A PRECIPIZIO
A precipizio trascina
le lancette dell’orologio
il tempo (liquido
amniotico del vivere),
nella sfrenata corsa
verso il silenzio eterno.
Non so quanto breve
sarà il tratto che avanti
si para, ora che un nuovo
anno s’appropinqua.
Migliore o peggiore di quel
che s’accomiata? Saperlo
non cale. Volgere lo sguardo
a ciò ch’è stato diligo ormai,
fissare i superstiti umili fiori
dell’ieri divoratore, i perduti
amori (o disamori),
imbozzolato sempre più da Crono
nei miei cocenti smacchi.
ANANKE
Eludere il rapinoso Fato
dato ai mortali non è.
Incombente macigno
sul sentiero del vivere,
oblunga ombra a mezzodì,
Anànke.
Fragile vela
nell’insano pelago
di porpora,
foglia turbinante
nel mareggiar dell’onda,
statua silente
d’allucinata sibilla
l’ora perciò appare.
Di speranza, sempre meno,
l’infocata cometa brivida
e sull’alpe secca e spoglia,
nel vuoto senza voce
che orizzonte non ha,
preda più non trova
l’adunco rostro del nibbio
e d’illusioni
più non pasce
la peritura fama.
Tutti l’inertizzante borro
attende;
godiamo perciò,
finché del tenue raggio
la luce persiste.
APOLOGIA DEL SILENZIO
Per certo ormai so,
d’antica data,
che di mille riverberi
si traveste Parola;
solo quella però che,
come spina su nuda
carne, facendo l’anima
sanguinare,
profondamente penetra.
Nella crudità decadente
del presente non voci
maliardiche di sirena
né fatali attrazioni di fachiri
né tribali riti d’inessenzialità
barattare con essa ci è lecito,
pur tra miracolistiche
stupefazioni di plagiari al cerone
e rigidi moti d’incartapecoriti
manichini nel circo di malmostoso
cicaleccio, di putrido eloquio
e di ciarpame intarmolito dell’oggi.
Apostasia di suoni e voci,
dunque, e apologia del Silenzio,
unica serra di lirico incanto.
CERTE NOTTI
Certe notti, come zavorrata vela,
l’anima a fatica gli ormeggi scioglie,
inoltrandosi nel sudario di bruma
che ogni rovello inestricabile rende;
e, tra insonni presagi, sulla scena
caliginosa, pallidi e assorti rabdomanti
incontra che, con teatrale gesto,
panacee sul mistero di vivere regalano.
Ciascuno col suo ontologico refrain
sul senso d’esistere. Ambagi raggelanti,
le risposte. Unica certezza, nel metafisico
marasma, solo il rigor mortis resiste.
Derelitto e scarmigliato perciò zampilla
questo verso che, senza boria alcuna,
il vivere cristallizza e di sguinzio
divora l’ora come rondine che, incauta,
l’estuosa onda sfiora e il crudo
scandire del tempo e lo sterile dilemma
del volo mai del tutto appetibile inviene.
DISTANZIAZIONE
S’adagia
sulle mie mani
l’odore della notte
e la rete cattura
frammenti
di defunte passioni,
àncore arrugginite
tra le stanche onde
d’un porto in disuso.
Di luce propria
nessuna più rifulge,
dal caso senza pietà
annichilite.
DOPPIO SGUARDO
-Cos’è, figlio, quest’insolita
marcescenza che la tua anima
in una tela di ragno reclude
e che il tuo canto corrode?-,
mi chiede sommessa, a volte,
la voce dei miei morti quando,
con me, peregrinano verso
il luogo che occhi più non accende
e suoni più non modula.
–Come me, dovreste già saperlo,
è vecchio questo tarlo del doppio
sguardo, quello che la vita, di noi
nati sotto Saturno, mummifica-,
rispondo con flebile voce.
Nel mentre pilucco i residui acini
nel piatto e alla fioca luce,
con scarne mani, un gioco d’ombre
alla parete improvviso.
ELETTRA
In quest’infinita notte,
dove di sogni
non s’ammantano i sonni
e i febbrili occhi
dense ombre da lemuri
non discernono,
di Melpomene si travestono
i presentimenti;
mentre, vegetale tentacolo
che il silenzio avviluppa,
sugli alberi s’ispessisce
la mia angoscia.
Coriacei i rimorsi
dell’orrore, tra vindici
brezze di sabbia;
pertinaci gocce,
su porosa roccia,
che le viscere lentamente
rodono tra calanti soli
e nascenti lune.
Ma, tra canili e porcilaie,
dalla mia anima irredenta
un fiore di giustizia
è germinato e la serra
della memoria ha rinsanguato,
anche se all’eterno biasimo
il mio nome ha condannato
perché, ovunque
e per sempre, le Erinni
come ombra mi seguiranno.
ELOGIO DELL’INUTILITÀ
Come brezza primaverile
che il grano verdeggiante
con leggera mano pettina
e i campi madidi di pioggia
a nuova gioia apre; così,
con sagaci carezze
e complicità discreta,
le mie stupefazioni sempre
più assecondi, amore, e il mio
dirmi ridente cicala
che felicità solamente
dalla luce trae perché,
ben sai che, senza requie,
nell’astenica caldura
dell’ora decadente, nettare
invengo solo nel dolce verso,
col quale, all’Inutilità,
proscritta dea, un serto appronto.
ESORTAZIONE (Precarietà)
a L.
Al sole di mezzodì,
tinteggiato di memoria,
si stempera la tua pena,
mentre, nel giardino
degli inascoltati Testimoni,
vibranti respiri emana
una viola da gamba.
In fugace mestizia,
tra parate e brusii,
annegano i tuoi occhi
in cui, dell’incerto domani,
come fiori prataioli
s’aggrumano le ansie.
Benché d’estatica aura privo,
con ritroso sussurro,
ogni sfiorente attimo,
senza indugio, a godere
t’esorto perché, come
nota a piè pagina, in sé
del vivere il senso vero
incarna.
FILIPPO DE PISIS (pittore)
In un universo
d’evanescenti cromie
ogni fattezza e fisicità
si sperde e, sotto
mentite spoglie,
di selvaggio e carnale
senso s’ammanta
il rarefatto segno,
un illacrimato dolore
su tutto effondendo.
Come luci di scena, che
a una a una si spengono,
ogni cosa, dopo reiterate
scorticature, si sclerotizza;
alligna così il tragico sotto
il diafano tocco di dita
di fata che, nell’attimo
che si ferma, la caducità
celebra.
Si fossilizza, allora, l’essere
sotto un cielo senza catarsi,
nel sublime avvento
del Nulla; e l’anima,
metafisica plaga, di morte
nature s’adombra,
sotto un freddo cielo
che la vita in sfuggenti
sagome anemizza.
Ma sopravvive sempre,
a sfidare l’assurdo,
un aquilone in volo
che, di sbieco, lieve
la cortesia del vento
raccoglie.
GALANTUOMO, IL TEMPO
ad me ipsum
ad me ipsum
Reticenza o mendacio,
assordante borborigmo
o parlottio felpato:
truccate carte, comunque.
Effimere pajettes d’inerti
finzioni, decadente ritmo
dell’attimo, titubante risacca
dell’incerto. Peana triviale
alla Musa umiliata.
Sanguigna aria di mattanza.
Sotto il faro intermittente:
solitario diniego afasico, l’unico.
Ecologia dell’anima:
incantagione lirica.
Memento, cuore mio:
galantuomo, il tempo, sempre.
I POETI DICONO NO
E canto te, Federico,
e il tuo violetto verso
di mammola giocosa;
e canto te, Daniel,
e la tua rossa ferita
di papavero in fiore;
e canto te, Osip,
e la tua bianca lacrima
di rosa di serra; e voi tutti,
poeti del coraggio e del diniego,
agnelli mansuetamente immolati,
canto. Una corona sul vostro
urlo di libertà questo mio
compianto sia, che, su un sudario
di secolare pietà, il vostro
sacrificio adagi, in risposta
allo stridere violento del tempo,
di ogni tempo, sclerotizzato
in fratricide tenzoni.
[continua]