Parola alata

di

Giuseppe Terranova


Giuseppe Terranova - Parola alata
Collana "I Gigli" - I libri di Poesia
12x17 - pp. 68 - Euro 7,70
ISBN 978-88-6587-5124

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In copertina: “Falco di legno” illustrazione di Luigi Seregni


PREFAZIONE

L’autore di queste poesie ha ritrovato nella parola “alata” e “trasformata” il lievito nascosto della realtà di ogni giorno vissuto. Non nasce giovane, il poeta: scopre l’emozione dello scrivere in età matura, sorpreso da un magma di sentimenti, ricordi, immagini, esperienze, desideri… che fuoriescono dall’anima, come da un vulcano. Le parole scorrono veloci e, attraverso percorsi lavici, raggiungono un mare di pagine scritte. Tutta la vita si manifesta: la giovinezza, l’adultità, la storicità del tempo passato e presente, la dimensione sociale, la partecipazione agli eventi dell’umanità, la valorizzazione originale dell’opera d’arte, la quotidianità del vivere, le pulsioni del cuore, le lotte titaniche dei pensieri, la dimensione esperenziale di un uomo. Riscopre la libertà nella e con la poesia. Dentro le combinazioni infinite della parola rifonda gli istanti preziosi che originano il suo pensiero: la mente si libera per gioire nella creazione di un verso che, plasmandosi, sostiene l’artista nella sua avventura. Gli importanti studi classici, l’approfondita cultura filosofica, la straordinaria passione per l’insegnamento, la sensibile umanità verso gli altri lo accompagnano e lo attraversano.

Daniela Colombo


QUESTA MIA ULTIMA RACCOLTA…

Questa mia ultima raccolta di versi è suddivisa in tre sezioni: la prima, intitolata “Parola alata”, parla della mia visione della poesia e di cosa essa rappresenti nella mia vita; la seconda, col titolo “Radici”, è un omaggio alla Sicilia della mia infanzia; la terza, “Mélange”, è una sezione dove parlo di alcune mie passioni intellettuali e di alcuni particolari momenti esistenziali. In poesia, come in ogni altro ramo dell’arte, ci sono poeti “aurorali” e poeti “seròtini”. Ci sono poeti che la Musa bacia fin dalla più tenera età e che, quindi, ci regalano primizie fin dagli anni di formazione giovanile; e ce ne sono altri – e io mi sento tra questi – che hanno dovuto superare le dune sabbiose della vita prima di giungere alla Terra Promessa della dimensione lirica – e della poesia qua talis –. A questa mi hanno portato, per fortuna, le numerose “metamorfosi” che hanno scandito la mia esistenza spirituale e che mi hanno visto camminare sulle sabbie mobili ora della religione e della fede, ora della filosofia e della ragione, ora della politica e dell’utopia, per toccare infine la terraferma della letteratura e della poesia. Si parva licet componere magnis, rispetto a certi demiurghi di pseudonimi ed eteronomi del passato, uno dei quali ha parlato di passaggio dallo stadio estetico a quello etico e poi a quello religioso, come stadio apicale nella vita del filosofo; nel mio caso, invece, è avvenuto l’opposto: dallo stadio religioso, attraverso quello etico – della filosofia, della pedagogia e della politica – sono pervenuto a quello estetico – dello spirito libero, del Freigeist, del nichilismo danzante e gioioso –. Per ultima quindi – ma solo perché ritrosa e discosta, pur essendo sempre stata presente a vegliare su di me negli stadi precedenti – è giunta la Poesia, ombra muta e discreta negli anni ruggenti e dello “spirto guerrier”, ma finalmente presenza forte nella stagione crepuscolare della mia vita. Accantonato il turibolo e l’incenso inebriante; affossati l’urlo d’arena prevaricatore, la tenzone sofistica d’agorà e la ùbris sclerotizzante del pensiero concettuale, mi piace ora solo raccogliere emozioni, sensazioni e nuances, che vivono nei meandri più umbratili e reconditi dell’anima, destinando solo alla Parola alata la funzione di messaggera dell’Essenziale – che altri preferiscono denominare Divino o Metafisico –. Saper posare lo sguardo sulle cose e coglierne i palpiti più riposti che sfuggono a un occhio superficiale: in ciò risiede la specificità della poesia. Le cose, infatti, non sono mute; ma, al contrario, hanno un loro linguaggio, un loro codice espressivo, una loro musicalità, una loro ricchezza fantasmagorica e complessità cromatica e solo il poeta riesce a entrare realmente in sintonia con esse e ad esprimerle con soddisfacente efficacia. Nei versi di questa sezione è possibile cogliere, senza pretesa esaustiva alcuna, qualche cenno di poetica in fieri. Satis!
Da sempre nei miei versi parlo della Sicilia, ma in questa raccolta ho voluto dedicare una sezione intera alla mia terra natia; sezione che, volutamente, ho intitolato “Radici”. “Radice” è ciò che m’ha originato, ciò che mi caratterizza e contraddistingue; ciò che mi fa sentire appartenente a una zolla, a un cielo e a un mare, ma insieme cittadino del mondo – una sorta di insularità cosmopolita o di cosmopolitismo insulare –.
In me convivono le multiple anime della “sicilianitudine”, senza che nessuna di loro prevalga sulle altre: da una parte, malinconica struggenza e sereno nichilismo e, dall’altra, sarcastico cinismo e inerzia levantina. Il Siciliano è strutturalmente saturnino e la mestizia ne stimola la natura poetica. Troppe sofferenze e angherie storiche per non esserlo, ma troppe angustie e ristrettezze quotidiane per crogiolarsi in essa. Questa “sana” malinconia è il suo tesoro. Ad essa si associa un vivo senso dell’ironico, della satira graffiante, della risata amara, mai rassegnata e disperata però. Quante Sicilie esistono? Tante, forse quante i Siciliani. Se non di più. E tra queste c’è pure la “mia” Sicilia, profondamente presente in me, in quello che sono stato e in ciò che sono; sintetizzabile con l’espressione “paese dell’anima”. Tale è il paese natio perché, finché si è in vita, lo si porta dentro di sé e nessuna distanza geografica e nessuna lontananza nel tempo può cancellarlo. Esso è connaturato al nostro essere, è la nostra stessa quintessenza; con esso si crea un legame affettivo così intenso, quasi sacrale, che nessuna tormenta può spezzare. Nessun altro paese che ci ha accolto e ci accoglie può prenderne, nell’anima, il posto. Esso rappresenta la nostra infanzia, sognante e mitica, quel ch’eravamo e che più non siamo.
Sono via dalla Sicilia (“l’isola del sole”), ormai, da molto tempo, quasi da sempre si può dire; eppure gli anni della puerizia sono quelli che più facilmente diventano poesia perché quei ricordi tornano sempre a bussare: ora come luoghi (Mazzarino, Pedara, l’Etna, Niscemi, Gibliscemi, ecc.), ora come persone (Ottavio, Scapuzzulidda, mia madre, mio padre e tante altre figure della mia puerizia di cui ho parlato anche nelle raccolte di versi precedenti), ora come profumi, ora come colori, ora come dolori, e così via – tutti però metamorfosati dal rimpianto per quel che ormai non è più e mai più tornerà –. Nella Sicilia dell’anima c’è questo e tant’altro. C’è il miraggio d’una terra dai mille sembianti, dono di dèi; c’è l’Europa e anche l’Africa, l’Occidente e anche l’Oriente, la croce e la mezzaluna; e vi convivono, l’uno accanto all’altro, umori di complessione “barocca”, arzigogolature bizantine e cavillosi garbugli, lune laviche e deserti d’illegalità. Tanto, forse troppo, s’è scritto sulla Sicilia di ieri e di oggi. Quante Sicilie ci sono state tramandate! Ma esiste la Sicilia in carne e ossa o essa è soltanto metafora di altro? Essa è una o una, nessuna e centomila? Di che colore è la Sicilia, come si chiedeva Bufalino? È quella verde del carrubo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella nera della lava? Essa è una terra ossimorica, un concentrato d’opposti e un crocevia di contrari; una terra “numinosa” di dèi, eroi, ninfe, trovatori, asceti, condottieri, pupari; terra sanguigna e vulcanica, di parvenza (“schein”) e non di essenza (“sein”), d’ombre e luci, di canti e lamenti, d’inerzia sognante e ancestrali follie; terra maliardica e di frontiera, laconica e eccessiva, mistica e teatrale, orrida e mirabile, lirica e gattopardesca. Di natura multipla e intrinsecamente contraddittoria, tragicamente sublime, di laconicità barocca e di gestualità loquente, di silenzi e segni parlanti, di insolubili contrasti e di irredimibili colpe. Io mi sento appartenere a quella schiera di Siciliani – e sono tanti – che amano la Sicilia della cultura, dell’arte e della legalità; che prediligono cantare non la Sicilia violenta e rusticana ma quella di Stesicoro, di Teocrito ed Empedocle, dei trovatori federiciani, dei poeti di lingua araba, dei cantastorie popolari, di Sciascia e Guttuso, di Buttitta e Bufalino, di Tomasi di Lam­pedusa e Lucio Piccolo, di Verga e Pirandello – e quella più tragica di Pippo Fava, di Peppino Impa­stato, di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino –. È proprio questa Sicilia del Bello e del Giusto che ho cercato di far parlare sempre nei miei versi, dove s’intrecciano “emozioni” che, troppo a lungo, sono rimaste latenti e private.
“Mélange” è intitolata la terza sezione di questa raccolta di poesie. Proprio perché, metaforicamente, si vuole alludere al fatto che, in essa, sono concentrate poesie di contenuto vario – così come il caffè migliore nasce dal miscuglio di più miscele –, che rispecchiano fugaci momenti di vita e radicate passioni intellettuali e estetiche, come ho già tenuto a fare nelle raccolte precedenti. Le poesie sono una sorta di resumè emotivo di tutto ciò che reputo renda significante l’esperienza quotidiana: amore per il bello (filocalia), momenti d’estasi metafisica, vortici del cuore, paesaggi dell’anima, arte intesa nell’accezione più nobile e pura, ecc.; un piccolo campionario, insomma, di ciò che illumina la mia quotidianità.

L’Autore


Parola alata


1 – PAROLA ALATA


DEDICA

Alla fonte
della mia dolente erranza
solo metafisici silenzi,
lettor cortese,
troverai perché,
come novello “cane”,
con nude mani
l’arsura del vivere
refrigerando, anch’io
un dì la ciotola gettai.
Sappi, però, che morte nature
miei canti non sono
e che un numinoso alveo
dal mio quotidiano garbuglio
germina; e, benché dilemmatiche
le sue acque appaiano,
senz’indugio o tema,
nell’ermetico flusso
il crivello immergi perché,
di certo, qualche aurea pepita
inverrai.


REMAINDERS

O lettor gentile, rovista pure
tra le scansie di bottega mia.
È vero; all’oblio, dall’incuria
dannati, solo remainders
e qualche intonso tomo
sulle canute scaffe, ormai,
residua; ma, tra loro, di mia vita
il canzoniere senz’altro c’è;
prendilo senza indugio
e le pagine sfogliane perché,
pur tra un refuso e l’altro,
residue gocce di sublime
ancora invenire si può.


IL MIO CANZONIERE

Effemeride, sì effemeride,
il canzoniere mio.
Senza verecondia alcuna
lo confermo. Del tarantolare
dei chirurghi del verso non mi curo.
Elemosinare uso non sono
compiacenze o encomi.
Il sincero sorriso d’un sodale,
che di mio canto e di me si pregia,
sol m’importa.


A CHE PRO?

a G.

Alla maniera antica,
con leggiadria perita
e con lima di vezzosa rima,
graziosi versi cesellar potrei,
amico. Ma a che pro?
Sterile finzione, lo sai,
il vuoto rimare, nient’altro.
Solo il sofferto canto –
sincero respiro di Musa –
la vita autentica; magico flauto
che, con bel suono, di noi danzanti
perdigiorno, il funesto Tempo
blandisce e le vuote ore aromatizza
e colora.


AUREO FILONE

Tardi, scalando monti e attraversando
valli, dopo lungo errare, il mio aureo
filone ho trovato. Eppure, nel torrente
oltre il bosco, a me davanti era il pregiato
metallo. Necessario solo un crivello
e incosciente – o matura? – baldanza.
E solitudine di prateria – e struggente
crepuscolo e ululato di coyote –. Faticosa
dapprima la cernita, deludenti gli esiti;
solo sabbia e sassi. Ma, dopo accanito vaglio,
le prime piccole pepite; e, subito dopo,
tra le mani, Poesia, inestimabile tesoro.


ALTRO SGUARDO

Ben lo so. D’aspro tralcio succo
e di periferica arnia nettare,
il mio verso. A regola d’arte, mai;
d’antan, forse. Pochi sodali
al simposio d’altro sguardo
e di voluttuoso sentire, grasso
humus di profondo solco che,
l’attimo, eternizza. Pago
di ciò, comunque, io.


NON IO, MA LEI

Non io ma lei, – paziente,
ritrosa, sfuggente –, Poesia,
m’ha cercato. Troppo tardi,
forse? Dirlo non so.
Nel gioco delle odissee,
cometa; nella notte dell’anima,
oasi. Squarcio tardivo,
nell’ombra dell’essere.
Destino.


SOLO UN INGENUO RIMARE

Di pubertà, in segrete stanze,
versi non serbo – altri, d’allora,
i miei cimeli: mistiche ebbrezze
e ottundenti quaresime –. Di poi,
sorseggiando utopie, di scomparse
atlantidi fantasticai e di sublimanti
iperurani. Sordo ancora il cuore al canto
d’usignolo – solo un ingenuo rimare
che, artificioso e dissonante, ora m’appare.
Morsi di crotalo, pestifera aria, sangue
e arena, tele di ragno, artificiali paradisi:
olocausti, tutti, a numi bizzarri. A simboli –
icone, astrazioni – ridotte persone e cose.
Dopo la cruenza però io, sfrigolante lumaca,
al Canto m’acclimatai – lentamente
ma con estuante slancio –.


SILENTE E DISCOSTA

Silente e discosta a volte
se ne sta, in scontroso diniego,
Parola. A gran voce allora
l’invoco; ma, schiva, mi
rifugge. Non mi dolgo.
Sarà lei, già lo so, a cercarmi,
come sempre. Garbata, e senza
verbosi incespicari, con amorevole
gesto mi stringerà a sé.


SEMPRE LIRICO

Quando, pigre e ritrose,
alle emozioni mal s’accompagnano
le parole, tutta l’abulia ne patisco;
ma, ancor più, quando, affannato,
sotto un cielo ipnotico, l’ebbra danza
inseguendone, la frenesia ne soffro.
Gocce sospese di poroso calcare esse, a volte,
sornione occhieggiare di residua densità;
settimino vagito di precoce genesi,
altre, vortice sgorbiato di segni rapidi
e nervosi. Ma sempre lirico il mio canto.
Solo dal baccanale, ben lo so, l’anima
più sincera del vivere si libra, la mia perlomeno.

[continua]


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