Racconto premiato di Isabella Coluzzi


Con l’opera «In treno da Milano a Roma» si è classificata all’8° posto alla XV Edizione del Premio Letterario Internazionale Il Club dei Poeti 2011


Questa la motivazione della Giuria: «Un viaggio in treno da Milano a Roma diventa momento di rivisitazione delle esperienze esistenziali di una donna che ora torna dal padre ammalato. Il ricordo è prepotente e struggente, la vita scorre veloce davanti agli occhi ed il racconto della propria vita si fonde con il viaggio stesso: per ritrovare il padre, per ritrovare una parte di se stessa. Isabella Coluzzi, con estrema delicatezza, rende narrativamente suggestivo tale stato d’animo».

Massimo Barile


In treno da Milano a Roma

Il treno Eurostar Frecciarossa 9503 delle ore 6.45 diretto a Roma T.ni è in partenza al binario 2. Non effettua fermate intermedie.
All’annuncio dell’altoparlante Marina affrettò il passo verso il binario dopo aver guardato sulla prenotazione il numero della carrozza e del posto. Purtroppo la carrozza 1 era in testa al treno e lei si trovava ancora nei pressi della 9, accidenti! Mancavano solo pochi minuti ma doveva assolutamente prendere quel treno. Uno scatto e le sue gambe lunghe ed agili si allungarono in ampie falcate e trascinandosi dietro il trolley piuttosto pesante raggiunse la carrozza. Si fermò per un attimo trafelata davanti alle porte, riprese fiato e poi salì. Cercò il suo posto e sedette. Prenotava se possibile sempre il posto accanto al finestrino perché le piaceva guardare fuori il paesaggio anche se ormai dopo 10 anni di via vai da Milano a Roma lo aveva impresso nella mente: la campagna pavese con le sue risaie gorgoglianti, la piana bolognese, le dolci colline fiorentine e poi la campagna laziale con la sua Roma che ogni tanto le mancava un po’ anche se ormai oltre al lavoro era anche l’amore a trattenerla a Milano.
Il treno si mosse scivolando pian piano sul binario poi, non appena fuori, prese un’andatura sempre più veloce ma senza il minimo rumore. Era uno di quei treni supermoderni ad Alta Velocità – no stop – che da qualche tempo percorrevano quella linea. Con sole 3 ore e mezzo avrebbe raggiunto Roma e lei questa volta doveva far presto.
Si guardò intorno e notò che i posti non erano tutti occupati.
«Giornale Signora?» chiese l’hostess di bordo con affettata gentilezza.
«Corriere della Sera» grazie.
Lo prese ma non lo sfogliò subito, lo ripose nel sedile accanto vuoto, non aveva voglia di leggere a quell’ora notizie che magari le avrebbero scombussolato lo stomaco. Si rannicchiò nella comoda poltrona con il volto fisso al vetro del finestrino pensando non solo a quante volte aveva percorso quella tratta ma a quante altre aveva preso il treno fin da bambina: infinite, non si contavano ormai. Amava viaggiare in treno, in assoluto, anche se aveva avuto modo di sperimentare sia l’aereo che la macchina. E mentre temeva la velocità su strada, ora che aveva provato l’Alta Velocità ferroviaria ne era entusiasta. Quel treno in alcuni tratti raggiungeva i 300 km orari ma lei non aveva paura, si sentiva, comunque, sicura su quel lungo fuso che attraversava come una saetta gran parte dell’Italia. Forse il suo era un amore atavico visto che suo nonno aveva guidato il mitico treno a vapore con la sbuffante locomotiva e suo padre non era stato da meno nel guidare per lunghi anni l’ormai consumata locomotiva 644, il Caimano e la Tartaruga. Veramente fantasiosi quei nomi per quei potenti mostri d’acciaio! Le sovvenne la foto in bianco e nero, appesa in un angolo dello studio di suo padre, con l’immagine impettita e piena d’orgoglio di suo nonno in divisa e cappello da ferroviere appoggiato a quella nera locomotiva denominata solo con un banale numero 640, chissà perché si era sempre chiesta.
Sorrise tra sé pensando a suo padre che avrebbe voluto vederla, magari in un altro ruolo, continuare quella dinastia di ferrovieri. Ma lei niente, non ne aveva voluto sapere perché fin da adolescente aveva sognato di insegnare le materie letterarie, la sua passione. E così era stato, non aveva mai cambiato idea fino alla laurea e poi ancora accettando di fare un concorso fin su a Milano dove poi aveva deciso di fermarsi con la sua nuova famiglia.
“Come c’era rimasto male, povero papà”, pensò tra sé, quando gli aveva comunicato che si era innamorata di un milanese e che sarebbe rimasta in quella città per sempre anche se avrebbe spesso fatto ritorno nella sua casa romana per venirlo a trovare!
Scherzando le aveva detto: «Ma chi ti fa su a Milan?».
E da allora l’aveva sempre chiamata “la mia bella Romana” proprio per sottolineare le sue origini affinché non dimenticasse la sua città. Ma lei amava sempre Roma, solo che amava anche suo marito e voleva vivere con lui.
Improvvisamente un brivido le percorse la schiena, quei pensieri l’avevano distratta dal suo cruccio: Marco, suo fratello, l’aveva chiamata la sera precedente dicendole di venire subito a Roma, suo padre non si sentiva bene, niente di preoccupante ma voleva vederla. Lei si era insospettita e aveva insistito perché non mentisse e le dicesse la verità sul suo stato di salute. Ma lui era rimasto nel vago e lei non aveva potuto far altro che prenotare quel treno veloce per andare incontro alla verità.
Fuori dal finestrino il paesaggio sembrava inghiottito dalla corsa del treno che sfrecciava senza sosta. Ed era proprio quel correre che le dava da sempre una sensazione di libertà assoluta, di leggerezza. Fin da bambina aveva provato quella piacevole emozione. Anzi, allora, con i vecchi treni il ritmico moto ondulatorio delle ruote sulle rotaie la cullava e alle volte la faceva addormentare.
Guardò l’orologio, le nove e trenta, fra poco meno di un’ora sarebbe arrivata in stazione. Prese il giornale e lo sfogliò per far passare più in fretta il tempo, ma non riuscì a concentrarsi. Decise di andare alla toilette.

Alle 10,15 in punto il treno imboccò il binario di destinazione e pian piano entrò in stazione. Marina davanti alle porte automatiche era pronta a scendere. La sua ansia tenuta a bada con i ricordi e le riflessioni si era fatta insostenibile. Sperò, tra l’altro, di essere fortunata nella ricerca del taxi.

Alle 10,45 il taxi la lasciò davanti il portone della sua casa natale in Via Nomentana. Chiamò l’ascensore, premette il tasto 3. Suonò alla porta e poco dopo si trovò davanti Marco. Lui la guardò negli occhi, poi le prese la mano libera dal trolley e portandola all’interno le disse:
«Hai fatto presto».
«Ho preso un treno veloce alle 6,45. Ma dimmi papà come sta?».
«Vieni».
L’uomo, disteso nel letto, con gli occhi chiusi, sembrava assopito. Marina si chinò su di lui e gli accarezzò il volto pallido. Lentamente lui aprì gli occhi, poi con fatica prese la sua mano e la strinse:
«Ciao cara, non ci hai messo molto ad arrivare, ti stavo aspettando».
Marina strinse forte la sua mano ingoiando a fatica le lacrime che le serravano la gola.

Isabella Coluzzi



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