritto sul mio blog la verità. Forse non avrei dovuto farlo. Ora sarei di nuovo in California, magari passeggiando con Evelyne per la città degli angeli, invece ho scelto di scrivere. Non so perché lo abbia fatto, se per quell’inesprimibile desiderio di libertà insito nel cuore umano o solo perché volevo mettermi in mostra ed evidenziare che io non ho paura di stare contro al potere. Sono un condannato a morte, è questa la frase martellante che continua a traforarmi il cervello e i timpani: sono un condannato a morte.

“Screcc”

Vengo distratto dal leggero cigolio della porta, mi ritraggo spaventato in fondo alla mia bianca stanzetta sul bianco pavimento: troppe volte ho collegato il cigolio e gli “screcc” di quella porta alle guardie bianche dal cappuccio bianco che mi hanno seviziato con cavi elettrici di cui avvertivo le lacerazioni della pelle. Stavolta no, hanno solo portato via la scodella del mesto riso bianco: per il resto della giornata non avrei mangiato altro. Di nuovo. Di nuovo spari, di nuovo lamenti giungevano alle mie orecchie, non so se realmente dall’esterno o cementati nella mia testa. Ormai è così, tutti i giorni. Ma come? L’uomo è capace di questo? Non lo avrei mai creduto pur avendo incontrato nei miei studi la celebre frase di Hobbes: «homo homini lupus». Quale diritto, quale divinità, quale autorità gli ha concesso di percuotere i suoi simili, di rovesciarli, di straziarli per colpe autentiche o no, di privarli del soffio di vita, del torrente della loro esistenza? Lo faranno anche a me. Ho dichiarato guerra ad Allah e cospirato contro la libertà della rivoluzione islamica.

Ma io ho detto la Verità.

Così mi sono svegliato oggi. Con un secchio di acqua ghiacciata che mi ha intirizzito le ossa della schiena. Acqua bollente o ghiacciata, questa è la sveglia del carcere del temibile carcere di Evin. Mi scoppia la testa e non è cambiato nulla. Mi opprime questo bianco che mi divora, questa nullità incolore che mi penetra; ora mi alzo, ora prendo a pugni quella massa informe , vorrei avere in mano un pastello colorato per scrivere sui muri «Dov’è il mio voto?», ora invece mi accascio sul pavimento bianco caldo di lacrime bianche. Forse ho capito: ho scritto sul mio blog per il popolo, per i miei nonni paterni iraniani che son venuto a trovare approfittando delle elezioni , ed è per questo che deve pagare il mio sangue. Dovrei averlo accettato ormai, finirà così. Eppure voglio vivere, sente scorrere nelle mie vene una linfa di volontà e speranza unita alla rabbia. Stanotte mi eri venuto in mente tu, Azhade, il figlio che mai avrò. Un giorno la mia ragazza Evelyne mi avrebbe annunciato la tua nascita e io educandoti ti avrei raccontato un atavico mito, una dolce favola, la stessa che mio nonno mi raccontava in fasce e che a sua volta, lattante, gli era stata raccontata dal trisavolo.
C’era una volta, caro Azhade, un eroico sovrano che si chiamava Gilgamesh. Costui non era soddisfatto dalle ricchezze smisurate della sua reggia, dalla belligerante potenza dimostrata in campo, del fedele amore della sua donna. Voleva qualcosa di più: desiderava la vita, la vita piena. È così aveva abbandonato tutto, aveva lottato contro un toro celeste e perso il suo migliore amico. Grazie all’aiuto di un vecchio saggio era poi partito alla ricerca di un biancospino nelle praterie del mare e l’aveva colto. Illuso! mentre riposava, un serpente mangiò il cuore della pianta della vita che Gilgamesh non aveva saputo custodire.

Così è l’uomo, caro Azhade, si comporta allo stesso modo: crede di essere il migliore, il più forte, il più saggio ma non esita a schiacciare la testa del suo simile, illuso, non sa custodire il dono della vita e il la compagnia degli altri . Ti uccide se non dici quanto lui, la bestia, vuole che tu dica. Questo è l’uomo. Homo homini lupus.
Azhade, perché significa libero nella lingua dell’altipiano

Libero

Jakob Panzeri


NOTA DELL’AUTORE: Questo testo è stato scritto nel giorno della ricorrenza dell’anniversario della rivoluzione khomeinista, avvenuta l’11 febbraio 1979. Mi sono documentato con alcuni articoli dell’”Occidentale” sulle condizioni del carcere di Evin e le sevizie che ivi vengono eseguite . In esso vengono torturati e condannati a morte da trent’anni migliaia di dissidenti e oggi i giovani dell’Onda Verde. La tortura bianca, inflitta ad Afareen è una procedura di quell’inferno, ennesima sconfitta dell’uomo di fronte a un altro uomo. Alcuni dei perseguitati politici di Evin, come il dottor Jashmid Amiri, vivono ora in Italia, nel paese che nel 2006 ha presentato alle Nazioni Unite una moratoria per l’abolizione della pena di morte.
Di questo dobbiamo essere fieri.



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