Pinsier, emozziuoi e rrigard (Pensieri, emozioni e ricordi): poesie nel dialetto galloitalico di San Fratello (ME)

di

Giuseppe Cancelliere


Giuseppe Cancelliere - Pinsier, emozziuoi e rrigard (Pensieri, emozioni e ricordi): poesie nel dialetto galloitalico di San Fratello (ME)
Collana "Apollonia" - I libri dedicati alle minoranze linguistiche: lingua, storia e letteratura
14x20,5 - pp. 164 - Euro 13,00
ISBN 978-88-6587-7562

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LA CATARSI NELLA POESIA ONESTA

Questa raccolta di poesie vuole essere un segno che anche nei momenti meno fortunati della vita di una persona la poesia può essere salvifica, oltre ad essere espressione dei propri sentimenti. Se Giuseppe Cancelliere, autore di questo libro, non avesse incontrato ad un certo punto della sua vita la casualità di perdere la vista, con ogni probabilità avremmo avuto tra le mani più di un suo libro di poesie basate sulle sue esperienze personali avendo egli viaggiato molto. Ma forse in queste ipotetiche poesie non avremmo trovato il movente principale della pulsione poetica: la necessità di esternare il proprio dolore aggrappandosi ai suoi versi che qui assumono anche valore informativo e liberatorio dei movimenti ostili del pensiero.
La poesia di Cancelliere nasce dallo stato delle cose e sarebbe illusorio dare risposte alle domande che emergono dai suoi versi, pena il rischio di essere retorici ed elusivi. L’autore ha aderito al mio invito di pubblicare queste poesie, scritte nel dialetto galloitalico di San Fratello, e in buona parte si tratta di traduzioni di liriche composte nella lingua nazionale. Io stesso ho operato abbondanti rimaneggiamenti dei versi, in primis perché tra i due codici linguistici esistono diversità sintattiche, e poi perché il lessico sanfratellano, come tutti i dialetti antichi, è legato all’attività agricola e alla pastorizia, quindi non contiene termini scientifici e tecnologici, così bisogna ricorrere a prestiti della lingua nazionale.
In origine le varie liriche seguivano un percorso temporale legato ai periodi in cui l’autore le ha scritte, la suddivisione in sezioni è stata da me operata arbitrariamente per ottenere un’organizzazione basata sugli argomenti, più che sulla logica, in quanto alcune poesie potrebbero far parte di diverse sezione.
Ho raggruppate nella sezione “Le vie dell’adolescenza” le poesie in cui il poeta parla di personaggi e luoghi del paese d’origine1, che a causa dell’emigrazione diventa l’Eden perduto. Qui riemergono i ricordi e le esperienze sensoriali ed è il luogo in cui “la poesia che ancor oggi nasce spontanea / non appena l’alba risveglia il mio San Fratello, / l’armonia dei versi, le parole le scrive l’atmosfera / che c’è nei vicoli e le strade2.” (Da te sono tornato).
La sezione “Nell’intimo del cuore” include le poesie di carattere amoroso. Vi troviamo i sentimenti che caratterizzano gli innamoramenti giovanili: passione, corporeità, sensualità, gioia e delusione. L’amore è concepito in maniera totalizzante e la natura gioca un ruolo predominante e partecipe all’amore dei sensi: “Notte senza luna, / buia come l’inchiostro, / sotto le morbide ombre degli alberi, / complici con due anime innamorate segrete, / che nell’intima oscurità si sono amate. / Il gufo venuto forse a spiare / non udì nulla / e si mise a cantare.” (Notte senza luna). E ancora: “Che importa se cade la pioggia, / appassiscono i fiori e muoio-no le foglie, / fiorisce in me la gioia / che nasce con la tua presenza, […] e fa diventare bella e unica / questa nostra sera d’autunno.” (Sera d’autunno).
I sentimenti più intimi sono raccolti nelle liriche della sezione “La luce dell’anima”. V’è patimento e nonostante il grave problema della cecità che affligge il poeta, c’è ostentazione delle bellezze dell’esperienza del passato che ora aiuta a superare il vivere quotidiano. A volte c’è rabbia (mai disperazione) per ciò che il poeta avrebbe fatto e non ha potuto fare a causa della sua condizione. C’è rassegnazione, certo, ma c’è anche superamento della costernazione attraverso la fede: “Se avessi ancora lacrime so che piangerei / come una nuvola gravida di pioggia, / ma ringraziando il Signore ancora sono vivo, / le fontanelle che avevo ormai sono secche / e senza ombra d’egoismo dico che al mondo c’è di peggio.” (Nel mare delle tenebre). Nelle liriche dedicate ai genitori c’è afflato e ricordo costante della visione del loro sorriso: “/ prima che le tue forze andranno via, ti prego / di lasciarmi in eredità la tua saggezza, / il più bello dei tuoi sorrisi a memoria” (Vecchio del mio cuore), e ancora: “Vengo a versare la tristezza, la solitudine, il mio pianto amaro, […] senza esitare rubo il tuo dolce sguardo / che dalla fotografia mi sorride” (Mi manchi).
Giuseppe Cancelliere si rivolge alla sua poesia come portatrice di messaggi amorosi, “[Versi miei] Se un giorno incontrerete colei che sempre ho amato, / sono certo che in voi si riconoscerà, / così semplicemente meglio di me voi le direte / che l’amore che non fui capace di esprimerle / ancora oggi lo sento.” (Miseri versi miei). Subentra la consapevolezza di non essere più in grado di scrivere “Gli occhi ansiosi più di ieri, / incolla-ti sul candore immacolato della carta, / lunga l’attesa, il desiderio sfuma in sonnolenza, / il foglio vuoto ingiallirà in mano al tempo, / senza poter lasciare altri pensieri al mondo, / né nuovi versi da ricordare” (Pensieri).
Al poeta non resta che esprimere il desiderio irrinunciabile di ogni artista, di augurare alle proprie opere di continuare ad esistere dopo la propria dipartita: “Voi resterete qui, / racconterete di me / versi del mio cuore, / frasi mie sconnesse, / pensieri tramutati in parole. / E se io potessi, / darei a voi l’eternità.” (Se potessi).
C’è anche uno sconfinamento nel sociale e il poeta non vuole sentirsi correo dei misfatti che affliggono il mondo attuale. In particolare c’è riferimento esplicito agli eventi drammatici dei nostri giorni in cui i terroristi uccidono in nome di Dio. Quindi il poeta urla forte il suo “j’accuse”, implorando che i potenti facciano il possibile per alleviare il dolore che continua ad affliggere i popoli. Si sente difensore dei deboli, anche se sa di non poter fare nulla, e rimprovera a Dio il disinteresse verso le cose degli uomini con questi ossimorici versi: “Che Dio perdoni tutti i miei peccati, / ma sono diventato ateo” (Senza pietà). Dopo l’elaborazione dei dubbi esistenziali si affida alla consolazione della fede: “Se ho sbagliato e questo è il mio castigo / ti ringrazio, o mio Signore, chiedo solo / di poter ritrovare l’emozione della fede smarrita” (Nel mare delle tenebre).
In conclusione, Giuseppe Cancelliere ci consegna una poesia solare e barocca, con ridondanza di aggettivi e di sinonimi, tra i quali si evidenziano la luce, il sorriso, la gioia, l’incanto ed altri riferimenti alla persona ed alla natura, che denotano uno sforzo continuo per colmare la privazione di necessità primarie e sociali. Il tutto in un contesto di nostalgia per il tempo passato e di melanconia personale, che coinvolge il lettore facendolo sognare e soffrire senza mai stressarlo. Il risultato è la catarsi operata dalla poesia, quando è onesta, verso sé e verso gli altri.

Benedetto Di Pietro


1 Alcune di queste poesie sono già apparse nell’antologia “Parole sanfratellane nel Web” a cura di B. Di Pietro (Montedit, Melegnano 2016). 6 Giuseppe Cancelliere.

2 Per semplicità di lettura qui riporto la traduzione dei versi.


Pinsier, emozziuoi e rrigard (Pensieri, emozioni e ricordi): poesie nel dialetto galloitalico di San Fratello (ME)


Pinsier, emozziuoi, rrigard
causi ch’u cuor acciema sintimant,
vuloss sincieramant arrigalerv la duna,
ma siccam ni è sau maia,
pi passer ntantinìan di tamp antucc,
cû vasc pirmies v’arrijel
na mudichina di la maia ierma.

Pensieri, emozioni, ricordi
Pensieri, emozioni, ricordi, / cose che il cuore chiama sentimenti, / vorrei sinceramente regalarvi la luna, / ma siccome non è soltanto mia, / per passare un pochino di tempo assieme, / col vostro permesso vi regalo/ un pezzettino della mia anima.


LE VIE DELL’ADOLESCENZA


U miea paies

U miea paies s’acciema San Frareu.
È n paies di muntegna, antiegh e beu,
cu la Rraca chi si vo da dintean
ch’è l’onaur di ogni Sanfrardean.
U miea paies iea bidozzi e stuoria
e ai paisg visgì ghji fuoma la nviria;
auoma tradizziuoi vecchji di cintiniera d’egn
chi mi nrichisciu ogni giuorn u cuor di giaia.
U miea paies è canusciù pî suoi cavei,
pû sa basch, la saua Festa dî Giuriei,
pi li saui usänzi, la saua ieria fina
ch’a pighjersila vienu puru quoi di la marina.
U miea paies iea la saua pardära,
la dangua ch’ariditea, na bidozza.
Ghj’è sampr n sciar appana niesci fuora:
sciar di pitänzi bauni, di bauna giant.
U miea paies paross ch’è mezz abanunea,
puru accuscì è n smiräld dî maunt Nebrodi, n ver tisar.
Chi si ng’anea duntean cam iea u sea
chi ni s’u scarda mei u sa tisar,
s’u parta nuott e giuorn ntô sa cuor.
Paisei ghji n suoma tenc ntô maun sparpaghjiei
e suogn zzert chi suoma tucc dign,
fier d’acciamerm Sanfrardei.


Il mio paese

Il mio paese si chiama San Fratello. / È un paese di montagna, antico e bello, / con la Rocca che si vede da lontano / ch’è l’onore di ogni Sanfratellano. // Il mio paese ha bellezze e storia / e ai paesi vicini facciamo invidia; / abbiamo tradizioni vecchie di centinaia d’anni / che ci arricchiscono di gioia ogni giorno il cuore. // Il mio paese è conosciuto per i suoi cavalli, / per il suo bosco, la sua Festa dei Giudei, / per le sue usanze, la sua aria salubre / che a respirarla vengono pure quelli della riviera. // Il mio paese ha la sua parlata, / la lingua che ha ereditato, una bellezza. / C’è sempre un profumo appena esci fuori: / profumo di pietanze buone, di buona gente. // Il mio paese sembrerebbe che è quasi abbandonato, / pure così è uno smeraldo dei monti Nebrodi, un vero tesoro. / Chi se ne andò lontano come me lo sa / che non se lo scorda mai il suo tesoro, / se lo porta notte e giorno nel suo cuore. / Compaesani ce ne siamo molti sparsi nel mondo / e sono certo che siamo tutti degni, / fieri di chiamarci Sanfratellani.


Li sparäri di Mearz

Quänn Mearz sgreuna u rrusäri dî suoi giuorn,
sfizziaus cam è rau tucc u savuoma,
u tamp u caunza cu li spiezzi cam se cunzäss na pitänza;
bunänzia di pazzii ng’arrijela a mei cini
e nieucc puru ngusciei pauoma u caunt.
Iuoi appana m’arvighjiei taliann di la finestra,
chi bidozza, chi maravoghja chi ghj’era:
li muntegni amantäri di nav cristallina,
aier paraiu smiräld oscur,
iuoi ô spunter dû sau
sblaniju cam fussu diamänt,
dusgiant e beu cam accuscì ni ghj’è nant.
Prizziausa bidozza sulitaria d’antjegh San Frareu,
smiräld chi ghj’uogg nchienta
a virarlu ieut cam è cu li diri ghj’agrätta i piéi ô zzieu,
la Rraca cam na stodda rruosa-gieuna,
puntighjausi li mei dû tamp chi l’arracamean;
uardann li parti nebrodini
guverna cam n rre assitea saura dû trono
u mär, li vei, i basch, sciumäri, cunträri pasturizzi,
purzidì nar, pieuri, crävi e väcchi,
cavei di rräzza e seangu pur
chi cuorru e spassiju n tutta libirtea.

Quänn Mearz sgreuna u rrusäri dî suoi giuorn,
ni si capisc cchjù nant,
sciuoscia sciracch, ciov cû sau e nava.
Chi malasart auänn,
la primavera giea darrier di la parta,
nta la campegna ancara spughjiera tutta nura
ntrizzisc la natura la terra giea mbrieaca,
vuloss smaltir la sbornia di ieua,
spiranzausa cchjù chi mei
si nsagna la bedda vistina di sciaur e di erba.
U zzu Ntunìan scunsulea talija:
ghj’è paca rraba, ‘sc agniei muoru di fäm;
pieuri ciarvei e crävi,
se crosc d’erba ghj’è cascaveu frumegg e rricuotta
e n tantinìan crosc puru la sacotta.
Ghj’è cuntuntozza nta l’äria ntuorn
la sara nta le vaneddi e sträri
u suner di trumi sbäna li ieli,
nguola ntô zzieu e nta l’arogi dû paies
cam na timpesta di sciracch
strascina n dusg chi svämpa,
la passian mard ierma e carp,
antra e fuora di li vecchi parti sanfrardeuni.

Millegn ni ghj’abestu pi scaver
fina a truver li rräriji di l’antiega tradizzian,
chi nrichisc d’onaur tucc i sanfrardei;
amaur chi si tramäna di nanu-pätri ô fighj,
manini sänti teghju fantasiausi,
nfilu curadì, cusgiu balanzini,
arrachiemu sciaur, la vita, bidozza chi anc ghj’uogg,
puru i frustier s’arricriu cam i paisei;
la diviesa dû giuriea è iert stuoria cultura, causi di valaur,
pi chi la viest è giaia prizziausa chi ni ghj’è priezz a pagher.
Sanza chi nudd si scarda sazizza, maccarruoi,
u sciesch dû vìan, uàsteddi di carduoi,
la teula cunzära la festa accumunzea:
bampruru a chi s’arricria la pänza,
mantr ch’i ciarvei e ghj’agniei, parmalí,
santu avisgiuners la Pesqua e dû schient ciengiu.


Le sparate di marzo

Quando marzo sgrana il rosario dei suoi giorni, / capriccioso com’è lo sappiamo tutti, / condisce il tempo con le spezie come fosse pietanza; / abbondanza di pazzia ne regala a mani piene / e noi, anche se arrabbiati, ne paghiamo il conto. / Oggi appena sveglio guardando dalla finestra, / che bellezza, che meraviglia c’era: / le montagne coperte di neve cristallina, / ieri sembravano smeraldi oscuri, / oggi allo spuntar del sole / splendono come fossero diamanti, / così lucenti e belli che di simile non v’è nulla. // Preziosa bellezza solitaria San Fratello, / smeraldo che l’occhio incanta / a vederlo alto com’è solletica i piedi al cielo con le dita, / la Rocca come una stella giallo-rosa, / puntigliose le mani del tempo che l’hanno cesellata; / a guardia delle porte nebroidee / governa come un re seduto sul trono / il mare, le valli, i boschi, fiumare, contrade di pascoli, / suini neri, pecore, capre e vacche, / cavalli di razza e purosangue / che corrono e vagano in tutta libertà. // Quando marzo sgrana il rosario dei suoi giorni, / non si capisce più nulla, / soffia scirocco, piove col sole e nevica. / Che disdetta quest’anno / la primavera è già dietro la porta, / nella campagna ancora completamente nuda / la natura intirizzisce la terra già ubriaca, / vorrebbe smaltire la sbornia d’acqua, / desiderosa più che mai / sogna la veste bella di fiori e d’erba. / Lo zio Antonio scoraggiato osserva: / c’è poca erba, gli agnelli muoiono di fame; / pecore capretti e capre, / se cresce l’erba ci sarà caciocavallo formaggio e ricotta / e un pochino cresce anche la tasca. / C’è allegria nell’aria intorno / la sera nelle viuzze e strade / il suono di trombe3 apre le ali, / vola in cielo e nelle orecchie del paese, / come una tempesta di scirocco / trascina un fuoco che divampa, / la passione morde anima e corpo, / dentro e fuori dalle vecchie porte sanfratellane. // Mille anni non bastano per scavare / fino a trovare le radici dell’antica tradizione, / che arricchisce d’onore tutti i sanfratellani: / amore che si tramanda da nonno-padre in figlio, / manine sante tagliano fantasiose, / infilano per-line, cuciono lustrini, / ricamano fiori, la vita, bellezza che riempie gli oc-chi, / anche i forestieri si beano come i paesani; / la divisa del giudeo è arte storia cultura, roba di valore, / per chi la indossa è gioia preziosa impagabile. // Nessuno dimentica salsiccia, maccheroni, / il fiasco di vino, frittelle di cardi, / la tavola imbandita, la festa è cominciata: / buon appetito a chi si riempie la pancia, / mentre i capretti e gli agnelli, poveretti / sentono arrivare la Pasqua e piangono dalla paura.

3 Si riferisce alla Festa dei Giudei nell’ambito della Pasqua sanfratellana.


La Zz Pina

Nta na vanedda strotta strotta,
ana u sau a malapana si nfiläva,
saula nta na stanzina stasgiaia
na vecchja chi tucc acciamävu
…«la Zz Pina».

Nieucc carusgì la buffuniemu,
ogni vauta chi la scunträmu,
N tantinìan la farimu sidijer,
ghji disgimu: «Ahi ahi! Zz Pina»
e la puvrina: «Chi iei, mi fighjìan?»
«Zz Pina, uò na zzipina ntô quazzer».
Agliauri rodda sidijera arripunaia:
«Fighjuoi di bauna moma chi sai,
chi v’avossu cascher tucc i picchiei!»,
…la puvrina.

Rodda era meagra e socca cam na chiena,
quänn ghj’era u sciracch
s’accicieva a li muri e cantunieri,
pû schient ch’u vant si la nguläva.
Era bizacca, tucc i giuorn a la criesgia si ng’anäva,
quänn trunijeva ghj’era tutt u Pararies chi sfiläva:
«Santa Tiecla e San Gilarm, quänt è beu u vasc nam!»
…la Zz Pina.

Avaia i cavai gieun cam la stuopa
e quänn si picinäva, davänt eru i pizz
cu li moli, darrier le trozzi a tuparìan.
Dipuoi si nfarinäva la fecc cu la pruvighja
e si n nisciva fuora nta la strära,
tucc i giuorn di la matina a la sara,
…la Zz Pina.

Pi dì giuorn nudd la vitt e tucc i visgì
stasgiaiu cû punsier, causa streuna;
anävu disgiann: «Sacch fu ghj’assucirì»,
scassean la parta e la pavra Zz Pina
…la truvean marta.


La Zzi Pina

In una viuzza stretta stretta / dove a malapena il sole s’infilava, / sta-va sola in una stanzetta / una vecchia che tutti chiamavano / …«la zzi Pina». // Noi bambini la prendavamo in giro, / ogni volta che l’incontravamo. / La facevamo inversare un pochino, / dicendole: «Ahi, Ahi! zzi Pina» / e la poveretta: «Cos’hai, figlioletto» / «Zzi Pina, ho un chiodino4 nella scarpa». / Allora lei infastidita rispondeva: / «Figli di buona madre che siete, / vi possano cadere tutti i peccati!», / …la poveretta. // Era magra e secca come una canna, / quando c’era lo scirocco / s’aggrappava ai muri e pareti, / per paura che il vento la facesse volare. / Era beghina, tutti i giorni andava in chiesa, / quando tuonava c’era tutto il Paradiso che sfilava: / «Santa Tecla e San Girolamo, quanto è bello il vostro nome!» / …la zzi Pina // Aveva i capelli gialli come la stoppa / e quando si pettinava, davanti erano le onde / con le forcine, dietro le trecce a tupè. / Poi s’infarinava la faccia con la cipria / e usciva fuori nella via, / tutti i giorni da mattina a sera,/ …la zzi Pina. // Per due giorni nessuno l’ha vista e tutti i vicini / era-no preoccupati, fatto strano; / si chiedevano: «È successo qualcosa», / hanno sfondata la porta e la povera zzi Pina / …era morta.

4 I chiodini delle scarpe in dialetto si chiamano zzippi (sing. zzippa), qui l’autore gioca sull’omofonia del diminutivo zzippina con il nome della persona Zz Pina.


Ni dasciuoma assicher li rräriji

Mies cam suogn ara ni ghji vuloss meanch pinser,
zzert mumant sant cam se u pas dû maun ncadd mi caschiea,
trappi li causi chi mi ndulauru d’ärma,
ma cam si fea a rrister nsinsibu e n’avar cchjù arogi,
n’ascuter sach disgiu li nutizzi, sach assuccier puru ana nieucc,
sau l’egoista chi iea na rraca ô past dû cuor
arniesc a ster mut nciaus ntô sa nant
e machieri disg ch’ognun m’avuoma ciengir sau i nasc uei,
mantr chi mizieria e fäm aumantu
uerri e amazzatini cam d’erba crosciu;
n’ameuncu mei timpesti, tirmatt, disgräzzi e freuni,
quänn ciuov na simeuna seuna,
auoma tucc u schient e u cuor trema cam na fuoghja.
I giuorn di disgräzzia dû passea chi cridimu mart turnean arrier,
adieg adieg a punina li rräriji dû miea paies sciddicu
nta la gaula dû vadan muoru sfrantumäri
cun tucc i sagni, la giaia, li bidozzi
uaragnieri cû suraur e la suffranza.
Nta nant auoma la tristozza ntô sgueard,
mighjier di uogg adivintean scium di därmi
chi scuorru nta d’ärma dû maun.
Sanfrardei, fighjuoi di moma Rracafart,
suoma tenc ntô paies e fuora sparpaghjiei,
chi disgiuoma ch’uluoma u bai a San Frareu,
dulaur ch’auoma tucc pi essir dintean.
Quänn u distìan cumäna partuoma tucc
cam na mändra di väcchi n zzierca di erba,
puru savann ch’ô paies dasciuoma pätri e momi,
li pirsauni chieri e ghj’amisg dû cuor
e Rracafart chi mi cieng a nieucc.
Na rruosa sampr cina di sfumaruri chi tucc adiega,
accuscì è la dangua sanfrardeuna
quänn s’abbrava e curtiva tucc i giuorn
ni ghj’è schient chi mpassulisc e sampr bedda arresta
cumpuru chi cu li därmi amäri l’abbiviruoma.
Ara ch’u distìan mi vaus attarbunir la vista,
m’arristean li därmi dû miea cuor
ch’abbravu la pardära dû miea paies.
Li diri mezzi ncruchieri scrivu paradi
chi mi sugirisc d’ärma, sintimant chi m’attäccu
ô paies e a ghj’amisg di la criscimania.
I bei rrigard dû miea San Frareu
e l’armonia dû chient di la pardära välu cchjù di n trisar,
ncurnisgiei cu li curnisg prizziausi
uarnisciu li cantunieri di la mant;
son giai cam la mieu chi nzùccaru l’amarozza dû tamp,
ma li rräriji dû miea San Frareu,
sau la mart mi li pà scipper
acciantäri cam li uò ntô faun dû cuor.


Non lasciamo appassire le radici

Messo come sono ora non vorrei neanche pensarci, / certi momenti sento come se il peso del mondo m’è crollato addosso, / troppe cose mi addolorano l’animo, / ma come si fa a rimanere insensibile e non aver più orecchie, / non ascoltare le notizie, cosa succede pure da noi, / solo l’egoista che ha una pietra al posto del cuore / riesce a stare muto chiuso nel suo nulla / e magari dice che ognuno si deve piangere solo i propri guai, / mentre miseria e fame aumentano, / omicidi e guerre come l’erba crescono; / non mancano mai tempeste, terremoti e frane, / quando piove una settimana intera, / abbiamo tutti paura e il cuore trema come foglia. / I giorni di disgrazia del passato che credevamo morti / nuovamente son tornati, / piano piano le radici del mio paese scivolano / nelle fauci del vallone muoiono frantumati / con tutti i sogni, le gioie, le bellezze / guadagnate con sudore e sofferenza. / In men che si dica abbiamo la tristezza nello sguardo, / migliaia di occhi son diventati fiumi di lacrime / che scorrono nell’anima del mondo. // Sanfratellani, figli di mamma Roccaforte, / siamo in tanti nel paese e fuori sparpagliati, / che diciamo di volere bene a San Fratello, / dolore che abbiamo tutti per essere lontani. / Quando il destino comanda partiamo tutti / come una mandria di mucche in cerca di erba, / pur sapendo che al paese lasciamo padri e madri, / le persone care e gli amici del cuore / e Roccaforte che piange noi. / Una rosa sempre piena di sfumature che tutti incanta, / tale è la lingua sanfratellana / quando s’innaffia e si coltiva tutti i giorni, / non c’è paura che appassisce e per sempre bella rimane, / anche se noi la innaffiamo con le lacrime amare. // Ora che la sorte ha voluto offuscarmi gli occhi / mi sono rimaste le lacrime del cuore / che irrigano la parlata del mio paese. / Le dita anchilosate scrivono parole, / che mi suggerisce l’animo, sentimenti che mi legano / al paese e agli amici dell’adolescenza. / I bei ricordi del mio San Fratello / e l’armonia del canto del dialetto valgono più di un tesoro, / incorniciati con cornici preziose, / adornano le pareti della mente, / sono gioie come miele che addolciscono l’amarezza del tempo. / ma le radici del mio San Fratello, / solo la morte le può estirpare / piantate come le ho in fondo al cuore.


Rrusidda

Stasgimu nta la stissa strära, carausi e carausg dû paies,
ai tamp quänn ancara giuvinatt appana appana svizzei,
sugniemu gralii e cunquisti di bidozzi,
emozziuoi chi fean virar li stoddi cun tutt u pararies.
Funteuna ginirausa di tenc sagn,
Rrusidda grean bidozza di la natura,
ngh iengiu chi caschiea saura la terra,
li ieutri criaturi dû paies ghj’avaiu fer la nviria,
puru quoddi chi ncuraunu e acciemu «Miss».

Adiegra, spinsirära, avaia la tinirozza di na sciaur,
ch’adieg adieg sbuoccia e tucc nchienta.
Se ghj’era n tantìan di malizzia
rodda l’amucieva cun tänti virtù,
era na cuntuntozza virarla assitära ô barcan,
circhiott, auoggia, fij aculurei, saura di li dinuoggi,
li manini fantasiausi sanza adinter,
tuveghji e dunzuoi, arricivivu u sa talant,
la bidozza dî sî rrachiem.

Cam li dumaroti â tarbunira sbiläva sau cun seuma,
zzert vauti cun sa suor la cchjù chjinina,
«Attenzian, –disgimu nieucc –ghj’è Angiulina,
la uerdia carzaräria!»
puoi sanza schient n coro di vausg
pi salurerla nta la strära arbumbäva.
Rodda arpunaia cu la mean e n basgiunìan manäva
la fecc di iengiu tutta rruossa fars s’avirgugnieva
se passann u sa sgueard cilestr a nieucc accarizzäva;
era tänta la cuntuntozza ch’i nasc cuor
cam cavei appagniei cun rodda si nganävu.

N giuorn spuntea cam n faunz n beu frustier,
vunaia auoggi puntini e curdeddi pi li sträri.
Rodda u vitt e fu cam n carp di saìtta
cam assucier ntê caunt a bauna fini,
dû beu pràncip azzurr si nnamurea,
mantr nudd di nieucc si l’aspittäva.
Meanch passean trai giuorn chi ghji fu la fuitina
cû beu arrabacuor la bedda Rusidda si nfujì.

Quänn nta la strära la bumba scuppiea,
nieucc carusgì e giuvinatt fumu tucc daveru scunsulei,
sau ô punsier ch’u prim frustier
la nascia Rrusidda, l’amaur di tenc sagn, m’avaia arrubea.
Si mardean nta la criesgia a li siei di mattina,
ghj’era sau u parrìan e i dì distimauni,
dipuoi si ng’anean ni m’arrigard ana
e di la bedda Rrusidda ni säppimu cchjù nant.


Rosina

Abitavamo nella stessa via, ragazze e ragazzi del paese, / quando ancora giovinotti giusto appena svezzati, / sognavamo successi e conquiste di bellezze, emozioni / che fanno vedere le stelle con tutto il paradiso. // Fontana generosa di tanti sogni, Rosina grande bellezza della natura, / un angelo caduto sulla terra, / le altre creature del paese dovevano invidiarla, / anche quelle che incoronano e chiamano “Miss”. // Allegra, spensierata, aveva la delicatezza di un fiore, / che lentamente sboccia e tutto incanta. / Se c’era un po’ di malizia lei la nascondeva con tante virtù, / era un piacere vederla seduta sul balcone, / cerchietto, ago, fili colo-rati sulle ginocchia, / le piccole mani fantasiose senza fermarsi, / tovaglie e lenzuola, ricevevano la sua bravura, / la bellezza dei suoi ricami. // Come le lucciole all’imbrunire usciva con sua madre, / alcune volte con sua sorella più piccola, / «Attenti – dicevamo – c’è Angelina, / la guardia carceraria!» / poi senza paura un coro di voci / per salutarla rimbomba-va nella via. / Lei rispondeva con la mano e mandava un bacetto, / la faccia d’angelo tutta rossa forse si vergognava / se passando il suo sguardo celeste ci accarezzava; / era tanta la felicità che i nostri cuori / come cavalli imbizzarriti se ne andavano con lei. // Un giorno spuntò come un fungo un bel forestiero, / vendeva aghi merletti e nastrini per le vie. / Lei lo vide e fu come un colpo di fulmine / come succede nelle favole a lieto fine, / del bel principe azzurro s’innamorò, / quando nessuno di noi se l’aspettava. / Non passarono neppure tre giorni che vi fu la fuitina / con il bel rubacuori la bella Rosina se ne fuggì. // Quando nella via la bomba scoppiò, / noi ragazzi e giovanotti restammo davvero molto tristi, / specialmente per il fatto che il primo forestiero arrivato / la nostra Rosina, l’amore di tanti sogni, ci aveva rubato. / Si sposarono in chiesa alle sei di mattina, / c’era il prete e due testimoni, / poi se ne sono andati non ricordo dove / e della bella Rosina non abbiamo saputo più nulla.


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