Solo un uomo

di

Giovanni Foiadelli


Giovanni Foiadelli - Solo un uomo
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 154 - Euro 13,00
ISBN 978-88-6587-3830

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In copertina: Creative Photo all’aperto di un Giovane Uomo In Silhouette seduto al sole su una panchina in una spiaggia australiana, fotografia scattata Wategos Beach, Byron Bay in Australia © Ryan Jorgensen / 123RF.com


Prefazione

Il romanzo di Giovanni Foiadelli, dal titolo esplicito “Solo un uomo”, miscela la straordinaria vicenda umana con la convinzione che “le persone con un bagaglio di dolore possono realmente essere migliori” e la felicità deve essere conquistata attraverso questo percorso: solo grazie ad un “vissuto profondo” si prende piena coscienza di sé e si diventa protagonisti nella vita.
La storia è complessa e vede il suo inizio con Alberto e Giulia che frequentano la stessa università e si innamorano. Fin da subito, Alberto rivive le emozioni legate alla sua infanzia, è affascinato da lei e, ancor più, quando Giulia gli confessa che ha sofferto molto a causa della perdita della madre e per il fatto di essere cresciuta con un padre severo.
Lei, infatti, è la figlia di un avvocato e, quando sarà laureata, andrà sicuramente a lavorare nello studio del padre, al contrario di Alberto, che sente fortemente le difficoltà di trovare un’occupazione decente ed è frustrato nel dover subire una condizione di inferiorità.
Casualmente, dopo varie peregrinazioni e lavori saltuari, legge la pubblicazione di un bando per l’arruolamento nell’Esercito ed entra nel corpo dei paracadutisti della famosa Folgore, sopportando un duro addestramento, ma riuscendo, alla fine, a vincere la sua sfida: pare essere la possibilità che gli viene offerta dalla vita per riscattarsi e non vuole farsela sfuggire per niente al mondo.
Poco tempo dopo, decide di partire in missione con il contingente operativo, destinazione Afghanistan, ed in quel luogo incontrerà la sofferenza e la miseria, il dolore e le brutture della guerra.
L’unico spiraglio luminoso sarà rappresentato dall’incontro con Lisa, ragazza straordinaria per la sua dedizione nell’aiutare i bambini che soffrono, come volontaria nell’ospedale pediatrico di Herat: la sua figura viene, magicamente, resa viva e pulsante dalla narrazione di Giovanni Foiadelli, che la innalza a simbolo del senso di profonda umanità.
Lei ha fatto questa scelta di vita perché il suo ragazzo è morto durante un’escursione in montagna e, da quel momento, ha sigillato il suo cuore: si avverte subito che è una ragazza molto sensibile e capisce l’animo di Alberto fin dal primo momento, capta le sue fragilità e comprende il motivo che lo ha spinto ad affrontare una scelta così coraggiosa ed una missione tanto pericolosa.
Sarà proprio Lisa a stargli accanto nella sua avventura ed a proteggerlo nel suo faticoso percorso interiore alla ricerca di se stesso, sostenendolo come una fidata compagna di viaggio.
Durante la narrazione si susseguiranno numerose vicende, tra le quali la più importante è sicuramente la gravidanza di Giulia, che terrà segreta perché gelosa della “straordinaria ragazza” conosciuta da Alberto e perché insicura dell’amore che prova per lei e così deciderà di scomparire dalla sua vita.
Quando Alberto tornerà in Italia, cercherà disperatamente di ritrovarla con l’aiuto amorevole di sua madre e dell’amica Lisa.
La narrazione è sempre intensa e non perde mai smalto anche per le numerose riflessioni esistenziali e le tematiche sociali affrontate con particolare interesse e approfondita conoscenza.
Giovanni Foiadelli, con il suo romanzo, racconta l’avventura di un ragazzo che si mette in viaggio nel mondo per cercare se stesso e che porterà a termine la sua “missione di vita” grazie all’aiuto di tre donne, che risulteranno fondamentali nel suo viaggio esistenziale: Giulia, la donna che ama; la madre che gli indicherà la via giusta da seguire, e Lisa che lo sosterrà come una fedele compagna, come angelica presenza che lo condurrà verso la luce dell’amore.
Il romanzo fa emergere la facilità nel raccontare da parte di Giovanni Foiadelli che, con una scrittura fluida e precisa, mette in evidenza il travagliato percorso umano che condurrà il protagonista a diventare “finalmente uomo”.

Massimo Barile


Solo un uomo


Questo mio libro è dedicato
a tutte le donne che per l’egoismo
degli uomini hanno sofferto l’infelicità.


“Solo la luce che uno accende a se stesso,
risplende in seguito anche per gli altri”.

Arthur Schopenhauer


SOLO UN UOMO

Mi sembrò impossibile non averla mai notata prima. La scelta dell’università, seppur con indirizzi diversi, ci aveva proiettato nello stesso ateneo.
Quel giovedì di una primavera che tardava ad arrivare come il treno che mi riportava a casa dopo le giornate in classe, la vidi appoggiata alla finestra del primo piano che dava sul cortile interno della scuola. Io, con lo sguardo all’in su a voler incrociare il suo e lei, consapevole della sua bellezza, a cercare di farsi scivolare addosso la mia attenzione.
Qualche secondo ma sufficiente per un fermo immagine che ancora oggi conservo nella mia mente, come l’imprimatur indelebile di un percorso nuovo che stava iniziando; uno stato interiore diverso, così paurosamente sconosciuto ma proprio per quello, tanto intrigante.
Il viaggio di ritorno, come sempre in piedi accanto al finestrino, mi sembrò più silenzioso del solito. Assorto nel rielaborare ogni dettaglio del passato che mi potesse ricondurre in qualche modo a quella figura femminile. Mi chiesi: «Ma come è possibile tu non l’abbia mai notata?» … «È una carenza grave!!»… e via di seguito…
Avevo sempre pensato che la mancanza di curiosità rappresentasse un aspetto positivo del mio carattere. Una selettività congenita mi portava a scegliere le persone con cui rapportarmi e questo mi dava la presunzione di essere il responsabile unico del mio destino. Tuttavia, mai come questa volta, mi resi conto quanto potesse essere deficitaria una simile condotta. Potevano sfuggirmi opportunità o persone che avrei perso ancor prima di aver conosciuto.
Il resto del tempo lo trascorsi già proiettato nel giorno seguente, quando avrei cercato di ripassare sotto la finestra sperando di gustarmi la stessa scena. Ero galvanizzato ma allo stesso modo titubante nel timore di non vederla. Come mi sarei giustificato?… sarei riuscito a nascondere dentro di me la delusione e soprattutto avrei avuto la forza di credere che magari impegni diversi e indipendenti dalla sua volontà l’avessero allontanata da quel davanzale?
Mi consolai pensando che il rischio sarebbe stato ampiamente ricompensato nel caso in cui le cose fossero andate diversamente e quindi mi ripresentai alla stessa ora, nello stesso percorso, come se fosse una giusta scommessa con il destino.
Ripassai cercando la sua figura, non preoccupandomi neppure così tanto come nel giorno precedente di essere schivo e titubante nel gesto. Non la vidi ma appena superato di qualche metro il perimetro esterno dell’aula, sentii chiaramente il rumore di uno stipite sbattuto con forza. Mi girai e la vidi sorridere in un atteggiamento quasi di sfida come a dirmi: «Pensavi io fossi qui ad aspettarti?» oppure: «Credevi che io non ci fossi?»… aveva trovato un modo simpatico e forse anche giusto di farmi capire che c’era spazio per un comportamento diverso da ciò che io avevo preventivato, come se lei avesse capito ed anticipato le mie mosse!
L’aspettai all’uscita, nel punto in cui avrebbe per forza dovuto materializzarsi. Fingendomi sicuro di me, abbozzai un saluto così scontato da farmi riconsiderare le doti di grande oratore che mi ero da sempre attribuito. Presi coraggio e mi interposi tra lei e la sua probabile via di fuga, limitando al minimo le sue possibilità di rendere realizzabile quell’intento.
Dopo una brevissima presentazione, «Piacere sono Alberto» … «Ciao, io sono Giulia», la inondai di domande poste in così rapida successione come se volessi scoprire tutto di lei nel più breve tempo possibile. Accortomi della troppa pressione che le stavo addossando e volendo rimediare, me ne uscii con un: «E pensa che non sono mai stato curioso!» …e lei di rimando: «Non si direbbe davvero!»… uscito da un evidente imbarazzo riuscii ad aggiungere: «Ci si vede vero?» … la risposta non fu così soddisfacente: «Dipende, io qui ci verrò per sostenere ancora un po’ di esami prima della laurea, con un po’ di fortuna…» …mi avrebbe potuto dire qualsiasi cosa ed avrei accettato tutto, l’importante era averci parlato. Con una buona dose di ottimismo pensai di aver raggiunto il mio obiettivo; quell’approccio riuscito mi dava un minimo di garanzia per poter giocare le mie carte successivamente.
Quando mi scostai per cederle l’uscita, fece un paio di passi e poi si girò trovandomi già pronto con lo sguardo ad incrociare il suo. Solo in quel breve ma infinito momento mi accorsi di quei suoi occhi verdi; mi sembrarono grandissimi ed espressivi di un qualcosa che però non riuscivo ancora a decifrare.
Era una bellissima ragazza. I jeans stretti le fasciavano il bacino evidenziando le sue forme perfette. Al contrario, il dolcevita le saliva al collo lasciando solo l’immaginazione ed i lunghi capelli sciolti le incorniciavano il viso.
Pensai che se quel corpo imprigionasse una sola parte di ciò che emanava, sarebbe stato uno scrigno di meraviglie. Io però questo lo potevo solo supporre.
Le giornate a venire furono piene di aspettative, in parte ricambiate da un reciproco interesse che ci portava a volerci trovare nei ritagli di tempo nella scuola. Poi, successivamente, organizzammo incontri sempre più mirati e frequenti. La pausa pranzo da condividere e poi insieme per la via che portava alla stazione, sperando che questa si allungasse ad ogni nostro passo.
Vivevamo in simbiosi, come due fili dello stesso aquilone; non sapevamo in che direzione il vento soffiasse ma ci piaceva volare insieme.
Le giornate si modellavano seguendo i ritmi degli incontri e delle nostre telefonate.
Erano emozioni vere che favorivano l’elaborazione degli amarcord più significativi della mia vita trascorsa.
Era come voler comparare le sensazioni più belle vissute in passato a quelle che provavo in quei giorni per eguagliarle e provare così gli stessi stati d’animo.
In questo percorso mentale, rivedevo le immagini della mia gioventù che sfogliavo nella mente come un album fotografico a volte in bianco e nero, a volte a colori…
Le lunghe vacanze, finita la scuola, rappresentavano le occasioni migliori per rivivere quei ricordi.
Tre mesi, isolati dal resto della civiltà, in un paesino di cento anime arroccato ai piedi di montagne impervie, dove il contesto ti imponeva di rapportarti al mondo circostante in modo primordiale ed essenziale.
Riassaporavo queste estati trascorse con i fratelli ed i cugini. Gli odori dell’erba appena tagliata e del sottobosco così vivo sotto i nostri piedi. Le gite spensierate con lo zaino in spalla e l’immancabile coperta per sdraiarci al sole, esausti dopo ore di cammino. Le corse per raggiungere le vette per primi e poter ammirare le vallate di sotto che sembravano perdersi all’orizzonte nella loro vastità.
Partivamo alla mattina presto e camminavamo per gran parte della giornata. Imparammo subito che le condizioni climatiche in montagna cambiano repentinamente. Il tempo faceva capricci come una donna viziata consapevole della sua bellezza. Acquazzoni improvvisi ci costringevano molto spesso a cercar rifugio nelle baite usate come ricovero per gli animali al pascolo. Tutti stretti nel calore della stalla a sorseggiare il latte appena munto dalle vacche ed ancora caldo. Qualche volta univamo anche un piatto di polenta preparata dal mandriano e cotta pazientemente nell’enorme paiolo di rame annerito sul fuoco. Cibi semplici, genuini, che in certe situazioni non valevano solo come risorsa calorica ma, più congiuntamente, nutrivano il corpo e la mente.
Ci sentivamo pienamente integrati con la natura. La mancanza di ogni comodità ed il distacco dalla città, ci costringevano a scendere a patti con la ruvidità del mondo circostante; diventammo abili nel dover trarre il massimo dal minimo di ogni cosa.
Godevamo di tutto ciò che il bosco poteva offrire. La raccolta dei funghi, di mirtilli, delle lumache, sempre come un gioco ma nel rispetto verso qualsiasi espressione e forma di vita intorno.
E poi il camino perennemente acceso, che agli occhi di noi piccoli sembrava ancora più grande; al centro di tutta la vita domestica, era usato per cucinare, per scaldarci, per asciugare i vestiti.
Due panche intorno al fuoco, dove poter raccoglierci tutti insieme per raccontare storie, ascoltare aneddoti, cantare. Le infinite partite a carte prima di coricarci nei lettoni enormi in stanze spoglie e perennemente fredde. Quel paesino sperduto e quasi inaccessibile non offriva proprio nulla oltre alla tranquillità. Solo nel mese di agosto si vivacizzava con l’arrivo di qualche coraggioso turista e quello, per noi, era già motivo di interesse.
Eravamo una decina di fanciulli con un’età compresa tra gli otto ed i quattordici anni. In quel contesto così precario, ognuno doveva rendersi utile in qualche modo. Avevamo creato dei turni per le pulizie, per la raccolta della legna, per lavare i piatti dopo il pranzo e la cena… tutto organizzato come una piccola caserma!! Le zie con le mani sempre a mollo negli enormi catini, dedite al lavaggio della biancheria. Il profumo del bucato appeso ad asciugare nelle stanze, faceva contrasto con l’odore forte della legna bruciata e della resina.
Profumi ed odori stampati nella mente che a distanza di tanto tempo mi sembrava di poter riconoscere in modo distinto ed inequivocabile.
Stavamo tutta la settimana con le nostre mamme. Poi al venerdì pomeriggio, come in un giorno di festa, percorrevamo la strada fino al ponte da dove si poteva scorgere la salita tortuosa ed aspettavamo che sbucasse l’auto dei nostri papà. Venivano da noi finito il lavoro per restarci fino al lunedì mattina, quando avrebbero fatto ritorno alle loro fabbriche.
Era il nostro piccolo “sabato del villaggio” leopardiano, nel nostro intimo a godere delle piccole cose che in certi momenti diventavano le più grandi, a riempirci il cuore.
Un modo di vivere che portava a condividere e dare una giusta collocazione ai valori veri che crescevano e si rafforzavano dentro di noi.
Camminando accanto a Giulia, rivivevo gli stati d’animo di questo benessere emotivo. Percepivo ogni cosa sotto una prospettiva diversa, tutto mi sembrava migliore, esteticamente più bello; mi sentivo musicista in un’orchestra di archi e fiati che producevano suoni celestiali.
In questa nuova visione e riconsiderazione di tutto ciò che mi stava attorno, riuscivo a distinguere la sensazione prodotta dal muoversi delle farfalle nello stomaco. Ne avevo sentito parlare tante volte ma avevo archiviato la faccenda pensando che la questione fosse soggettiva e non riguardasse tutti. Invece, avevo trovato anch’io le “mie ali” ed avevo iniziato il mio volo… mi stavo innamorando!!!
Capire di essere contraccambiato sentimentalmente mi riempiva di benessere e di prospettiva.
Nei nostri incontri lei mirava a scavare nel profondo della mia interiorità. Intuivo che con quelle domande mi voleva capire di più. Cercavo di farmi trovare pronto articolando le mie risposte nel modo più esaustivo possibile e soprattutto sincero.
Un pomeriggio di maggio, in una giornata assolata ma fresca, ci recammo in un bellissimo posto su una collina dalla quale si dominava a perdita d’occhio la pianura sottostante. Dopo aver camminato raccogliendo qualche fiore cercando di comporne un mazzo, giungemmo in una piccola radura. Ci abbracciammo senza pudore in un intreccio di passione, così da rendere magico anche il solo respiro.
Mi portavo sempre carta e penna per poter scrivere od appuntare qualcosa. Era un modo per enfatizzare le mie emozioni e cercare di condividerle. Volevo imprimerle e renderle indelebili nel tempo come testimonianza di un vissuto profondo.
Giulia ad un tratto mi guardò e quasi sussurrando mi chiese: «Non hai paura di soffrire?» risposi: «Se la mia sofferenza deve passare per questa felicità, che ben venga»; rimase a fissarmi per qualche secondo e poi mi disse: «Io ho paura di soffrire e so che con te soffrirò»… cercai di rassicurarla in un abbraccio ancora più intimo ma mentre la stringevo al petto mi domandai che cosa avesse voluto dirmi e un po’ mi inquietai, non trovando risposta.
Ero stato bene quel pomeriggio ma per la prima volta mi trovai spiazzato da un’affermazione che mi turbò proprio per la sua apparente infondatezza, come se lei si sentisse scossa da un presentimento che per me non aveva ragion d’essere… non c’erano nubi nel nostro cielo, avevamo dei progetti, la nostra gioventù e tanta voglia di vivere amandoci.
Ritornai nei giorni seguenti su quella domanda che non mi dava tranquillità e le chiesi con tono deciso: «Ma cosa intendevi dire l’altro giorno?» … «Perché hai parlato di sofferenza?» mi rispose cadenzando le parole e soppesandole come a voler esprimere un concetto assai delicato: «Io oggi sono felice con te ma so che la felicità porta sempre in dote la sua parte di pegno.» «La felicità non ci viene regalata ma va conquistata attraverso un percorso di dolore ed io sono consapevole di questo.»
Erano concetti straordinariamente complessi, anche troppo per una ragazza di soli ventiquattro anni. Cercai di scoprire quale fosse la fonte di tanta amarezza e, cercando le parole meno impertinenti, le chiesi con coraggio, di andare oltre nella spiegazione.
A quel punto, abbassando gli occhi e richiudendosi nelle sue spalle quasi in un gesto di difesa, mi confidò che all’età di dodici anni aveva perso la madre in un incidente d’auto. Non aveva fratelli ed era cresciuta con un padre severo che le voleva bene ma che, nonostante gli sforzi, non era riuscito a compensare pienamente la mancanza dell’affetto materno.
Quel trauma le provocò anche problemi comportamentali. Con il padre fece molti viaggi all’estero in strutture specializzate per la cura di quelle patologie. A quattordici anni restò sei mesi in una clinica della California a lottare da sola contro i fantasmi dell’anoressia.
Superata questa crisi esistenziale e rientrata in Italia, si trovò a fronteggiare tutte le problematiche adolescenziali senza una figura femminile vicino. Anzi, dovette ben presto assumersi gli oneri della casa cercando di coniugare lo studio con tutto il resto.
Era dovuta crescere in fretta, anticipando tutte le fasi della sua giovinezza. Questo l’aveva maturata ma anche segnata nell’animo e resa disincantata nelle sue aspettative.
Ascoltando quei racconti non potei non provare disagio. Forse non avrei dovuto porle quella domanda ma era altrettanto vero che, conoscendo questi fatti, sarei riuscito a riconsiderare tante cose e capirla certamente di più.
Quelle parole mi riportarono ai discorsi di mia madre. I due pensieri combaciavano in modo sorprendente, gli stessi concetti ascoltati anni prima con espressioni diverse ma che pesavano allo stesso modo. Due donne a distanza di tempo mi avevano regalato la stessa saggezza. Mi volevano dire che un giorno sarei stato veramente felice se avessi imparato ad accettare il disagio del dolore e da queste ceneri trovare la forza di rinascere ogni volta. In quei passaggi, avrei potuto imparare la vita che ci mette di fronte a scelte continue in una sfida infinita.
Di mia madre avevo sempre apprezzato la serenità e la semplicità nell’accettare le vicende esistenziali. Trovava sempre la positività in tutto. Il bicchiere per lei era sempre mezzo pieno. Anche di fronte alle situazioni più deplorevoli e controverse, trovava sempre il modo per giustificare tutto e tutti. Il suo buonismo a misura d’uomo, permeava indistintamente tutti quelli che si interfacciavano con lei. Emanava serenità come un’aurea tutta intorno e chi ne entrava in contatto la poteva respirare.
Ascoltando Giulia mi sembrò di rivivere quella stessa filosofia, propinata in modo moderno, che si materializzava in un corpo più giovane ed in uno sguardo più vivace.
Nelle settimane che seguirono, dedicammo molto tempo allo studio con l’obiettivo di arrivare a sostenere gli ultimi esami prima della tesi. Giulia, più diligente di me e meno dispersiva, lanciatissima nella sua facoltà di Giurisprudenza. Io, leggermente in ritardo sulla mia personale tabella di marcia e proiettato in quella di Architettura.
La sua era stata una scelta ben ponderata. Quando le chiesi curiosamente di motivarmi quell’indirizzo mi aveva risposto testuale: «Mio padre è avvocato civilista ed ha uno studio avviato in centro città» … e proseguì: «Una volta laureatami, lo potrei affiancare in ufficio facendo pratica.»
Le sue motivazioni mi sembrarono logiche in contrapposizione con le mie che seguivano invece itinerari più romantici e decisamente meno razionali. Non ero mai stato una persona concreta e quel suo ragionamento me lo evidenziò in modo ancor più diretto. Mi giustificai pensando che non avevo le sue possibilità e che quindi la mia scelta non era poi così deprecabile!
Ciò nonostante, non potei non provare una senso di inferiorità. Mi sentivo, nell’evitabile confronto, come un cavallo che partiva azzoppato per la corsa della vita. Mi confortai confidando nelle doti che un po’ presuntuosamente mi attribuivo e che pensavo mi avrebbero certamente aiutato a colmare parte dello svantaggio. Del resto mi ero sempre dato da fare. Essendo cresciuto in una famiglia con poche risorse economiche, mi ero dedicato con lodevole impegno in lavoretti estivi anche molto umili durante gli anni del liceo; in lavori a part-time negli anni successivi. La buona volontà non mi faceva certamente difetto e consideravo questa virtù un pregevole viatico.
Le esigenze erano senz’altro diverse. Gli impieghi estivi finita la scuola, mi servivano per far fronte alle piccole mie spese e per acquistare il mio primo scooter. Viceversa, durante l’università, il bisogno di pagarmi gli studi richiese guadagni più cospicui e continuativi.
Le occupazioni erano senz’altro di pochissima soddisfazione. Tuttavia mi resi conto con il passare del tempo che erano stati una buonissima palestra di vita. Come asseriva da sempre mio padre nelle sue perentorie disamine, in questo modo avrei dato il giusto valore alle cose ed al denaro così faticosamente guadagnato. Divenni quindi un discreto operaio alla catena di montaggio, successivamente un gelataio con mansioni di cella frigorifera, poi ancora un mulettista in una azienda chimica ed infine cameriere.
Quest’ultimo impiego l’avevo trovato sotto casa, nel ristorante-pizzeria dove ogni tanto andavo con la famiglia, (quando ce lo si poteva permettere), a mangiarmi una pizza oppure un discreto fritto misto.
Con il tempo ero diventato amico del proprietario, un uomo cresciuto tra le nebbie padane ma di origine siciliana, che mi aveva preso a ben volere.
Quando gli esposi il mio bisogno non esitò ad acconsentire. Chiarì fin da subito che le mie mansioni sarebbero state molteplici. Avrei dovuto servire ai tavoli ma anche occuparmi delle pulizie a fine serata e, più in generale, di ogni funzione che si sarebbe resa necessaria, nessuna esclusa.
Questo era l’aspetto meno gratificante perché spesso si finiva tardissimo. Ero comunque felice di poter guadagnare del denaro e di non essere un peso per la mia famiglia. Questa prospettiva mi riempiva di orgoglio.
Passarono alcuni mesi, Giulia stava ultimando la sua tesi. Ci si vedeva un po’ meno ma capivamo entrambi con una certa maturità che il momento di particolare impegno, richiedeva il sacrificio da parte nostra.
Una mattina, durante la colazione consumata velocemente appoggiati al bancone di un bar, lei mi comunicò la data in cui avrebbe dovuto sostenere la tesi. Mi resi conto che un po’ di preoccupazione le toglieva la consueta serenità.
Il giorno prima dell’esame, sentimmo l’esigenza condivisa di stare un po’ di tempo insieme in modo intimo e la nostra scelta ricadde sulla stanza di un Hotel che ci prendemmo per tutto il pomeriggio. Della stanza e di ciò che essa racchiudeva non ci importò nulla. Spegnemmo le luci accendendo i nostri cuori per creare un momento di atmosfera ancor più magica, in modo che nulla potesse distrarci in quell’abbraccio di passione che ci stava travolgendo. I nostri corpi, intrecciandosi come il legno di vite, si muovevano all’unisono seguendo il ritmo del nostro respiro tanto profondo e complice da sembrare di un fiato solo.
Facemmo l’amore per qualche ora sentendoci realmente una cosa unica. In quei momenti ci sentimmo invincibili e, con la perdonabile arroganza di chi non ha vissuto abbastanza per aver conosciuto quanto imprevedibile possa essere la vita, ci dicemmo: «Non ci lasceremo mai!»
Il giorno della tesi prendemmo accordi precisi. L’avrei raggiunta nell’ateneo per ultimo e mi sarei defilato nelle ultime file dell’aula per non suscitare in lei emozioni che l’avrebbero potuta condizionare durante l’esposizione orale.
Quando arrivai nell’aula notai subito un’atmosfera distesa, come se l’esito fosse già acquisito e naturalmente mi rallegrai per questo, ritenendolo un buon auspicio.
Vidi subito in prima fila la figura imponente ed austera di suo padre spiccare in un vestito gessato molto elegante. Severo e fiero negli atteggiamenti come a voler legittimare ed ostentare la sua paternità.
Io presi posto tre file dietro accanto ad Angela e Martina, le sue due amiche del cuore, anch’esse laureande. Cercai di collocarmi in modo da poter vedere Giulia senza che lei potesse fare altrettanto, in accordo a ciò che si era stabilito.
L’esame andò bene con una votazione alta. Tuttavia, il fatto che non avesse raggiunto il massimo del punteggio con la lode, non la soddisfò pienamente. Ai miei complimenti sinceri, replicò: «Potevo far meglio!» tanta severità con se stessa mi sembrò esagerata e fuori posto. Non potei non pensare a quello che sarei riuscito a fare io quando, dopo qualche mese, mi sarei trovato davanti ai docenti. Come altre volte provai un senso di disagio nell’inevitabile confronto e pensai: «A lei riesce tutto facile!…» e poi «Ma se è così severa con se stessa, come sarà con me?»
Scacciai quei pensieri che rischiavano di condizionare il giorno di festa. Ci raccogliemmo tutti, amici e parenti, nel ristorante da lei preferito dove, tra i fiori più graditi, tanti sorrisi e cibo buonissimo, celebrammo in modo equilibrato e parcamente gioioso il traguardo raggiunto.
All’indomani decisi di proiettarmi con rinnovato e crescente impegno verso il mio obiettivo scolastico. Approfittando del fatto che Giulia aveva iniziato a lavorare nello studio del padre, colsi quegli spazi temporali come un’opportunità da sfruttare in pieno.
Preparai in modo diligente la mia tesi. Cercai di arrivare a questo appuntamento importante con coscienziosa preparazione e voglioso di laurearmi nel migliore dei modi. Ero convinto che questo sarebbe stato l’inizio di un percorso ricco di soddisfazioni lavorative che mi avrebbero permesso di portare avanti il mio progetto di vita con Giulia… una casa, dei figli e la felicità come conseguenza di tutto questo.
Negli ultimi esami prima della tesi, mi ero accontentato di qualche voto inferiore alle mie possibilità. Avevo dato una brusca accelerata per recuperare il terreno perso negli anni precedenti anche se, intensificando la scaletta degli esami, non ebbi la possibilità di prepararli al meglio. Del resto, per me, era più importante raggiungere velocemente il traguardo. Non accettavo serenamente il fatto che Giulia lo avesse fatto prima e già lavorasse!
Arrivò anche per me il fatidico giorno. In un’aula un po’ dismessa mi presentai ad esporre il mio lavoro al giudizio dei professori, con una buona dose di fiducia e soprattutto con la voglia di chiudere un capitolo ed aprirne velocemente un altro.
Giulia mi ricambiò con la sua presenza. Contrariamente a ciò che mi aveva detto mesi prima in modo scaramantico, volle vedermi prima dell’esame per incoraggiarmi e farmi il migliore “in bocca al lupo”.
L’esame andò bene ed ottenni un punteggio oltre le mie previsioni, avvicinandomi molto a quello raggiunto da Giulia. A differenza sua ero palesemente soddisfatto e lo feci notare a tutte le persone che a turno mi si avvicinarono per i complimenti.
A me però interessava soprattutto il parere di Giulia. Questo fu molto positivo ed ebbi la certezza che fosse anche sincero, quando lo motivò con apprezzamenti tecnici e didattici che mi convinsero pienamente. Guardandola dritta negli occhi nella fierezza del mio sguardo era come se le dicessi: «Hai visto che ce l’ho fatta anch’io?» per la prima volta mi sentivo paritetico su qualcosa di importante.
Catapultato con entusiasmo in questa nuova realtà, mi impegnai subito nella ricerca di un’occupazione che fosse attinente ai miei studi od almeno soddisfacente dal punto di vista economico. Quindi le mie giornate si divisero tra il ristorante ed il computer collegato ad internet, nel tentativo di trovare proposte lavorative in linea con le mie aspettative.
Nel frattempo Giulia procedeva nel suo lavoro d’ufficio ma mostrava un po’ di insofferenza per il fatto che ci si vedeva sempre meno. I nostri orari non combaciavano per nulla. Lei si era sempre dimostrata rispettosa nei miei confronti. Tuttavia, quel mio lavoro serale tollerato durante gli studi le andava adesso stretto perché limitava, e non di poco, la nostra frequentazione.
Anche per questo motivo mi spronò a trovami un’altra occupazione. Il tempo che passava senza riuscirci pesava ad entrambi, seppur per ragioni diverse.
Nelle prime settimane trovai fisiologico non avere riscontri alle numerose domande inoltrate. Con il passare del tempo però la fiducia cominciò a vacillare. Raramente mi capitava di essere convocato per dei colloqui e quando accadeva le risposte erano sempre le stesse: «Le faremo sapere noi.»
Sinceramente non capivo cosa non funzionasse. Il curriculum era di tutto rispetto, mi presentavo ben vestito, con un viso da bravo ragazzo e con una buona dialettica… però nulla.
Confidavo le mie amarezze a Giulia che con la sua sensibilità sapeva rincuorarmi trovando le parole giuste, mai troppo severe e nemmeno di circostanza. Lo apprezzavo tanto ma tutto ciò non bastava a calmierare il mio disappunto.
Mi dicevo: «Lei parla in questo modo perché ha una posizione diversa dalla tua…» e poi mi chiedevo: «Per quanto tempo ancora riuscirà a parlarmi in questo modo?»
Mi recavo alla mia attività serale con il proposito di relazionarmi con i nuovi clienti che vedevo seduti al tavolo. Confidavo sul fatto che alcuni di essi potessero avere delle attività nelle vicinanze. Ovviamente parlavo con tono sommesso per non farmi sentire e con la preghiera che non divulgassero ad altri questa mia esigenza; non volevo che le chiacchiere venissero all’orecchio del mio titolare che era stata l’unica persona a tendermi la mano nel momento del bisogno.
Nonostante il mio rinnovato impegno, sembrava che tutto mi giocasse contro. Pensai che il destino mi avesse girato le spalle e la mia buona stella si fosse irrimediabilmente offuscata.
La conferma di tutto ciò la ebbi una sera quando il titolare del ristorante, avvicinandosi in cucina mentre ero intento a caricare sul vassoio le pietanze da servire ai tavoli, mi disse che a fine serata, mi avrebbe dovuto parlare.
Come un buon padre di famiglia, cercò di essere il più morbido possibile e mettendomi le sue mani grandi e forti sulle spalle mi disse che non avrebbe più potuto tenermi con lui. C’erano stati dei controlli fiscali nell’esercizio ed era emersa la mia posizione irregolare. Il lavoro in forte calo per la crisi economica ormai consolidata, non gli avrebbe permesso di assumermi con le modalità previste dalle normative di legge.
Non ebbi la forza di replicare, ascoltai in silenzio le motivazioni ed abbassando leggermente il capo in segno di sconfitta, mi allontanai con passo lento verso l’uscita.
Quella notte non riuscii a dormire. Un senso di prostrazione si incuneò nei miei pensieri. La mia preoccupazione più grande fu quella di trovare il modo di dirlo a Giulia. La mattina seguente il mio cellulare non squillò per il solito buongiorno e trovai strano che lei non mi avesse chiamato, in quella che era diventata una sua abitudine. Ciò nonostante non ne fui dispiaciuto, era come rimandare una problematica che francamente mi metteva in difficoltà.
Mia madre, che era solita prepararmi la colazione con premurosa cura di non scordarsi nessuno dei miei alimenti preferiti, si accorse subito del mio malumore e gli confidai la brutta notizia. Con i gesti e le parole che solo una mamma sa usare con un figlio, cercò di rincuorarmi ed anche quel poco, in quel momento, mi sembrò tantissimo.
Nel pomeriggio, dopo aver riflettuto a lungo, ruppi l’indugio e la chiamai. Il mio tono di voce tradiva una certa emozione e quindi, senza fare altri giri di parole, le dissi: «Sono senza lavoro…» ci furono cinque secondi di silenzio che mi sembrarono interminabili e lei riuscì a dirmi: «Ma come senza lavoro?» «Sono stato allontanato dal ristorante per motivi che poi ti spiegherò…» ed ancora: «Scusami, ma ora non ho voglia di aggiungere altro» e mentre stavo riattaccando, riuscii a percepire solamente da parte sua un: «Mi dispiace…»
Per la prima volta nella mia vita mi sentivo davvero male. Svuotato di energie, confuso e soprattutto nuovamente a tormentarmi con il pensiero di essere inadeguato per Giulia.
Dopo qualche giorno in cui scelsi di non condividere con nessuno le mie delusioni e fallimenti, cercai di reagire. Decisi di recarmi in una libreria alla ricerca di un buon testo da leggere. Mi diressi verso un centro commerciale al cui interno, si trovava un negozio fornitissimo di produzioni e di titoli.
In quell’esercizio ci restai a lungo, passando ripetutamente da uno scaffale all’altro. Non sapevo cosa cercare esattamente ma mi sentivo a mio agio in quel contesto, come se avvertissi che tra quelle migliaia di edizioni esistessero, celati tra le righe, buoni antidoti alla mia prostrazione.
Scelsi un paio di libri e con la convinzione di avere una soluzione tra le mie mani, mi avviai verso la cassa. Fu a quel punto che scorsi la figura di Giulia che avvicinatasi mi disse: «Sapevo di trovarti qui…» quell’affermazione mi stupì. Era certamente a conoscenza della mia passione per la lettura ma non credevo avesse potuto avere quell’intuito. Non pensavo che la sua sensibilità la portasse a chiudere il cerchio in quel modo. Evidentemente mi conosceva più di quel che immaginavo e sapeva di trovarmi in quello che lei pensava, giustamente, essere il mio rifugio.
Nonostante l’umore pessimo ed il mio stato d’animo, non riuscii a non palesare un sorriso di compiacimento misto a stupore. Avevo cercato di escluderla dal mio momento di infelicità ma lei, ancora una volta, aveva trovato il modo più giusto per starmi vicino. Mi conosceva, mi capiva, mi rispettava, mi amava.
Nell’ora seguente parlammo in modo fitto ma nonostante la buona volontà di entrambi riaffiorarono, nemmeno tanto velate, le nostre divergenze. Lei fiduciosa, era convinta che con la pazienza si sarebbe risolto tutto. Io, al contrario, mi incolpavo senza sconti e quel mio disagio ricadeva anche su chi mi stava vicino. Non riuscivo a controllare la mia emotività che scaricavo su di lei, pur sapendo in cuor mio, che non si meritava quel mio comportamento.
Questa mancanza di serenità stava minando il nostro rapporto. Non riuscivo a trovare le risorse e gli atteggiamenti idonei per rimediare a questo senso di inadeguatezza. Una frustrazione latente impregnava ogni mio gesto e pensiero.
Si propose di accompagnarmi a casa ma declinai l’invito e gli dissi che avrei preferito far ritorno a piedi in assoluta solitudine. Ritenevo che l’aria fresca sul viso mi avrebbe aiutato a destarmi da quel torpore. Camminare di buon passo mi avrebbe certamente giovato, ne ero certo. Percorsi la via tra le file dei lampioni che proiettavano a terra la mia ombra schiacciandola fino a renderla allungata ed indefinita.
Durante quel tragitto mi accorsi di una locandina affissa su una parete a ridosso di una fermata per gli autobus. Il manifesto, sgargiante di colori vivaci che ne esaltavano le scritte a caratteri cubitali, pubblicizzava l’invito ad arruolarsi nell’Esercito.
Francamente non avevo mai preso in considerazione una simile ipotesi ma in quel momento mi sembrò una buona possibilità, degna quanto meno di essere valutata.
Tornai a casa e, come investito da un vigore nuovo e da una prospettiva diversa, incominciai a cercare freneticamente on line qualsiasi notizia che riguardasse questo argomento. Navigai per qualche ora ed a fine giornata mi ero già fatto una buona idea su ciò che mi interessava.
C’era la possibilità di entrare nell’Esercito con un buono stipendio e l’occupazione sarebbe stata a tempo indeterminato. Del resto che alternative avevo? Non ero nella condizione di inseguire i miei sogni e dedicarmi all’architettura. Ancor meno potevo permettermi di aspettare oltre per veder modificato il mio status di disoccupato!
Sapevo perfettamente che Giulia non avrebbe condiviso questo mio progetto ma non intravedevo altre strade percorribili.
A dire il vero l’alternativa me la trovò velocemente lei. Dopo averla informata telefonicamente su ciò a cui stavo pensando ed averle creato non poca apprensione, mi disse che la mia idea non le pareva una buona soluzione e che lei non la condivideva affatto. Prima di riattaccare, mi fece sapere che mi avrebbe richiamato la mattina seguente con delle proposte.
Verso le 9,00 il mio cellulare si mise a trillare e, con una certa curiosità, aprii la conversazione. Tutto d’un fiato e senza lasciarmi lo spazio per una replica mi disse che avrei potuto lavorare nello studio di suo padre con una mansione qualsiasi. Dopo averla ascoltata nella sua proposta, le dissi chiaramente che non avrei accettato.
Motivai questa mia esternazione pensando e dicendole che non rappresentava una soluzione logica. Non avrei potuto sentirmi utile in nessun modo ed interpretai questo gesto come una carità a fondo perduto che andava a ledere profondamente il mio orgoglio.
Lei mi chiese di ripensarci. Acconsentii anche per non dare l’impressione di aver assunto questa rigida posizione solo per un stupido puntiglio.
Riflettendo di nuovo su tutta la faccenda, mi convinsi ancor di più che le mie perplessità erano fondate. Per avvalorare la mia tesi, mi domandai: «Ma se questa era una strada percorribile, perché non mi è mai stata proposta prima?» e poi: «Perché solo adesso nonostante sapesse del mio disagio che durava da tempo?» Evidentemente in quelle mie domande c’erano implicite anche le risposte; mi aveva sottoposto una soluzione che non era logica. Era solo un tentativo per non farmi fare scelte che ci avrebbero allontanato.
Oltre a queste ragioni che già mi bastavano, aggiunsi l’ulteriore convinzione che sarei stato mal sopportato da suo padre. Avrebbe tollerato la mia presenza in ufficio solamente perché convinto, e non sapevo in che modo, da sua figlia.
Tutti questi ragionamenti mi portarono a declinare l’offerta ed a proseguire nei miei nuovi propositi.
Ciò nonostante ero grato a Giulia per i suoi pensieri ed i gesti che, giusti o sbagliati, avevano sempre una finalità positiva e tendevano a voler tutelare il nostro rapporto da insidie di qualunque tipo.
Il sabato successivo la invitai a cena in un ristorante che era il meglio di ciò che mi potevo permettere in quel momento. Non lussuoso ma molto carino, soprattutto intimo, con candele e qualche fiore ad abbellire la sala. Ci defilammo nell’angolo più appartato, non tanto per un’esigenza di intimità ma piuttosto per avere la tranquillità che mi serviva per argomentarle le mie ragioni. Giulia scrutò come al suo solito tutto ciò che ci circondava, la tovaglia finemente ricamata, gli ampi calici pronti ad accogliere vini importanti ed i quadri alla parete. In un’altra occasione sarebbe stato tutto perfetto, splendido.
Tutto sembrava complice ma le questioni delicate da affrontare fecero svanire un po’ di questa magia.
Ero molto teso e le mie mani, che si muovevano nervosamente sul tavolo, lasciavano intuire tutta la mia inquietudine.
Ero solito approcciare il calice con un certo rispetto e mi piaceva dilungarmi nel commentarne il contenuto. Adoravo condividerne le sensazioni con la persona al mio fianco, era un mio modo per coniugare i sensi. Una sinergia emotiva a cui davo una certa importanza.
Quella sera non seguii tutte le procedure come era nelle mie abitudini. Altre esigenze mi distraevano.
Mi adoperai senza risparmio nel supportare la mia scelta e soprattutto cercai di tranquillizzarla sul fatto che la nostra storia non si sarebbe compromessa. Le dissi che il nostro amore avrebbe vinto anche sulla lontananza. Le resi noto che sarei tornato in licenza ogni due mesi per un periodo di una settimana, cercando di darle un minimo di serenità. I miei guadagni li avrei accantonati per una buona parte, essendo stipendiato al netto del vitto e dell’alloggio. Mi ascoltò in silenzio, rassegnata al fatto di aver capito che ogni sua obiezione sarebbe caduta nel vuoto di fronte alla mia determinazione. Un velo di tristezza spense la sua consueta solarità.
Non potevo pretendere che il suo stato d’animo fosse diverso e la capivo. Mi accontentai di essere rispettato e creduto nelle mie ragioni, anche se il vederla così dispiaciuta e demotivata mi procurò non pochi sensi di colpa.
Non fu una cena da ricordare per ciò che mangiammo o per altri futili dettagli, ma solo per una sintonia che sentivamo venir meno. Una crepa si stava facendo strada nella solida fortificazione in cemento armato che ci eravamo costruiti tutto intorno e che ritenevamo, fino a quel momento, inscalfibile.
L’accompagnai a casa, nella fredda nottata con il gelo sulla pelle e nell’anima. Sentivo l’esigenza di abbracciarla forte ma non trovai la convinzione per farlo e sentii che la sensazione era condivisa anche da Giulia. La netta percezione che la magia chimica della nostra pelle stesse svanendo, come il profumo di un’essenza lasciata per troppo tempo fuori dal suo contenitore di vetro.
Convinto più che mai nel voler dare una svolta decisiva alla mia vita, mi prodigai nel divulgare questo mio proposito ai componenti della mia famiglia ed agli amici, raccogliendo pareri disgiunti. Del resto non cercavo il consenso unanime. Pensai solo fosse giusto informare chi mi stava vicino e faceva parte della mia vita.
Dopo aver controllato la modulistica per l’iscrizione ed aver riscontrato di possedere i requisiti necessari, compilai la domanda allegando i documenti richiesti e la inoltrai, via mail, al Ministero della Difesa.
Avrei dovuto sostenere delle visite mediche approfondite. Non mi preoccupai di questo aspetto ritenendomi in buonissime condizioni fisiche. In effetti tutto andò per il meglio ed in tempi abbastanza rapidi, mi fu concessa l’idoneità. Con moderata soddisfazione appresi la risposta positiva ed ovviamente la comunicai a Giulia e poi ai miei famigliari.
Eravamo ai primi di marzo. Avevo un paio di mesi per organizzarmi prima della partenza e, sebbene questa tempistica mi sembrò più che sufficiente, mi diedi da fare per ottimizzare al meglio il periodo restante. C’erano da valutare questioni logistiche, dettagli tecnici e non volevo lasciare nulla al caso. Ogni particolare avrebbe avuto una sua importanza e non bisognava sottovalutare niente. Dovevo essere puntiglioso e tenace, l’obiettivo lo richiedeva. Come al mio solito mi documentai anche attraverso la lettura. Acquistai alcuni volumi dedicati al paracadutismo militare. In particolare un libro che contemplava le gesta eroiche della brigata “Folgore” durante la battaglia di El Alamein, dove il corpo si consegnò alla storia ed all’immortalità. Il poter far parte di una compagine con trascorsi così valorosi e dai contenuti elitari, mi riempiva di sano orgoglio.
Nelle settimane seguenti, cercai con assiduità Giulia. Avevo bisogno di lei e trovammo il modo di vederci con una certa frequenza, quasi a voler rinfrancare il nostro rapporto che, ultimamente, aveva scricchiolato nelle problematiche. Volevo dimostrarle che l’amavo. Lei non lo proclamava, lo faceva capire in ogni suo gesto, accettando, seppur a malincuore, le mie decisioni, anche se davvero scomode.
La settimana prima della partenza fu complicata dal punto di vista sentimentale. Avevamo rinsaldato il nostro rapporto, ci si amava, ma avvertivamo l’inizio di una stagione diversa e per molti versi sconosciuta. Nei tre anni trascorsi insieme non avevamo mai dovuto gestire una lontananza forzosa così importante e quindi nutrivamo una giustificata preoccupazione.
Arrivò la data fatidica del 20 maggio. La mattina della partenza, mi accompagnò alla stazione.
Fardellato con valigie e borsoni come un emigrante dei primi del Novecento, provai l’angoscia di chi parte per un viaggio senza ritorno e lascia tutto e tutti per sempre. Naturalmente la parte più razionale di me mi diceva che le cose non stavano così ma, nonostante questo, non riuscii a ritagliarmi uno stato d’animo diverso.
Salutai Giulia come avevo visto fare mille volte nei film, ed anche se avevo pianificato un comportamento diverso, alla fine andò esattamente come in quelle pellicole. Qualche lacrima solcò le nostre guance ma senza traccia di vergogna.
Il viaggio in treno, destinazione Pisa, durò circa quattro ore. In classe economica con i bagagli sistemati appena sopra la mia testa. A metà percorso durante una fermata in stazione, scesi velocemente ad acquistare un panino ed una bibita per contrastare i sintomi di una fame nervosa.
Dai finestrini vidi scorrere il paesaggio nei colori di una stagione prossima all’estate e con esso, anche un po’ della mia vita passata.
Nello scompartimento mi guardai intorno cercando di indovinare le destinazioni dei viaggiatori. Pensai che ognuno di loro avesse una storia da raccontare e che quelle valigie stipate accanto alla mia, ne contenessero una parte. Il treno sferragliava con il suo stridore monotono quasi a voler scadenzare i miei pensieri. Durante il tragitto ebbi tutto il tempo per immaginare ciò che avrei trovato al mio arrivo.
Cercai di prospettarmi il peggio per costruirmi una realtà migliore delle aspettative. Il fattore psicologico avrebbe avuto un’importanza fondamentale per poter approcciare nel modo migliore la mia nuova esperienza. Sapevo che sarebbe stata dura, dovevo solo verificare quanto.

[continua]


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