Il fragore delle onde

di

Giuseppe Sciuto


Giuseppe Sciuto - Il fragore delle onde
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 292 - Euro 15,00
ISBN 9791259511324

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In copertina fotografia di Alice Agosta


Prefazione

Nel libro di Giuseppe Sciuto, dal titolo “Il fragore delle onde”, la narrazione fluisce in modo coinvolgente e vengono fedelmente fissati i personaggi, le immagini e le atmosfere di un ambiente e di una terra come quella siciliana, pervasa di contraddizioni e dolente constatazione di una difficile condizione esistenziale.
Nel corso della narrazione Giuseppe Sciuto offre anche alcuni dialoghi in dialetto siciliano, come a voler sottolineare la sua volontà di essere partecipe dell’umano percorso dei suoi protagonisti e renderli vivi e pulsanti, fedeli testimoni d’un mondo, rappresentanti d’una visione della vita che diventa paradigma dell’esistenza umana stessa.
Grazie alla sua Parola, precisa e penetrante, sempre capace di rendere vibrante il racconto d’una storia sofferta, Giuseppe Sciuto accompagnerà il lettore nel costante susseguirsi di molteplici esperienze esistenziali del protagonista Giuseppe, attraverso le vicende che segneranno fortemente il suo cammino personale: l’amore per il mare che porta nel cuore fin da bambino; la madre che fa fatica ad esprimere il suo amore per il figlio; la grande passione per la musica lirica che apprende dallo zio; gli insegnamenti di vita del nonno; le diverse esperienze sentimentali, tra gioie e delusioni, che regaleranno sempre qualche utile insegnamento; il senso di solitudine che diventa costante di vita, soprattutto quando si dovrà abituare alla mancanza della figura del padre.
Durante il processo narrativo si avverte chiaramente il sentimento profondo che pervade l’animo del protagonista, che è lo stato d’animo di un uomo che, sovente, si sente “vittima del destino”, percepisce che la vita non è “benevola” con lui, fino ad una sorta di confessione sottotraccia del protagonista che crede sia giusto “accettare” le vicende della vita, “senza affanno né farne un dramma”, come a non voler opporsi al corso degli eventi. Ecco allora che cercherà di costruirsi il simbolico “scudo protettivo” per continuare a vivere, per riuscire a superare le difficoltà, le delusioni ed il travaglio dell’esistere.
Le vicende della vita non accadono casualmente e, nel viaggio delle esperienze esistenziali del protagonista del romanzo, si evince in modo chiaro che è fondamentale non lasciarsi affascinare dalle illusioni che risultano sempre false ed artificiose, ma che è necessario continuare a lottare, cercare tenacemente la propria strada, lottare per costruirsi una vita, nonostante si venga catapultati negli avvenimenti più disparati e difficili dell’umano vivere.
La vicenda narrata inizia in un quartiere di Catania, dove si può ritrovare la storia di molte famiglie al tempo della seconda guerra mondiale, alle prese con le difficoltà di una vita sofferta.
Una donna, che si chiama Concettina, insieme ai suoi figli, s’imbarca sulla motonave Argentina, per raggiungere il marito Petru, che si trova già nella città di Tripoli.
Purtroppo il suo viaggio si rivelerà un totale fallimento perché il marito si dimostrerà un incapace ed irresponsabile quando lei scoprirà che ha già speso tutti i soldi che gli ha inviato per le prime spese relative alla nuova casa, oltre ad essere un marito assente e vigliacco, sempre pronto a voltarle la faccia per non ascoltarla.
Ecco allora che Concettina, delusa e disgustata dal comportamento del marito, si sentirà umiliata e si rivolgerà ad un amico di suo padre che l’aiuterà a tornare in Sicilia.
Dopo il ritorno a casa inizierà il dettagliato racconto della storia personale del figlio di Concettina, e le esperienze di Giuseppe verranno narrate con una scrittura coinvolgente e sempre capace di fissare fedelmente il mondo interiore dei protagonisti.
Giuseppe Sciuto offre una vivida rappresentazione delle vicende esistenziali e le continue evidenze narrative si miscelano e si plasmano con una visione d’un percorso esistenziale che si fa universale: per questo motivo regala una preziosa testimonianza, tra amara consapevolezza, costante ricerca della sostanza vera e autentica dell’esistere, e dispersione nelle metamorfosi esistenziali.
Le manifestazioni del vivere illuminano l’universo emozionale dei protagonisti che vengono rappresentati attraverso lo sguardo attento e critico di Giuseppe Sciuto, pronto a cogliere le percezioni emozionali, le rivisitazioni memoriali e modulare abilmente le cadenze interiori.
La visione narrativa penetra nel profondo di una dimensione che genera metamorfosi esistenziali e Giuseppe Sciuto pone il suo sigillo narrativo con la decretazione d’un senso di abbandono al destino. Eppure gli attori del suo romanzo sono sempre pronti a rimettersi in gioco, fino a trovare una possibile rivelazione capace di lambire i luoghi misteriosi dell’anima per donare una nuova speranza.

Massimiliano Del Duca


Il fragore delle onde


I

Era una giornata di gran sole a Catania. Per le strade poco prima delle tre del pomeriggio c’era poca gente in giro a causa della sonnolenza pomeridiana dovuta all’abbondante pranzo a base di pesce “friscu friscu”. Solo gente irresponsabile poteva sfidare la calura settembrina, l’ultima di un’estate infuocata che rendeva la città simile ad una dei Paesi africani. Preferivano i più starsene a casa proprio come i gatti che si godevano l’ombra spaparacchiati sul davanzale della finestra accanto alle piante di basilico, il cui profumo si sposava a meraviglia con le melanzane fritte nella pasta alla Norma, trionfo assoluto del pomodoro, cotto a perfezione con qualche spicchio d’aglio. Saggezza voleva che fosse preferibile uscire più tardi, per non fare la stessa fine dei datteri caduti a terra dopo essersi staccati dalla loro palma per il caldo opprimente. In ogni singola casa, ricca o povera che fosse, regnava il silenzio, anche in quella di Concettina che con amore si cresceva il suo primo figlio. Il grido improvviso, fatto di stupore e sorpresa, uscitole dalle labbra per la felicità ritrovata, fu un’eccezione nella quiete pomeridiana.
Il suo “Petru!” detto a gran voce si diffuse per tutta la piccola casa di via Vinciguerra, proprio nel cuore del quartiere di San Cristoforo. Scivolò lungo le pareti senza risparmiare sedie, tavoli, la cucina a carbone appena spento con un getto d’acqua, il bagno con la pila dentro, la terrazza alla quale si accedeva tramite una ripida scala di legno. Suo marito le era comparso all’improvviso, irriconoscibile, con la barba lunga, una giacca tutta consumata, con pantaloni senza forma e sporchi di polvere e fango. Gli andò incontro buttandogli le braccia al collo. Si strinse forte al suo petto quasi in cerca di protezione, quella che le era mancata durante gli anni di guerra, trascorsi in gran parte a casa di suo padre, don Peppino, generoso a provvedere alle sue esigenze assieme a quelle del figlioletto Turiddu che se ne stava attaccato alla veste della madre senza capire quanto avvenisse. Non sapeva che l’uomo smunto, impalato dinanzi a lui, era suo padre, andato al fronte quando lui aveva appena due anni. Raramente ne aveva sentito parlare e così, per la lunga assenza, era diventato per lui un fantasma. Qualcosa sarebbe cambiato nella vita di sua madre e, di conseguenza, anche nella sua, ma non se ne rendeva conto. Da quell’istante gli toccava spartire con suo padre l’amore ricevuto da chi lo aveva messo al mondo. Il regime fascista, essendo orfano, non lo aveva mandato in Russia, in Africa né in Albania. Un privilegio questo riservato ai figli di coloro che erano morti nella Prima Guerra Mondiale. Salvatore, così si chiamava suo nonno paterno, aveva prematuramente finito di vivere a Medea, un paesino vicino a Gorizia, lasciando nei guai e in povertà la moglie e i tre figli. Bastava e avanzava un solo morto in famiglia per cause di guerra. E così Petru era stato assegnato a Palermo. A fare cosa, nessuno lo sapeva, visto che lì non si combatteva. Un trattamento dunque di favore, a cui d’altra parte era abituato sin da piccolo perché sua madre si spaccava in quattro per non fargli mancare nulla, coccolarlo come meglio poteva, anche se questo l’aveva costretta a lavorare dalla mattina alla sera in uno dei quartieri più antichi e poveri di Catania, chiamato “U Cussu.” E così, più che a guadagnarsi i soldi con le fatiche del proprio lavoro, si era abituato a riceverli senza muovere un dito, con conseguenze dannose per la propria autonomia. Era cresciuto infatti debole di carattere, bisognoso sempre di cure, di premure prima da parte della madre costretta a fare enormi sacrifici per mantenerlo, poi della moglie che stava bene economicamente, essendo il padre don Peppino uno dei commercianti più in gamba e conosciuti di via Garibaldi. Pur di fare soldi, era capace di affrontare i pericoli delle bombe che nella città etnea non erano mancate, soprattutto quelle americane sganciate dagli aerei a testa di minchia, a caso, senza un preciso obiettivo, solo al fine di causare un numero impressionante di morti tra i civili.
Se l’attaccamento al lavoro non era una delle doti di Petru, forte era invece la voglia di leggere, soprattutto romanzi di ogni genere, entrare dentro l’animo dei personaggi. Comprava quelli passati al vaglio dalla censura del regime. Li divorava, sottolineava alcune frasi che lo avevano colpito, vi aggiungeva note personali, osservazioni quasi sempre pertinenti, dettate dal cuore, dalla sua sensibilità più che da complesse costruzioni della mente. Ne aveva tratto vantaggio la sua proprietà lessicale, il suo modo di esprimersi che col trascorrere del tempo era diventato forbito, elegante, raffinato, nonostante avesse frequentato solo la sesta elementare. Non gli veniva difficile distinguersi dai suoi coetanei per la facilità di linguaggio, qualunque fosse l’argomento, soprattutto se di letteratura erotica. Nessuno aveva letto una sola riga delle opere di Guido da Verona.
«Guido chi?»
«Da Verona, una città del Veneto, quella di Giulietta e Romeo, dove è nato. Ma siete veramente ignoranti! “Quannu cuminciati a mittirivi a leggiri?”»
I pochi soldi di cui poteva disporre erano spesi tutti, oltre che per i libri, anche nel vestiario. Ci teneva a mettersi addosso roba elegante, essere sempre alla moda dalle scarpe sino al cappello, anche se gli costava l’ira di Dio. Non gli veniva difficile fare colpo sulle ragazze del quartiere, attratte dalle sue parole, dal modo in cui parlava, si vestiva, si muoveva, si comportava. Le salutava sempre con un sorriso e un leggero inchino quando le incontrava per strada. Non potevano fare a meno di divorarselo con gli occhi, perché era bello, raffinato, di una bellezza signorile, simile ad un nobile decaduto, anzi molto decaduto, sino al lastrico, perché suo padre, seppellito a Redipuglia, era un semplice barbiere, anche lui bello e dai modi signorili, stando a quel che si diceva.
Petru svolgeva con una certa bravura il lavoro di barbiere, ma solo di tanto in tanto, senza preoccuparsi più del necessario. Alle sue esigenze provvedevano infatti la madre e la sorella più grande di lui di qualche anno. Si chiamava Tina, diminutivo di Agata, la patrona della città. Anche lei era bedda, mantenuta da un artigiano con tanto di matrimonio e figli sulle spalle. Dalla sorella più piccola di nome Graziella, non poteva ricevere nessun aiuto, perché morta a diciannove anni per una grave malattia. Ogni volta che parlava di lei, di questa picciridda, si commuoveva, perché Petru era anche sensibile, ricco di una eccezionale fantasia che lo faceva sognare ad occhi aperti. Quando Concettina, appena quindicenne, lo vide nel salone di suo padre, si innamorò subito, il suo cuore incominciò a battere forte, anche se aveva nove anni meno di lui. L’amore sbocciò tra barbe, tagli di capelli e spazzolate. Si nutriva di sguardi, sorrisi, della viva luce degli occhi che spesso volutamente si incrociavano. Ancora una volta il sentimento d’amore, inaspettato e travolgente, dettava le sue leggi. Li avvolse presto nelle sue spire determinandone il futuro. Lei, figlia del principale don Peppino, uomo tutto d’un pezzo, conosciuto per il suo carattere forte e deciso, non aveva fatto caso all’umile estrazione sociale dell’uomo di cui si era innamorata. Era povero, non possedeva nulla, essendo orfano di guerra, cresciuto in mezzo a tanti stenti. Poteva solo offrire i suoi profondi e veri sentimenti, gli ideali appresi dai libri, le promesse e i giuramenti di eterno amore, di assoluta fedeltà. A don Peppino non dispiacque che sua figlia sposasse un suo dipendente. Non lo avrebbe più stipendiato, era dunque per lui un buon affare. Aveva pensato addirittura di impiegarlo in un secondo salone che stava per aprire in via Garibaldi, senza paga naturalmente. Visto che intendeva inaugurare un grande negozio di abbigliamento e confezioni nella stessa via, gli giovavano tutti i componenti maschi della sua famiglia e Petru da genero si prestava al caso suo. Naturalmente anche Concettina avrebbe lavorato per lui, cucinato e messo in ordine l’enorme appartamento assieme alle altre due sorelle, Giovanna e Rosa non ancora maritate. Era risaputo che Don Peppino possedeva un sacco di soldi per la sua dedizione al lavoro, le abili qualità di comando e l’invidiabile scaltrezza nel mondo degli affari. Era giunto per lui il momento di crearsi un piccolo impero dove tutti erano ai suoi ordini senza diritto di replica. Era fatto così e nessuno poteva cambiarlo. Mirava ad una sorta di monarchia assoluta dove il re era lui e ognuno doveva stare al suo posto, ascoltare a bocca chiusa quanto aveva deciso. A sedici anni appena compiuti Concettina sposò il suo adorato Petru con la benedizione del padre e della madre, esponente, a differenza del marito di umili origini, della borghesia catanese che con matrimoni mirati intendeva dare ossigeno alle precarie condizioni economiche venutesi a creare alla fine della Prima Guerra Mondiale. Don Peppino, giovane rampante, capace di fare soldi a palate col commercio, anche se questo comportava di non dormire la notte, era senza dubbio un buon partito. Nel volgere di pochi anni sua moglie lo rese padre di tre figlie e un maschio.
Concettina e Petru, appena sposati, andarono a vivere in un piccolo appartamento preso in affitto nel quartiere di San Cristoforo che, appunto perché povero e con marciapiedi che dinanzi casa si lavavano con getti d’acqua saponata, in compenso sfornava intelligenze acute, esperte nell’arte di arrangiarsi, sopravvivere più che vivere. Non mancava l’attività malavitosa, quasi per confermare il pensiero mussoliniano secondo cui era meglio vivere un giorno da leoni che cento anni da pecora. Se molti erano nati col marchio della povertà, i più coraggiosi e forti di animo, noncuranti della morte in età giovanile, avevano deciso di sfidare il destino, sputargli in faccia, qualunque fosse il prezzo da pagare. Ne valeva la pena. Sarebbe stato sempre meglio che rassegnarsi ad avere pochi soldi in tasca, senza sapere ogni giorno dove andare a sbattere la testa per mantenere non solo se stessi, ma anche figli e moglie, talvolta anche i genitori anziani verso cui nutrivano il massimo rispetto.
Nel loro piccolo nido nacque Turiddu un giorno d’inverno quando l’Etna era tutta incappucciata di neve bianca come i gigli sull’altare della chiesa Santa Maria dell’Aiuto, dove Concettina andava a pregare ogni giorno perché il parto andasse bene. Una stretta via di San Cristoforo custodì i loro sogni, in un umile quartiere dove si sapeva degli affari degli altri. Bastava una malalingua, un accenno cattivo e malevolo, un’allusione poco gradita per fare esplodere tutto come i fuochi d’artificio nella festa di Sant’Agata. Don Peppino era diventato nonno di una creatura dal piscio potente e lungo, così gli avevano riferito non appena era nato per esaltarne la buona salute. Assomigliava tutto a sua figlia tanto bedda, una bambolina in miniatura che sotto l’esperta guida del marito aveva per la prima volta conosciuto i piaceri del sesso. Il bambino fu chiamato Salvatore, come il padre di Petru, seppellito nel diciannovesimo gradone del Sacrario di Redipuglia, da dove era possibile scorgere in lontananza scaglie del mare Adriatico tanto diverso da quello della sua città che non conosceva la bora chiara e scura, la nebbia e il freddo tanto pungente da fare drizzare la pelle. Venne così rispettata la tradizione secondo cui al primogenito toccava il nome del nonno paterno, di cui si conosceva vita e drammatica morte nel corso della Prima Guerra. Nella famiglia acquisita si sapeva che il papà di Petru aveva sposato per amore una povera disgraziata della sua città, messa incinta da un avvocato catanese con tanto di moglie e figli. Approfittando della sua misera condizione sociale, la costringeva a cucinare, lavare, stirare e tenere in ordine la casa per quattro miserabili soldi. Non dispiaceva al disgraziato approfittare di lei sessualmente quando a casa sua moglie non c’era. Salvatore l’aveva conosciuta mentre faceva la spesa. Pioveva a dirotto quel giorno. Si erano rifugiati dentro lo stesso portone per ripararsi, scolati dalla testa ai piedi. Salvatore, barbiere assai stimato alle dipendenze di suo padre, provò tenerezza nel vederla proteggere con le mani il pancino ben visibile sotto la veste di stoffa senza grandi pretese. Mancava qualche mese a partorire. Nei suoi occhi grandi e neri vi coglieva la tristezza di chi viveva con tanti problemi addosso. Era infatti senza un lavoro e senza sodi, dopo essere stata presa per i capelli dalla moglie dell’avvocato e cacciata via da casa. Cessato di piovere l’accompagnò sino al suo misero e freddo tugurio “do Cussu”, dove neppure gli scarafaggi neri e schifosi volevano stare, tanto freddo era il pavimento e così umide le pareti. Ma l’amore tra loro due, se così aveva deciso il destino, sarebbe nato anche dentro i cimiteri mentre portavano fiori ai loro cari. Il sangue nelle loro vene cominciò presto a fluire più veloce e il cuore a conoscere battiti mai avuti prima. Di comune accordo si videro in ore stabilite per passeggiare e trascorrere assieme un po’ di tempo, raccontarsi le vicende più importanti della loro vita con la speranza che da cosa nascesse cosa. E fu così. Si piacevano, si pensavano, si desideravano, non vedevano l’ora di rivedersi la domenica, quando Salvatore non lavorava nel salone di suo padre a due passi dalla pescheria. Nacque in lui il desiderio di vivere con lei, sposarla, anche se messa incinta da un farabutto. L’idea col passare del tempo divenne sempre più insistente, non gli diede tregua neppure un attimo. Era giunto il momento di dirlo a suo padre, rimasto vedovo dopo la morte della moglie. Si arrabbiò tanto, non si aspettava infatti una notizia simile. Come, suo figlio con una donna incinta? Impossibile, assurdo, manco a parlarne! Quello che avvenne dopo fu una vera e propria sofferenza, un grande disastro. Non si scambiarono neppure una parola per parecchi giorni pur vivendo insieme nel minialloggio sopra il salone. Cacciato via con l’accusa di essere indegno del cognome che portava, rimase senza lavoro e senza soldi. L’unico suo conforto era la ragazza che da poco aveva partorito una bambina di cui lui non era il padre. Nonostante questo, la sposò lo stesso dopo aver parlato con un sacerdote della Chiesa di San Giuseppe. I suoi consigli furono molto utili a risolvere l’intricata faccenda. D’altra parte, al vero amore non si poteva mai comandare, a tal punto era forte e profondo, con leggi tutte sue, capace di offrire salvezza o disperazione, fare toccare con un dito il cielo o sprofondare sottoterra. Dipendeva da tante cose. A forza di chiedere riuscì a trovare lavoro come barbiere in un altro salone del centro storico della città. Con i soldi guadagnati e le mance generose dei clienti che sapevano della sua storia, pagò l’affitto di un modesto alloggio tutto per lui, la moglie e la piccola e innocente Tina. Anche se poveri, non rinunciarono mai a mantenere la loro dignità. E poi si volevano tanto bene. Tre anni dopo la giovane moglie rimase ancora una volta incinta, questa volta in modo del tutto legale. Mise al mondo un bel maschietto, a cui diedero il nome di Pietro. Mancava poco allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Una storia difficile quella dei genitori di Petru, per certi versi drammatica. Concettina la conosceva bene, ma non ne aveva mai parlato col marito, perché acqua passata. E poi non voleva scorgere nei suoi occhi un velo di tristezza. Le piaceva così com’era, anche con le sue debolezze, le sue gracilità, la mancanza di coraggio nelle scelte, nelle decisioni, nell’assunzione di responsabilità a cui doveva far fronte lei, possedendo un carattere molto più forte, ereditato da suo padre, amato e temuto da tutti, proprio come i veri uomini.

[continua]


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