Opere di

Giuseppe Baiocco

LA DONNA DI VILLAMARE


di


Giuseppe Baiocco


PEQUOD EDITORE



Riferimenti per l’acquisto del romanzo “La donna di Villamare”, Italic Pequod editore

Ogni libreria on line (Mondadori, Rizzoli, Feltrinelli, Ibs, ecc) oltre al sito della Italic Pequod (editore del libro).

Nelle librerie di ogni città d’Italia (specie capoluoghi di provincia del centro-nord), dietro prenotazione.


SINOSSI

Due quadri misteriosi segnano l’inizio e la fine del romanzo: in mezzo una storia d’innamoramento, metafora del “pensiero a priori” in base al quale costruiamo il nostro mondo di affetti e conoscenza.
Protagonista e voce narrante è Antonio che, giunto alla soglia della mezza età con il dolore di un divorzio alle spalle dalla moglie Francesca, decide di tornare nei luoghi estivi del loro amore, a Villamare, sulla riviera romagnola. Qui conosce Martina, donna colta ma anche seducente ed inquieta, di cui si innamora, e rivede Noemi, che aveva conosciuto bambina e ora la ritrova al culmine della giovinezza, attratta dal “fascino” dell’uomo maturo.
Come una sorta di moderna Beatrice dantesca, Martina accompagna Antonio nel difficile percorso che conduce alla pienezza cognitiva degli affetti attraverso la “corrispondenza d’amorosi sensi”, giocando anche sulla velata ambiguità delmenage à trois che si dipana sotto il cielo di Villamare, e talvolta sovrapponendosi alla figura di Francesca, mai dimenticata.
È dunque con un linguaggio filosofico, a tratti poetico, che Giuseppe Baiocco, in questo suo primo romanzo, propone una “teoretica del sentimento” attraverso il ruolo della protagonista femminile, che affascinando i suoi interlocutori con bellezza, intelligenza e ironia, non esita però a “istruire” Antonio sulle derive che l’innamoramento, con le sue vertigini e i suoi deliri, può facilmente creare, conducendo spesso da tutt’altra parte rispetto a dove si credeva di andare.


INCIPIT

Dalla strada il grande Hotel Castelverde ci apparve di sghembo, come un direttore d’orchestra sul palco chino all’applauso. Già lo vedemmo appena superato l’ultimo dosso, spiccava tra gli alberi del bosco e il fogliame dai toni gialli e rossi. Posto in posizione eccentrica rispetto al maestoso parco, stava in ascolto della sua stessa bellezza, pronto a vibrare a ogni frizzo di brezza.
Il territorio attorno era stato ritagliato secondo solide geometrie che ne risaltavano la prospettiva e l’ordine ascetico d’aiuole e terrazze a gradoni, alternate a piccole cascate ricavate da arricciamenti di terreno ondulanti il suolo in elevazioni più aspre. In lontananza e in alto, si offrivano alla visione gli zampillii ad arco delle fontane e placidi specchi d’acqua ove galleggiavano infiorate di ninfee bianche. Aldilà della cancellata a due ante, con aste verticali a tortiglione, il rosso dei melaranci sprizzava dei colori dell’aragosta rallegrando il tono dell’intera selva in una stagione ancora avara di tinte solari.
Con un segno del capo, il mio amico mi fece cenno di varcare il passo lì, perché quello era il luogo. Ci addentrammo quindi e prendemmo per il viale che odorava di appena piovuto.

***

In verità, questa storia cominciò quaranta anni prima su una spiaggia della riviera adriatica. Io, Antonio, ve la racconterò qui di seguito, sin dall’inizio, da quel mattino in cui incontrai – ancora fanciullo – Gustavo il clown, sull’arenile di Montolmo, un gruzzolo di case che si specchia sullo stesso tratto di costa del piccolo albergo chiamato “Villamare”.



LA DONNA DI VILLAMAREROMANZOPEQUOD EDITORE

di Giuseppe Baiocco, Montefano, (MC)

Antonio era di quelli che quando s’innamorano scrivono poesie. Allora, l’animo gli risuonava dei canti delle muse trasfiguranti in poesia l’immaginario degli amanti: le attese profumate al caffè egiziano, le viuzze sonnambule odoranti di krapfen appena sfornati, il look carta da zucchero del mattino novello spremuto nell’essenze al limone del primo bacio.
Gli tornavano alla mente anche ricordi lontani come le fragranze di legno antico nella casa della vecchia zia – piena di penombre più che di sole – con lunghe tende a bastone i cui orli inferiori, ondeggiando agli strappi dell’aria, strusciavano sui mattoni rossi, sempre lindi e lucidi.
Antonio era così, uno che catalogava il gusto delle cose che lo legavano a chi amava. Gli dicevano che avrebbe fatto bene il fioraio per come toccava ogni petalo, con la cura di chi sta baciando. Del giardiniere, poi, aveva la perizia del sapere attendere che i boccioli, come ogni altra cosa, iniziassero a fiorire di idea loro così come i papaveri rossi a maggio e le magnolie in primavera.
Quel giorno uscì di casa con un’idea precisa. Controllò le tasche come d’abitudine per accertarsi d’avere con sé il necessario prima di chiudersi alle spalle il pesante portone nero. Quel gesto lo rassicurava e, infatti, lo ripeteva ogni volta che si allontanava dall’appartamento sin da fanciullo, prima d’avventurarsi per le strade della città lasciandosi dietro il piccolo mondo di ninnoli e cose care, che era la sua camera.
Non era sposato ma aveva appena conseguito la laurea in medicina a pieni voti ed era quindi ancora lontano da quella stagione della vita che Conrad chiamava la “linea d’ombra”.
Prima di scendere dal marciapiede e attraversare la strada, si guardò davanti: il lungo viale di tigli, uno dei pochi angoli verdi che la città era riuscita a conservare, gli si parava davanti con l’immagine consueta di cime increspate di chiome e di ombre che il sole colpiva d’infilata. Prese quello schiocco di luci, mestato ai colori acquerello d’un autunno allo stremo, come un buon viatico per la giornata a venire. Gli alberi in riga, come soldatini di stagno, e la collinetta dietro costituivano, da sempre, un momento di meditazione mattutina come la recita del breviario per un curato di campagna.
Antonio aveva deciso di prendere l’autobus numero 24, come faceva da ragazzo per andare al liceo dall’altra parte della città. Il freddo non l’aveva scoraggiato nel decidersi, anzi quell’aria dura e aspra sul volto gli dava tono e buone sensazioni fisiche, un senso di sicurezza e piacere.
Il pullman si fermò davanti ai suoi piedi e Antonio vi saltò su – giusto il tempo di controllare che fosse quello giusto, il 24 appunto – per arrivare in via Tacito. Non aveva fretta quella mattina: era partito di buon’ora ed anche il bus era stato puntuale. “Questa giornata sta iniziando bene”, scherzò tra sé.
Non gli fu difficile trovare un posto libero. Sedendosi, gettò lo sguardo fuori dal finestrino e avvertì il piacere di tornare a scorrere con gli occhi quelle strade che gli furono care, ognuna avvolta nelle atmosfere proprie della tradizione di quartiere, delle suggestioni di vicoli, orti, terrazzi, ballatoi, loggiati e piazzette. Talora emanavano un’aria da mercatino rionale o di festa bonaria anche se, in realtà, erano fredde e vuote.
Al procedere dell’automezzo, sfilarono successioni di balconate dalle grandi finestre sormontate da cornici e fregi, poi ampie terrazze contornate da balaustre dorate e ancora cornicioni ornamentali di palazzi nobiliari dal profilo austero e portoni ricchi di decori a raccontare la storia passata di lì. Quelle vie le aveva attraversate, inconsapevole, durante la smemoratezza giovanile, negli anni in cui un adolescente si gode la sempiterna gioventù, apparendogli il futuro un luogo abitato solo da vecchi.
La spensieratezza di quell’età non è portata a marcare i ricordi, a passarli in rassegna, a tenerli incastonati nella memoria. Non si può presagire quanto, poi, si godrà di averne fatta una buona scorta per poterli richiamare in vita e assaporarli uno per uno, quando nella senilità si vivrà solo di quelli.
A questo pensava Antonio – che aveva imparato a ragionar da adulto sin da bambino – mentre l’autobus procedeva a strattoni lungo il percorso cittadino. Il tragitto della linea 24 lo aveva in simpatia perché – per un breve tratto – attraversava zone di periferia che mostravano ancora l’aspetto del paesello, con gli anziani fermi sul portone o appoggiati alle ringhiere dei balconi a guardare gli animali a zonzo per i cortili e i cristiani in transito per i viottoli.
Nel sedile davanti sedeva una signora con un cappellino rosso, dal colore un po’ stinto, appena sgualcito ma ben conservato, come sa fare chi le cose le deve serbare a lungo.
Ciarlava con una donna che mostrava più anni di lei e le sedeva accanto. Antonio non riusciva a capire le parole per lo sferragliare della vettura in corsa. Poteva, però, vedere le loro espressioni e intuire che il parlottio non interessava nessuna delle due. Nonostante ciò, s’ingegnavano in quel dialogo senza scopo. Davano l’impressione di conoscersi bene, ma più per via della frequentazione che per amicizia.
L’autobus attraversava di prepotenza gli incroci e si fermava ringhiando davanti ai semafori rossi. La gente che saliva a ogni sosta era come quella che scendeva: distratta dal nulla, gli sguardi rinchiusi e gli occhi a sfiorare le cose senza vederle.
In via Cristoforo Colombo, la vettura si affollò e Antonio si alzò per offrire il posto a un signore con il bastone bianco. Si accorse che il cieco, a ogni fermata, contava i secondi passati nell’attesa e notò che, al ripartire barcollante del bus, orientava la vigilanza ai rumori che lo avvolgevano per mappare tutto il nuovo che gli era passato attorno nel frattempo. Fu colpito dall’attenzione mostrata da quel viso per ogni cosa che lo sfiorasse, pur guardando a vuoto.
All’improvviso il ragazzo trasalì all’apparire della grande statua equestre che giganteggiava al centro di piazza Tacito. “Eccola finalmente!” esclamò fra sé. Quanto tempo era passato da allora! Scese veloce dall’autobus con la levità d’un ginnasta alle parallele. Si guardò attorno con gioia ed esplorò lo spazio con metodo.
Si accorse che la chiesa barocca con la scalinata a gradoni era pullulante di ragazzini in gita d’istruzione. Davanti c’era un grande prato dove in primavera si trastullavano le mamme a spasso con i bimbi e i giovani innamorati.
Annusò l’aria avvertendo solo freddo nel naso mentre una vampata di smog gli penetrò nei polmoni. Attraversò la strada e percorse il marciapiede per un centinaio di metri. Superò il bar Sirenetta notando che aveva cambiato nome e gestione ma osservò, con piacere, che dentro si combattevano ancora le più spietate guerre stellari giocate sui videogame, proprio come una volta ma con più frastuono.
“Il mondo cambia ma i ragazzi no”, pensò Antonio con una certa soddisfazione. Riascoltò con gioia i suoni roboanti dell’iperspazio siderale e si rivide solcare quell’universo nero, bucato da luci astrali e raggi cosmici, con la disinvoltura di un eternauta in corsa su scenari senza fine e senza tempo.

(dal 3° capitolo)

***

Poco dopo, si fermò davanti ad un portone color nocciola, con due battagli in ottone brunito a forma di anello, pendenti soavi come gli orecchini a pendaglio d’una ballerina creola. Una targhetta sbiadita ricordava la presenza di un agente assicurativo mentre un’altra dorata e luccicante quella di uno studio legale. Antonio suonò il terzo dei cinque campanelli in fila e attese.
Dopo qualche istante udì un tramestio di sibili dal citofono che qualcuno cercava di maneggiare poi, finalmente, una voce incapsulata in quel ronzio vibrante chiese: «Chi è?».
«Ciao, sono Antonio» disse lui in punta di piedi. Subito dopo avvertì lo zillare dell’apertura elettrica e si ricordò quanto gli fosse stato familiare, un tempo. Salì contento due rampe quasi di corsa e intravide un fascio di luce provenire da sopra, segno che qualcuno aveva già aperto il portoncino dell’appartamento.
Quando superò il primo pianerottolo, Francesca apparve dall’alto, in controluce: abbagliato, la vide roteare in una giostra di colori.
Era lì – di sghembo sul limite dello scalino – e si dondolava con l’avambraccio sinistro appoggiato sul corrimano della ringhiera di ferro, lasciando penzolare la gamba destra.
Quando Antonio la raggiunse sul ripiano delle scale, lei si era spostata davanti all’uscio, dove era ancora illuminata di spalle offrendo il profilo dei capelli e del viso mescolati in un intenso chiaroscuro.
«Ciao, Antonio, allora sei proprio tu? Credevo non saresti più venuto. Entra, sono contenta di vederti» disse lei con sobria dolcezza. Abbracciandolo, Francesca lo baciò con le labbra che sapevano di fresco, insaponate di saliva all’odor di menta.
«Ciao, mi fa piacere che sia tornato» disse ancora. «Entra in casa. Oggi non c’è nessuno. Sei spettinato e il golf è smagliato sotto il collo. C’è vento fuori?» gli chiese con il garbo d’una zia.
Antonio la guardò ancora. Lesse in quegli occhi tante domande. Non si vedevano da cinque anni e, con l’eccezione degli auguri per le feste “grosse”, non si erano scambiati altri messaggi.
Lei non glielo aveva ancora chiesto ma lui lo disse da sé: «Ora vivo a Bologna, là ho iniziato il mio lavoro, frequento degli amici conosciuti tra i compagni di corso. Qui non ho più nessuno. Anche mio padre è morto pochi mesi fa. È rimasto solo il vecchio appartamento di famiglia. Sono arrivato ieri per mettere in ordine certe pratiche dal notaio. Stamattina, poi, mi è saltata addosso la voglia di rivederti. Mi ha ispirato la tua musa come un pittore vedutista, di quelli che ti piacciono tanto, stretti tra panorama e sentimento. Ho fatto bene a venire?» chiese guardandole gli occhi senza temere la risposta.
«Sì. Certo, hai fatto bene» rispose Francesca forandogli lo sguardo per capire di più. Poi sorrise. Antonio tornò a sentire il gusto della menta.
Entrarono. Al primo passo riassaporò l’odore del salotto. «È strano – disse rivolto a lei ma seguendo il corso dei suoi pensieri – ogni casa emette una fragranza che si mantiene nel tempo, un codice di segnalazione. Se ne accorgono solo quelli che la visitano di rado e non chi ci vive». Quell’appartamento ad Antonio ricordava il sapore di un negozio d’antiquariato viennese, dove aveva accompagnato il padre in viaggio d’affari, quando aveva sedici anni.
Si fermarono al centro della stanza, poggiando i piedi sopra il grande tappeto indiano rosso, blu e giallo, su cui erano disegnate delle figure d’animali stilizzati.
Lì, uno di fronte all’altra come gli eroi dei film western, ora si potevano guardare in piena luce: per Antonio era venuto il momento di spiegare perché era tornato in via Tacito. Frugò nello sguardo di Francesca alla ricerca dei sentimenti che le si agitavano in corpo e di tutte le parole che non si erano detti in quegli anni.
Si sedettero sul divano rosso bordeaux, in pelle stile inglese, che dava sul terrazzo. Dopo essersi ancora baciati, lei cercò di assestarsi meglio, accavallò morbida le gambe, adagiò la schiena sulla spalliera e stese l’arto superiore lungo il bracciolo lasciandolo penzolare fuori con il palmo della mano rivolto verso l’esterno, come una diva in atto di fumare.
Era incuriosita da quella visita inaspettata, molto dopo la loro separazione ai tempi della terza liceo, in piena stagione adolescenziale; non sapeva fino a che punto potesse spingersi a chiedergli della sua vita attuale. Temeva di essere fraintesa ma neppure voleva rimanere all’oscuro di eventuali nuove relazioni.
Si erano voluti tanto bene e – sul minuetto di quell’amore – Antonio e Francesca ballarono un’intera estate. Gli adolescenti sanno amarsi in ogni luogo, in ogni modo, senza ritegno per i moti dell’anima che li percorrono, perché detengono il regno dei sentimenti forti, delle stagioni eterne, delle membra dall’odore del muschio. Da un giorno all’altro, però, la fiumana dionisiaca si asciugò, senza una ragione.
Con quei ricordi ancora vividi, Francesca fu contenta di vedere che il viso di Antonio e il suo fisico, nonostante gli anni trascorsi lontano, conservassero ancora i tratti incarnati della prima giovinezza. Glielo disse subito, perché voleva che lo ascoltasse in presa diretta, ben sapendo quanto a lui piacesse che fosse lei a farlo.
«La prima cosa che hai notato stamane sono stati i capelli spettinati. Significa che non sono cambiato e mi fa piacere che mi ritrovi carino come mi hai lasciato» disse Antonio con fare giullaresco.
Francesca, intanto, si era pentita d’aver mostrato troppa gioia per l’improvvisata e d’essersi lasciata scivolare con poco decoro lungo la spalliera del divano, incrociando le ginocchia nude mentre lui era ancora in piedi, ritto davanti a lei. Quella mossa poteva essere stata fraintesa come un richiamo erotico, totalmente estraneo alle sue intenzioni del momento.
Pertanto decise di stare un po’ sulle sue per capire meglio. Quindi iniziò a ricomporsi, a busto eretto, gambe strette e mani congiunte appoggiate sulla gonna, sempre troppo corta in quei casi. Stava anche rimuginando sull’esuberanza di quel bacio con cui l’aveva folgorato all’ingresso. Restò quindi in attesa degli eventi per capire le prossime mosse da giocare nella partita a scacchi più difficile della sua vita.
Lui notò la ritirata strategica perché – quando lei si sentiva a suo agio – amava sdraiarsi sul sofà senza difese, liberando il corpo dai laccioli dell’etichetta e degli abiti: così assumeva posizioni un po’ voluttuose, di quelle vietate dal galateo alle ragazze di buona famiglia. Allora sollevava le braccia congiungendole dietro la nuca mostrando le ascelle nude e lasciava che l’orlo della sottana scorresse su verso i glutei mentre sospingeva gli arti inferiori in avanti, sistemando il tronco in posizione quasi orizzontale rispetto al divano. Durante la conversazione, giostrava con le gambe, specie se indossava calze ambrate che tanto amava esibire, associandole alla gestualità delle mani nella chiacchierata. Inoltre, parlava ridendo e rideva parlando, saltando da un discorso all’altro così come la fantasia, l’estro, l’umore, il desiderio le dettavano nell’attimo. In quei momenti, non dava l’impressione di riflettere troppo sulle parole, andava d’intuito, giocava il suo corpo con lo charme avvolgente d’una danzatrice, se davanti aveva un ragazzo che avrebbe volentieri sedotto.
Francesca, da innamorata, amava anima e corpo senza mai separare l’una dall’altro anche quando il bon ton l’avrebbe richiesto.
Mentre riflettevano sulla prossima mossa da fare, senza avvedersene, si erano messi a far salotto scambiandosi qualche notizia neutra e pettegolezzi spiccioli, con minime concessioni alla reciproca confidenza. Infine, cominciarono a scrutarsi in modo più fitto, per capire cosa già noto si fosse ancora serbato nell’altro e cosa – invece – fosse spuntato di nuovo. Alla fine, cessarono di giocare in difesa e fu Francesca la prima a buttarsi all’assalto lancia in resta.
«Ora che ci siamo ritrovati – disse volendo apparire risoluta – abbiamo solo una cosa da fare: non lasciarci mai più» e si mordicchiò le labbra sbavando il rossetto. Guardò Antonio per osservarne la reazione che stentò ad arrivare. Non si lasciò scoraggiare: sapeva riconoscere quando l’amato era in pausa.
La ragazza si alzò in piedi come sollevata da un’onda gigante e gli si parò di fronte sussurrando: «Sei proprio elegante oggi. Lo sai come ti voglio vedere sempre: la barba ben fatta, capelli curati e con quel tuo profumo che porta il vento del deserto». Antonio ancora non dava segno di essere tornato in sé.
Allora, lei gli prese la mano che aveva appena estratto dalla tasca e se l’appoggiò sul proprio ventre. Poi, lo sollevò di peso dal divano e lo strinse a sé per rotolarsi insieme sul sofà.
Appena atterrati, si accorsero in quell’istante che desideravano entrambi abbracciarsi dopo tanto tempo passato a nascondersi. Antonio sapeva bene che tale era la natura di Francesca: ragionar d’amore con il solo corpo, senza altro vocabolario. Le parole – nella sua filosofia – servivano per tutto il resto.
Quindi, si avvicinarono alla finestra che dava sul terrazzo e vi si appoggiarono cercandosi oltre il vetro.
«Non voglio che tu riparta per Bologna. Puoi farlo la settimana prossima e nel frattempo ti sistemi qui, a casa mia» mormorò lei spianando il dito indice dritto sulle labbra dell’amico per dirgli: “Taci, anche se non sei d’accordo!”.

(dal 3° capitolo)

***

Lui si era trasferito da Bologna in quella cittadina vicino Ferrara per via del lavoro paterno e lì stava per incontrare la donna che gli avrebbe colmato di bellezza un breve tratto della sua giovane vita, che non avrebbe più dimenticato.
Tutto si compì nel primo giorno di scuola: lei sedeva compiaciuta su uno dei posti in prima fila, a presidiare l’aula vuota tra i banchi di quella terza liceo. Antonio, apparso per caso sull’uscio, la scorse con il capo abbassato, chino sotto la ribaltina, a cercare un libro nella borsa. Vide quel tentativo maldestro e cercò d’anticiparla con un abile gioco di mano. Il destino volle che il tomo pescato a volo dal ragazzo fosse proprio quello che Francesca cercava.
Quando rialzò il capo e il busto, il suo sguardo si scontrò con il viso di lui che le stava davanti, dritto come l’Eretteo davanti al Partenone, con il “De Rerum Naturae” nella mano destra, porto verso di lei come anello nuziale. Francesca lo scrutò dalla testa ai piedi e lo attraversò con uno sguardo saettante da parte a parte. Era stata violata nel suo lato segreto da uno sconosciuto.
Voleva gridare, non per chiedere aiuto, ma per la stizza dell’invasione subita nell’intimità del proprio banco. Non sapeva se sentirsi offesa ma doveva deciderlo in fretta e per farlo aveva bisogno di capire quanto Antonio potesse intrigarla. Tutto dipendeva da quella risoluzione. Intanto, lui era già in estasi mentre lei cominciava a cogliere nel suo viso da naufrago un’inquietudine sensuale e il segno dell’alba da venire.
«Tu sei nuovo qui», non era una domanda ma il vocalizzo di un turbinio di sentimenti vorticosi.
«Non ti conosco, io», tartagliò con un filo di voce stridula.
«Chi sei, che fai in questo istituto?» frignò, ancora, indispettita.
Si ricompose in un attimo. Assestò, con la mano, un colpo di traverso alla frangetta dei capelli che le grondavano lungo la fronte, anch’essi infuriati. Poi, in un crescendo d’ira, gli pose una serie di altre domande a raffica, con lo stesso tono inquisitorio.
Antonio, che per quella giulleria rischiava il suo odio, la guardò come un ciclamino. Fece con la mano destra il gesto di arrestare la foga oratoria e approfittò della prima pausa di silenzio per farsi ascoltare; poi, declamò con enfasi, affinché lei potesse udirlo nel modo migliore: «Il mio nome è Antonio – disse prezioso – sono un flauto sommerso in un acquario. Vivo in un romanzo che non ho scritto io. Da oggi sarò il tuo nuovo compagno di classe. Qualche volta m’incanto se vedo una ragazza bella come te. Non chiedermi altro perché altro di me non so».
Francesca lo guardava ma non lo udiva più. Quel viso le apparve rifratto di luce. Un tornado d’immagini gli sommerse la mente nel gorgo di pensieri vorticosi. Le si fermò il tempo nell’anima in tumulto. Fu un attimo, poi tornò a capire. Percepì che un’emozione bella e divina stava per avvolgerla.
“Lo chiamano colpo di fulmine – si disse – ed è una cosa che può capitare anche a me! Non ci avrei mai creduto!” Quello che le stava per occorrere era amore e successe subito dopo.
Lei capì che voleva Antonio per sé e per sempre. Ciò fu quel che avvenne ma non fu per sempre, purtroppo.
Lui la desiderava sopra ogni cosa, da quando le pescò il libro di Lucrezio nel borsone. Le loro storie corsero felici per due anni senza parole, solo vivendo d’amore con tutta l’anima che può stare in un corpo.
Seppero volersi bene senza doverselo mai giurare. Si amavano da sempre e questo bastava a entrambi per credere nell’eternità. Nessuno dei due aveva fatto teorie sulla beatitudine che gli era piovuta dal cielo. Così era e a loro piaceva che così fosse.

***

Circa due anni dopo la separazione (quindi molto tempo prima del mio attuale ritorno a Villamare), trovai nel salone di casa un telegramma che m’informava del suo ricovero in una clinica neurologica vicino a Rimini. Niente di più, neanche una firma. Le parole di quei dispacci sono sempre così tronche, come respiri mozzati. Non accennai ad alcuno della notizia. Mi fu sufficiente poco più di un’ora di macchina per raggiungere l’ospedale.
Fui fatto accomodare nella sala d’attesa, muta e fredda. Mi sentivo deposto in una nicchia di vuoto. Dai vetri smerigliati delle grosse finestre filtrava debolmente un sole pallido. Il biancore dell’arredo dava un colore medicale al silenzio sterile della stanza, un silenzio che si sgretolava a ogni sbatter di porta per ricomporsi subito dopo, nuovamente corposo e liturgico.
Il direttore della clinica aveva una faccia piccola e tonda con due grossi occhi, ingranditi ancor più dalle spesse lenti da presbite. Mi fece segno di sedere e accompagnò il cenno con un sorriso appena apparso sull’orlo delle labbra. Sbatté le ciglia diverse volte prima di trovare lo sguardo giusto per guardarmi.
«Lei è il marito, vero?» mi chiese, ben sapendolo.
«La signora Francesca è stata ricoverata nella nostra clinica per una psicosi scompensata. È grave». Continuò poi a chiedermi notizie utili alla ricostruzione della storia. La chiamano anamnesi ma è un calvario di ricordi, una devastazione dell’anima.
«Capisce, sua moglie è convinta di avere un bambino nella sua pancia! Sono parecchi mesi che vive in questo stato. Tra poco inizieremo un trattamento psicoterapeutico e allora sarà prezioso il suo aiuto».
Lo interruppi per fargli notare che da tempo ero fuori dalla sua vita.
«Sbaglia, caro signore, lei è ancora presente nel vissuto di sua moglie sotto le forme simboliche della follia». Lo squadrai perplesso come se avesse parlato arabo ma il mio interlocutore non si premurò di spiegarsi e proseguì dritto.
Dopo un lungo respiro che servì a rischiarirgli il giudizio, dichiarò solenne: «Quel bambino che la signora Francesca tiene in grembo è proprio lei, caro signore, suo marito, il suo uomo. Si tratta di un raro caso di delirio di maternità. Sapesse quante precauzioni prende! Passa interminabili ore a letto per non affaticarsi, alle volte si accarezza la pancia in posizione d’ascolto, poi si rigira lieve come un fiocco di neve».
Il discorso del medico filava via così liscio che non mi meravigliò quando concluse che era ammalata di schizofrenia. Poi, per farmi coraggio, soggiunse: «Non si preoccupi della parola grossa, oggi è considerata una malattia come le altre, è un disturbo come tanti. Lo dicono tutti, politici, sociologi, psicologi, giornalisti, sindacalisti…».
Si strofinò con un certo fastidio un foruncolo che aveva sulla punta del naso e proseguì: «Ce l’ha anche un mio cugino. Lui la prese quando la moglie lo abbandonò per andare a vivere in una comune anarchica… neanche la soddisfazione di essere tradito da uno solo! Poveretto!». Su quest’ultima battuta ci fece sopra un risolino, il dottore.
Poi, dopo aver ricomposto la mimica in una facies più professionale, continuò atono: «Una volta tornata a casa, dopo la fase acuta attuale, dovrà assumere queste gocce tre volte al giorno. Mi raccomando tre volte al dì, anche a Natale e a Pasqua».
Mi guardò di striscio come scansando il mio viso dalle immagini della sua mente. Poi riabbassò lo sguardo per cercare il ricettario in fondo a qualche cassetto della grossa scrivania. Scrisse. Tolse gli occhiali, poi li infilò di nuovo. Guardò il soffitto come se qualche cosa gli fosse andata di traverso, quindi si soffermò sul lampadario e dopo sul calendario di buffi cani che pendeva dalla parete davanti.
Tossì, si soffiò il naso con cautela come origliando il rumore che lui stesso faceva. Cercò in qualche tasca le sigarette. Ne estrasse una dal pacchetto con l’abilità di un prestigiatore che tira fuori il piccione dal cilindro. Non trovò l’accendino là dove credeva che fosse. Si rianimò quando lo sorprese dietro il fermacarte d’argento e allora il viso gli s’illuminò della luce dei vittoriosi.
Io ero lì davanti a lui ma mi venne il dubbio di non esserci mai stato. Non mi aspettavo che la discussione stesse per finire, per cui rimasi sorpreso quando il dottore si alzò dandomi in fretta le ultime raccomandazioni. Mi stese, poi, la mano con signorilità per farmi capire che l’udienza era finita e sparì dietro una vetrata bianca che un’infermiera si affrettò a richiudere. Mi alzai senza guardarmi attorno e uscii dalla porta che probabilmente si aprì da sola.
Tornai d’improvviso a provare una strana paura che mi faceva sentire la morsa del silenzio e del dolore in ogni cosa che toccavo. L’idea che Francesca fosse stata colpita da una malattia così terribile mi aveva stravolto. Sentii il bisogno di lasciare la clinica di corsa, di fuggire lontano da me stesso: il candore medicale, i grandi specchi a muro implacabili, le persone impalpabili e invisibili che popolavano quel silenzio polare mi avevano prodotto un malessere che mi disgustò nel fisico mordendo lo stomaco.
Risalii in macchina, incerto sul da farsi. Non potevo incontrarmi con lei perché il direttore me lo aveva proibito, d’altra parte capivo che non era possibile alcun dialogo con una donna convinta di essere incinta di me medesimo!
Non volli ritornare subito a Bologna ma preferii dirigermi verso la vicina costa: del resto era un tragitto breve che mi avrebbe aiutato a distanziarmi emotivamente dai fatti, prima del rientro a casa, e insieme ad analizzarli con maggior lucidità. D’improvviso, mi ricordai che da quelle parti si trovava Villamare, il piccolo hotel a conduzione familiare che per dieci anni aveva fatto da acquario al nostro amore, un spazio tondo attorno al nostro mondo. Riconobbi subito quei posti, nonostante non li avessi più frequentati dalla separazione.
Giunto sulla litoranea, mi apparve l’azzurro intenso dell’Adriatico. Arrestai la macchina e corsi in spiaggia: era quasi il tramonto. Avevo imparato ad amare il mare proprio da Nicola e Francesca. Sentivo che quello era l’unico posto sulla terra dove potevo ancora incontrarla sulle ali della fantasia e della follia. Un marinaio assestava le reti vicino al barcone a strisce rosse e bianche, tirando fumate da un mezzo sigaro che calzava stretto in bocca. La spiaggia era quasi deserta e le onde arpeggiavano il loro canto che sa d’eterno. Cessò il rumore dei motori, delle voci, delle acque. Un gabbiano inseguiva la sua ombra, lieve come un’ostia, fra gli scogli strusciando sui marosi, per poi rizzarsi d’improvviso come un cirro bizzoso. Rossi squarci del crepuscolo m’illuminavano l’anima che si espandeva di luce al balenar di lampi nel cuore in tempesta.
Tornai con il pensiero a Francesca. Come potevo essere naufragato nel suo ventre e nei suoi deliri? Intanto, a mo’ di nube nera era scesa la notte a rivestire di buio le cose. Non so quanto tempo passai in quel ricettacolo di sabbia e ricordi. Infine, mi alzai in piedi con decisione, guardai la strada, raccolsi la giacca e andai dritto in direzione dell’auto. Forse, sulla destra c’era una piccola pineta a ridosso del poggio che si specchiava nell’Adriatico.
Dietro le stelle, l’alba si accingeva al mattino col nuovo sole in grembo. Forse per un attimo il mare frenò il tempo in corsa sulle onde. Fu così che Francesca mi apparve fra le trasparenze dell’acqua limpida come imago dell’ultimo sogno.

(dal 4° capitolo)

***

Due ragazze, vestite da conchiglia, mi passarono vicino a passo di danza minacciando con i loro piedi le due torri di sabbia che avevo costruito con tanta cura.
Sperai che il putiferio festaiolo se ne andasse via il più presto possibile: non mi trovavo nello stato d’animo di goderne ed ero preso dalla costruzione del mio fortilizio saraceno.
Finché cominciò a volteggiarmi per la testa un’idea che pensavo dissolta da quel dì: innamorarmi ancora un’altra volta. Fui contento di tornare a sentirmi dentro il ruggito del desiderio e il profumo dell’amore, quando un bellissimo piede nudo s’infilzò sulla sommità della torre più alta e la disintegrò in un attimo.
Pensai ad un ritorno maldestro e vendicativo delle ragazze-conchiglia da me fugate poc’anzi ma loro non portavano lo smalto rosso sulle unghie né una catenella argentata alla caviglia sinistra. Soprattutto non erano scalze.
Esaminai i piedi per esteso: mi colpì la vista di un tatuaggio dietro il malleolo che ricordava l’ondeggiare del mare. Doveva averlo fatto un artista, per rendere così bene il senso del moto acquoso con i pochi segni grafici che si possono incidere sulla carne.
Il disegno era stato tracciato sulla pelle abbronzata, ai limiti con una zona di epidermide nettamente più bianca come se quelle fossero le gambe di chi porta calzini corti per molte ore al giorno, sotto il sole.
In mente mi si accavallò qualche nervo, nel fare le giuste operazioni logiche; iniziai a sollevare lo sguardo e con esso il naso e la bocca, poi risalii verso l’alto come un alpinista che scala una parete di sesto grado. Dalle caviglie giunsi fino allo snodo delle ginocchia, poi superai le cosce finché scorgendo la sommità di quel giovane corpo mi apparve il viso tondo e sorridente di Martina, che mi guardava divertita.
«Scemo, ti stai divertendo a fare il cucciolo?» mi disse sorniona e subito si abbassò felina accosciandosi avanti a me. I nostri occhi s’incrociarono a mezz’altezza. Scintillarono per un istante come un punto interrogativo. Poi, lei sorrise. Sorrisi anch’io: per la prima volta la vedevo a fior di labbra, con il viso imbandierato a festa.
Le sue pupille stavano lampeggiando all’intero universo mentre mi guardavano; non so se le mie risposero nel modo giusto a quel fraseggio.
Per un attimo la brezza marina cessò il suo sospiro.
«Ciao» dissi e mi alzai in piedi di scatto, quasi sull’attenti.
«Ciao» rispose lei con i riflessi del sole negli occhi e poi iniziò a sollevarsi lentamente come in un’aggraziata danza polipoide.
Lei mi prese la mano sinistra come per leggerla, imitando le movenze e il timbro di voce delle chiromanti. Ci passò sopra l’indice e il medio per palpare le righe che solcano il palmo, poi disse con fare sapiente e il tono dell’aruspice: «Chissà in quale landa condurrà questo cavaliere il suo destriero o tu sei un giovane scudiero da iniziare alla nobile arte della cavalleria? Hai già scelto la dama a cui dedicherai la tua vita di ardimento? Quali saranno le insegne che vestiranno la bardatura del tuo cavallo? Messere, rispondi tosto!». Mi piaceva quel gioco condotto con simpatica maestria e, senza fiatare, le infilai il dito indice nel centro delle labbra. Lei si azzittì dissolvendo il suono della voce nella brezza che si fece più morbida.
«Mia angelica donzella – dissi ricalcando il suo timbro prosodico – i giovani della mia casata possono corteggiare solo fanciulle di ugual rango. La sua, pur di rispetto e facoltosa, non appartiene a questa cerchia. Solo il mago Merlino potrà aiutarla» e con il braccio indicai verso la postazione di Ercole tra i capanni a strisce bianche e azzurre.
Martina mi guardava con gusto, forse la stavo sorprendendo: non si aspettava che ribattessi, su due piedi, al suo canovaccio di pura fantasia, per poi rilanciare.
Si era immersa con estro nel mio fantasticare e si atteggiava a gran dama per sostenerne il ruolo nel siparietto a due. Non le mancavano certo né l’ironia né la vena creativa per fronteggiare le schermaglie dell’amor cortese.
Dopo un attimo, tornò all’assalto lancia in resta: «Chi crede di essere costui, un paladino di Francia, un guerriero della corte di re Artù? Io sono Ginevra, la sua sposa e possiedo tanti castelli in terre sterminate fino ai confini del mondo. Per cui, o misero scudiero, sappi che non ti è lecito mancarmi di rispetto; anzi ti ordino d’andare da Lancillotto a prendere lezioni di cavalleria. Stanotte ti aspetta una lunga veglia d’armi». Appena terminata la parte che si era data, si mise a ridere a crepapelle lasciandosi cadere in terra a pancia all’aria.
Finimmo la sceneggiata entrambi divertiti e ci baciammo in bocca perché quel corteggio dialogante ci aveva messo di buonumore e reso complici.
Per rompere l’incantesimo le chiesi, imitando l’accento romagnolo di Ercole, di fare una nuotata insieme fino agli scogli ma lei non rispose. Avrebbe preferito sentirmi parlare ancora in stile aulico, avere un paladino di Francia prostrato ai suoi piedi – quegli stessi che avevano abbattuto il mio castello saraceno – e soprattutto che avessi continuato a trattarla da damigella come un focoso poeta del “dolce stil novo”.
Roteò su se stessa, indietreggiò di qualche passo ancheggiando come una modella, poi si volse di scatto verso di me con mezzo giro del busto mantenendo le gambe ben piantate al suolo. Infine, fece la mossa del pistolero che estrae l’arma dal fodero e gridò: «Spara al cuore, Ramon spara!».
Capii che aveva ancora voglia di giocare e sperai che quella battuta alludesse all’affetto che avrebbe voluto da me.
Quindi si ricompose e tornò ad essere la donna disinvolta ed elegante che sa vivere nel bel mondo e nei circuiti tennistici come una signora di quello sport. Infine, mi annunziò solennemente: «Ascolta, Antonio, nel pomeriggio vado a giocare con Noemi e tu non sei invitato – soggiunse con un risolino perfido – ma poi vorrei tornare a Montolmo, al negozio del Gabbiano, con te».

p>.(dal 7 capitolo)


Il romanzo prosegue in libreria…



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