Racconto premiato di Isabella Coluzzi


Con questo racconto è risultata 10^ classificata nella XX Edizione del Premio Letterario Marguerite Yourcenar 2012 – Sezione narrativa


Questa la motivazione della Giuria: «Racconto pervaso d’amore e proteso ad alimentare i sentimenti puri ed autentici. I protagonisti, Luca ed Elena, si amano profondamente, ma lei non riesce a rimanere incinta. Il loro desiderio di avere un figlio “da amare” è forte eppure il destino sembra negare tale gioia. Inaspettatamente, lei trova un neonato che è stato abbandonato vicino ad un albero del bosco. Sarà il “dono del bosco” che illuminerà la loro vita con la luce dell’amore». Massimo Barile


Il dono del bosco

La casa di Luca era una villetta a due piani circondata da un piccolo rettangolo di giardino. Era una di quelle villette costruita negli anni Settanta nella zona residenziale della città, un edificio basso e ben curato, di una tipologia architettonica che ricordava certi palazzetti borghesi di primo Novecento. Non era una villetta a schiera, e non aveva nulla da condividere con i terribili casermoni popolari che erano spuntati solo pochi isolati più avanti. Il panorama che si vedeva sullo sfondo era un’ampia vallata su cui si stendevano ettari ed ettari di bosco.
La prima volta che aveva visto quella casa, ne era rimasto entusiasta ed aveva immediatamente pensato di acquistarla per sé e quella che sarebbe stata la sua futura famiglia visto che a breve avrebbe sposato Elena, sua fidanzata da ormai tre anni, una ragazza carina, i cui occhi chiari di un verde smeraldo lo avevano incantato al primo sguardo. E poi i suoi modi garbati e la sua appartenenza ad una buona famiglia l’avevano fatta apprezzare ai suoi genitori borghesi che mai avrebbero voluto vedere al suo fianco una donna eccentrica o stravagante, poco adatta a rappresentare la loro posizione di solidi imprenditori da parecchie generazioni. Luca amava sinceramente Elena anche se la sua scelta era passata al vaglio dei suoi genitori come del resto anche le sue scelte in altri campi. Lui aveva sempre cercato di accontentarli, lo aveva fatto fin da piccolo, da quando il nonno aveva preso a portarlo con sé in fabbrica per mostrargli quelle macchine gigantesche di acciaio che a lui allora avevano fatto quasi paura come fossero degli autentici mostri e che avevano alimentato la sua fantasia perché era proprio da lì, spingendo tasti e bottoni che poi venivano forgiati manufatti preziosi, vanto della prestigiosa Azienda di famiglia. Dopo il nonno, anche suo padre lo aveva sempre coinvolto in quel loro lavoro di artigiani di mobili, l’unica deroga per entrarvi definitivamente a far parte era stata quella di attendere che si laureasse in architettura, poi non ci sarebbero stati ripensamenti, né se, né ma, era un Buratti e la tradizione non si discuteva.
Così, dopo la laurea, quella villetta gli era parsa il luogo adatto dove trascorrere con Elena la sua vita futura. E poi la visione di quel bosco in lontananza a ricordargli la materia prima da cui era stata generata la fortuna della sua famiglia l’aveva proprio convinto tanto da fargli affrettare la conclusione di quell’affare. Ne aveva parlato subito a Elena con la quale era poi andato a visitarla di nuovo perché gli era sembrato giusto, comunque, decidere insieme a lei. Ma, conoscendola bene, era certo che le sarebbe piaciuta. Infatti, non si era sbagliato. Lei ne era rimasta piacevolmente soddisfatta: l’immenso salone al pian terreno con le ampie vetrate stile liberty che lo illuminavano, il camino nell’angolo, gli alti soffitti con le travi di legno, le grandi stanze da letto al piano superiore, la mansarda dove poter rifugiarsi ogni tanto a meditare, tutto le era piaciuto, anzi, aveva manifestato il desiderio di andarvi ad abitare al più presto, giusto il tempo per tinteggiare le pareti e apportare qualche piccola modifica, tempo che avrebbe coinciso con i preparativi del matrimonio e cioè non più di sei mesi. E poi anche a lei la visione di quel bosco di faggi e abeti in lontananza l’aveva come rapita, se ne era sentita attratta fin dal primo momento come se in quel luogo vi fosse qualcosa di magico che non avrebbe saputo dire cosa fosse realmente.
Così, dopo il viaggio di nozze si erano definitivamente insediati in quella villetta dove avevano iniziato la loro nuova vita di giovani sposi desiderosi al più presto di mettere al mondo un figlio, magari anche due, insomma una famiglia. Elena, che intanto lavorava nell’amministrazione dell’Azienda di famiglia, aveva già manifestato l’intenzione di rimanere a casa non appena fosse rimasta incinta, tanto desiderava essere madre. Nulla lasciava presagire che quel loro naturale desiderio di essere genitori si sarebbe scontrato con la realtà ben più crudele dei loro sogni e che sarebbero passati anni senza poterlo realizzare. erano, infatti, trascorsi ormai cinque anni dal loro matrimonio e nonostante le ripetute visite, le indagini e le cure a cui Elena si era sottoposta pur di rimanere incinta, nulla era accaduto. Luca, in un certo qual modo, assorbito dal suo lavoro quasi completamente, sembrava meno colpito o forse riusciva a nascondere meglio il suo rammarico, mentre Elena non riusciva proprio a darsi pace e stava cadendo sempre più in un pericoloso stato depressivo. Usciva poco e aveva più volte manifestato il desiderio di lasciare anche il lavoro nell’Azienda nonostante le ripetute insistenze di Luca preoccupato e impotente di fronte alle sue reazioni.
C’era solo una cosa che ancora le piaceva molto, andare a fare passeggiate in quel bosco di faggi e di abeti perché, raccontava poi a Luca, lì si sentiva serena, in mezzo a quella rigogliosa natura ritrovava un po’ di se stessa. E un giorno in quel bosco accadde qualcosa di straordinario. Era fine ottobre e il clima era ancora gradevole, mentre passeggiava si era chinata a raccogliere una foglia rossastra quando sentì un guaito lì nei pressi. Ascoltò attentamente la provenienza di quel lamento e ne seguì le tracce finché giunse vicino ad un albero sotto il quale vide un cane randagio con il mantello maculato bianco e nero che nascondeva una specie di fagotto. Lì per lì la donna fu presa alla sprovvista e non sapeva se avvicinarsi o meno. Non aveva mai avuto paura dei cani, anzi, li amava ma era pur vero che quello era un randagio e poteva rivelarsi pericoloso. Eppure percepiva che l’animale voleva si avvicinasse perché scoprisse cosa nascondeva. Così, prese coraggio, si chinò, allungò piano una mano pronta a ritrarla se l’animale avesse tentato di morderla e frugò. Ecco che allora davanti ai suoi occhi si presentò una visione incredibile: nel fagotto grigiastro c’era un bimbo, un neonato che la fissava con due occhioni scuri e smarriti. Elena trasecolò afferrando subito quel piccolo essere indifeso e abbandonato da chissà chi e soprattutto da quando? Non perse tempo e seguita dal cane con il bimbo stretto tra le braccia a passo svelto tornò verso la villetta. Chiamò subito Luca al telefono e con tono concitato, senza preoccuparsi di metterlo in ansia, lo pregò di raggiungerla immediatamente, era questione di vita o di morte. L’uomo dopo poco era a casa e precipitandosi verso di lei con il volto contratto dalla paura disse: «Cosa ti è successo di così grave da non poter aspettare?»
Elena lo prese per mano e lo condusse nella loro stanza da letto dove adagiato tra due cuscini il bimbo sgambettava e frignava. Luca lo guardava imbambolato non comprendendo di chi fosse quel neonato e cosa ci facesse in casa loro. Lei, allora, gli raccontò per filo e per segno quello che le era accaduto mentre passeggiava nel bosco, del resto lei aveva sempre sentito una magica attrazione per quel luogo, l’unico dove si sentisse bene. Luca era rimasto a guardarla a bocca aperta anche se non aveva perso lucidità per cui si diresse verso il telefono e chiamò la polizia. Agli agenti raccontarono la storia di quell’incredibile ritrovamento e poco dopo furono invitati a seguirli in commissariato dove alla presenza di un’assistente sociale chiamata per la strana circostanza riferirono nei minimi particolari la vicenda. Nei giorni che seguirono, mentre venivano fatte ricerche in ogni direzione per cercare di rintracciare i genitori del piccolo, Luca e Elena manifestarono la loro intenzione di poter prendere almeno in affidamento il bambino, visto che erano una coppia solida e affiatata. Nonostante le buone referenze non fu affatto facile ottenere l’affidamento; Luca e Elena furono sottoposti a continui e snervanti colloqui, test di ogni tipo e passarono parecchi mesi prima che il giudice si pronunciasse in loro favore. Elena, viveva in continua trepidazione e nel segreto del suo cuore non smetteva di sperare di poter accudire e amare quel bimbo che considerava ormai un dono del cielo che si era servito di quel bosco e di quel cagnolino per farlo giungere fino a lei.
Nel frattempo, si consolava proprio con quel meticcio maculato e scodinzolante che aveva chiamato Lucky e aveva tenuto con sé fin dal ritrovamento. Finalmente un giorno arrivò la chiamata del giudice che li convocava: ce l’avevano fatta, il bimbo era affidato a loro fin quando non si fossero ritrovati magari i genitori, oppure nel caso nessuno si fosse fatto vivo in futuro avrebbero potuto anche adottarlo. Bisognava aspettare ed avere fiducia e loro due, Luca e Elena ne avevano tanta, da vendere.
Sono passati ormai venti anni da quel giorno e Luca, sdraiato nel giardino al tiepido sole di aprile, mentre legge il giornale, ogni tanto fissa in lontananza il magico bosco che gli ha regalato Matteo, ora un ragazzo alto e robusto, pieno di gioia di vivere, già appassionato dell’Azienda di famiglia. Guarda l’orologio, sono quasi le 13.00 e fra poco Matteo varcherà la porta del cancello gridando:
«Mamma, papà ci siete?»
Certo che ci siamo, pensa Luca tra sé, e per te ci saremo sempre, ti abbiamo aspettato tanto.



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